Fantasmi materici – Bataille e Lars Von Trier contro l’architettura

Fantasmi materici – Bataille e Lars Von Trier contro l’architettura
[Tempo di lettura: 8 pignalenti]

Il saggio intitolato “Notre-Dame de Rheims” è l’esordio fantasma dello scrittore francese Georges Bataille. Occultato e ignorato per lungo tempo, questo scritto spettrale è riemerso solo dopo la morte del suo autore, creando non poco imbarazzo tra i suoi interpreti. In queste righe acerbe, il giovane Bataille sembra sconfessare la sua opera successiva, pur anticipandone alcuni accenti tematici.

Il Bataille che è entrato nella storia culturale del Novecento è un corruttore sotterraneo della modernità. Non per nulla compare tra la schiera di quei pochi che hanno rivolto lo sguardo alla bassezza e al nefando che sorregge tutto ciò che viene considerato buono e bello. Niente lo disgusta di più dei valori che vengono promulgati in nome della società e lo eccita al contrario tutto ciò che gronda sozzura e lordume. Niente gli fa digrignare i denti come il concetto di “umanità” e tutta la baraonda retorica che lo accompagna.

L’uomo che sta in piedi, l’asse verticale che si instrada sulla via della rettitudine è l’idolo da abbattere: per farlo Bataille promulga un’ascesi nel peccato, un bagno nel sangue e nella merda all’insegna del dispendio dissoluto contro ogni teoria della vita fondata esclusivamente sul principio di conservazione. In ossequio al Sole, quell’enorme ano celeste che sovrasta il mondo con i suoi escrementi, i suoi raggi, Bataille invita gli adepti della sua filosofia allo spreco di sé. Non c’è salvezza tra le mura della civiltà, l’unica legge è quella dell’inversione, dell’abbandono ai più bassi istinti pronogradi, perché solo ciò che è barbaro e bestiale e che si profonde nella propria distruzione può dire di essere stato vivo.

Con la sua Ateologia scatologica Bataille si è imposto come uno dei numi segreti della cultura eversiva del ‘900. Per questo forse il suo saggio d’esordio è stato a lungo marginalizzato: nel 1918, a ventun’anni, il periodare di Bataille è ancora troppo invischiato in quell’ardore adolescenziale che lo aveva convinto a convertirsi al cattolicesimo e ad intraprendere la strada del seminario, sentiero interrotto bruscamente dopo pochi anni.

All’indomani dei bombardamenti che l’avevano sfregiata e sul chiudersi del primo conflitto mondiale, con profonda commozione cristiana, in “Notre-Dame de Rheims” Bataille ritrae la cattedrale simbolo del potere dei re francesi come il corpo fisico della Vergine: “le pietre sono la sua carne e il suo sangue, la desolazione delle sue rovine è il sorriso terrificante dei suoi resti scheletrici”. Colpisce la pietà amorevole con cui lo scrittore francese osserva le ferite mortali sul corpo della vergine di pietra. L’ergersi maestoso della cattedrale in rovina viene descritto con parole che trasmettono viva commozione. “Solo oggi, mutilata, si leva tra le desolate macerie”.

Gustave Fraipont, Incendio della cattedrale di Reims (1914-1915)

La cattedrale dilaniata dalle bombe equivale a una mutilazione della madre di Dio, un atto paragonabile allo stupro del ventre che ha ospitato il salvatore dell’umanità. Un atto di ostilità contro il sacro. “L’equilibrio luminoso della vita è spezzato, perché non c’è nessuno i cui occhi non siano bruciati dalla luce delle fiamme intense e la cui carne non sia ferita da questa crudeltà sanguinaria.”

La commozione del giovane Bataille per il tempio sacro della cristianità europea dato alle fiamme nel grande sacrificio orchestrato dagli stati nazionali, stride con i veementi attacchi di cui è innervata “Architettura”, una delle tre voci scritte da Bataille per il dizionario incompleto Documents. Lì dove il giovane Bataille si impietosisce – soldati che si preparano a morire tra le mura della casa di Dio, il fuoco che brucia il corpo della madonna sventrato dalle bombe – il Bataille maturo avrebbe trovato sicuro motivo di eccitazione.

Ai tempi dell’incompiuto Documents siamo già in presenza di un Bataille ormai incendiato dall’acrimonia anticristiana e anticonservatrice, che con serafica tranquillità accenna alla sua visione sinistra dell’architettura così in contrasto con il fantasma delle sue idee passate: è tramite la forma delle cattedrali e dei palazzi che la Chiesa e lo Stato si sono imposti alla moltitudine. È così che le due potenze di questo mondo avevano violato la personalità del giovane Bataille, tramite la forma di un cattedrale in cui i re di Francia venivano incoronati. L’architettura, sostiene, non si limita a manifestare i valori della società, essa “ha l’autorità di comandare e proibire”.

Per Bataille, l’architettura è espressione della società nello stesso modo in cui la fisionomia umana è l’espressione degli individui. L’ordine architettonico è a suo dire lo sviluppo di un più primitivo ordine umano, che dagli edifici ricava le metafore per il proprio ordinamento sociale. Ma, allo stesso modo, l’ordine architettonico modella e condiziona quello umano, forse con maggiore intensità di quanto l’umanità stessa si aspetti. Se il fine supremo è la distruzione dell’uomo, è dall’architettura che bisogna iniziare l’opera di smantellamento.

Gli edifici architettonici si distinguono dalle mere costruzioni e l’architettura in sé va al di là della progettazione ingegneristica perché ciò che realizza possiede uno spirito, il “fantasma” dell’intenzionalità che l’ha progettato. Ma Bataille va oltre, essa è uno stadio ulteriore dell’evoluzione: “L’uomo, in questo senso, sembra rappresentare solo una tappa intermedia in un processo morfologico che va dalle scimmie ai grandi edifici”. Piramidi, cattedrali, torri, castelli, città sono avatar del potere politico e religioso, così come questi sono espressione degli edifici che abitano. Per Bataille l’architettura manifesta l’ordine sociale e ne irrigidisce i legamenti, crea delle icone che come antenne rifrangono le parole d’ordine che incarnano.

Il personaggio di Jack, interpretato da Matt Dillon nel controverso film di Lars Von Trier, The House That Jack Built, la pensa nello stesso modo e incarna efficacemente le due anime di Bataille, portando sullo schermo un feroce attacco contro l’architettura che coincide con il suo massimo elogio. Nel film seguiamo Jack, un ingegnere che sognava di diventare un architetto, e la sua guida spirituale Verge, in una discesa psichica verso l’inferno. Lars Von Trier si pone sul solco di Dante Alighieri e della sua Commedia per fare un bilancio della sua poetica cinematografica e allo stesso tempo dileggiare i suoi critici e i suoi estimatori.

Verge, Virgilio redivivo interpretato da un anziano Bruno Ganz, rappresenta tanto la critica quanto il mondo dell’arte in generale e lo stesso regista si insinua tra i suoi discorsi per giudicare la sua stessa opera, dopotutto anche lui è a suo modo parte del sistema che vuole criticare. Jack è il modo in cui il pubblico ha recepito Von Trier. L’inferno è letterale e non metaforico, viene mostrato nella sua didascalicità ed è lo spazio della massima incomprensione tra l’artista e l’epoca in cui vive. Non c’è salvezza per chi si vota alla creazione, men che meno per un’arte condotta verso orizzonti che non devono essere esplorati, ed è questa verità che Jack non vuole realizzare, tentando infine di prendere una scorciatoia per il paradiso.

La discesa negli inferi è intervallata dalla visione del passato omicida di Jack, che lo vede uccidere senza pietà, cinque volte, donne e famiglie, atti che definisce “incidenti”. Ciò che vediamo rimane sospeso nella verosimiglianza essendo rievocazioni dello stesso Jack nel contesto del suo dibattito filosofico sull’arte con Verge. Nell’esecuzione dei cinque omicidi Jack combatte con le sue manie ossessivo-compulsive per edificare un perturbante edificio, che disfa continuamente in un ciclo infinito, fino alla creazione di una struttura fatta con i corpi delle sue vittime, sfruttando il rigor mortis per modellarne la forma.

La casa di Jack, Lars Von Trier, 2018.

A differenza di Verge, Jack, come Bataille, è convinto che l’arte abbia fondamentalmente a che fare con la putrefazione e la morte, sebbene ciò venga occultato, relegato ai margini e dunque costretto a tornare in veste di fantasma. Amore e Morte, come i due protagonisti, lo sguardo e i genitali, di La storia dell’occhio, il romanzo di Bataille, in cui le due polarità dell’essere si intrecciano in un abbraccio erotico suggellato dalla violenza.

Per Jack tutto ciò che ha valore lo diventa attraverso processi di fermentazione che lo separano dal suo sé vitale: la decomposizione è un processo che, attraverso il tempo, trasforma ciò che è morto in qualcosa capace di dare profondità e complessità alla realtà.Gli edifici, come i corpi biologici, sono soggetti al tempo e alla distruzione. Per Jack, ammiratore della teoria della rovina dell’architetto nazista Albert Speer, l’architettura è l’arte totale in cui forma e contenuto trovano la loro singolarità.

Contrariamente al senso comune, l’architettura non è produzione di stabilità, ma temporalità mortifera, creazione di rovine. Essa è produzione massiva di spettralità se pensiamo che gli edifici architettonici saranno e sono sempre stati l’ultimo avamposto dell’umano, il fantasma del nostro passaggio che come il colosso di Ramses II sepolto nella sabbia ripeterà nel silenzio: “Il mio nome è Ozymandias, re dei re:Guardate le mie opere, o Potenti, e disperate!”

Speer e Jack sono convinti che sia “il materiale a compiere il lavoro” e non il soggetto che lo manipola. La materia “ha una specie di volontà propria, e rispettandola, il risultato sarà estremamente raffinato”. Solo così è possibile creare icone, lasciando che il tempo mieta il vivente.Un esempio emblematico sono gli aerei della Luftwaffe nazista, che emettevano un fischio assordante durante la picchiata, rivelando la loro posizione. Ma per Jack, quel difetto serviva come arma di una guerra del terrore psicologico, mirata a destabilizzare prima di tutto il morale del nemico. In questo caso, il superfluo è la morte, la disfunzionalità, il difetto: gli uomini non capiscono che è in questo campo che bisogna individuare il principio attivo dell’essere. La morte è attività, arte, produzione.

Jack è quindi l’artista definitivo, l’architetto dell’organico, l’ingegnere che non si limita più a leggere lo spartito ma ora finalmente lo compone, capace di riunire ciò che è diviso nella propria opera: architettura e morte, assassinio e arte. Il cadavere che si irrigidisce imita nel proprio divenire la toccante consunzione delle giunture dei grandi palazzi, che perdono progressivamente la maestà che un tempo li contraddistingueva, trasformandosi in qualcosa di più: un residuo di un’antichità che, proprio tramite le loro mura consunte e invase dall’edera, continua a rimanere aggrappata al presente.

Speer e il nazismo, perfette espressioni della nostalgia che anima il potere totalitario, vollero che il patrimonio monumentale del Reich fosse il degno erede dell’Impero romano. Mescolando materiali deboli e forti e rifiutando categoricamente di ricorrere al ferro, si rifugiarono nella nuda pietra, producendo edifici concepiti per evolversi in maestose rovine. L’ironia della sorte volle che il lavoro di Speer venisse distrutto dai bombardamenti e non dall’inesorabile scorrere del tempo.Anche per Bataille l’arte autentica – e l’architettura in primis come summa delle arti – è inevitabilmente legata alla decadenza, alla corruzione, alla morte. Essa deve sconvolgere, distruggere e rinnovare, rompendo le catene della conservazione per esplorare l’abisso dell’esistenza umana. La bellezza, in questa visione, non è una forza salvifica, ma una manifestazione del sublime nel suo aspetto più terribile e inquietante. L’arte, come la vita, è destinata a perire, a trasformarsi in rovina, e proprio in questo processo di decomposizione risiede la sua più profonda verità.

C’è qualcosa di omicida nell’arte: è questa la prospettiva che Bataille e Von Trier condividono, l’uno contro l’architettura perché perpetua i valori di quel fascismo organico che protende alle altezze verticali, l’altro usando il suo personaggio, come un “cric”- il significato della parola ‘Jack’ in inglese – contro la retorica perbenista che ammorba il mondo delle arti, di cui Verge è l’esponente. Il principio di morte che innerva l’architettura è il tempo stesso: non esiste arte senza la consapevolezza della sua finitudine.

Una volta accettata la prospettiva mortifera insita nell’architettura e in generale nelle arti, sorge una prospettiva sinistra sull’ossessione moderna e post-moderna per la conservazione del passato. Innanzitutto il proposito stesso della conservazione snatura il senso della cosa artistica, che solo una certa sensibilità borghese ha potuto percepire come qualcosa che merita di esistere in eterno senza alterazioni di sorta.

Rievocando la distruzione del patrimonio artistico di Palmira nell’agosto 2015, il dolore provocato dalle immagini delle violenze contro le statue e i monumenti è persino più intenso delle molteplici decapitazioni in HD, che generano tutt’al più disgusto.In tempi recenti, l’approvazione in Italia del ddl 1660 in materia di sicurezza ne è un fulgido esempio: gli attacchi simbolici alle opere d’arte nei musei o agli edifici storici di città come Roma e Firenze hanno generato un clamore mediatico in cui attivisti, hooligan e turisti ubriachi sono descritti come terroristi assassini.

Questo è uno scandalo squisitamente moderno. Dal momento in cui le icone sono state rinchiuse nei recinti museali, e quando gli stessi centri storici sono stati musealizzati, hanno assunto un inquietante ruolo conservatore. Il museo, per Bataille, è inerentemente collegato al macello. Il Louvre fu trasformato in museo solo dopo che era stata decapitata e assassinata la nobiltà francese, un massacro ora relegato alle pagine dei libri di storia, così come i macelli sono stati espulsi dal tessuto urbano e gli omicidi che vi si compiono sono celati agli occhi della società che essi contribuiscono a sostenere.

Lo slogan adottato nelle giornate di primavera curate dal Fondo Ambientale Italiano, la pseudo citazione di Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo” – che ne “L’idiota” compare sempre come domanda e mai come affermazione – è una formula stregonesca che si fa comando. Il messaggio implicito è che, se la bellezza salverà il mondo, noi tutti, che abitiamo il mondo, dobbiamo occuparci di salvare la bellezza. Resta da capire perché bisognerebbe salvare la principale fonte delle nostre frustrazioni, delle nostre ansie e infine della nostra prigionia.

“La bellezza salverà il mondo” nasconde un’insidiosa trappola retorica ma è nella sua ipocrisia – quella di una civiltà che elogia il passato e i suoi fantasmi perché non ha altro a cui votarsi – che è possibile guardare in faccia l’essenza stessa dell’arte e della bellezza: meri strumenti di controllo e conservazione, dispositivi di contenimento che bloccano qualsiasi trasformazione condannando l’uomo a un destino di staticità e conformismo. In questo senso, la bellezza non è mai un riflesso della vita, del suo caos e della sua transitorietà, ma è al contrario un veicolo di oppressione, destinato a perpetuare un ordine sociale rigido e immutabile.

Condividi:
Leave a Comment

Comments

No comments yet. Why don’t you start the discussion?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *