All’origine del calcio popolare

All’origine del calcio popolare
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Il 10 aprile 2024 alle 21.00, in diretta sulle televisioni di mezzo mondo, si giocano le partite di andata dei quarti di finale di Champions League. La vendita triennale dei diritti TV della Champions fa incassare alla UEFA circa un miliardo e mezzo di euro; giocare un quarto di finale porta nelle casse di una società sportiva circa 10 milioni. A Madrid l’Atletico batte 2-1 il Borussia Dortmund, a Parigi il Barcellona riesce a vincere 2-3 in casa del PSG. Ironia della sorte, nessuna delle due squadre vincitrici riuscirà ad arrivare in semifinale la settimana dopo. 

Poche ore prima, lo stesso giorno, si gioca la finale della Coppa Italia di Promozione. A fronteggiarsi sono Antella 99 in maglia bianca e azzurra e Centro Storico Lebowski, con un’improbabile maglia a strisce grigio-nere. Vince l’Antella 1-0 ai supplementari, aggiudicandosi, oltre alla coppa, la possibilità di giocarsi i playoff per accedere all’Eccellenza. 

Il Lebowski è una squadra diversa da molte altre: nel 2010 è stata rilevata da un gruppo di tifosi, che decidono di amministrare una società all’epoca ultima nel campionato di livello più basso fra i professionisti, la Terza Categoria. Ancora oggi, dopo 14 anni, l’intera gestione del Lebowski è affidata ai soci, che contribuiscono con una quota annuale a ogni aspetto del suo sostentamento: squadra maschile, squadra femminile, giovanili, squadre di calcio a 5, trasferte, uniformi, allenamenti. Oltre alle quote, una parte delle entrate della squadra derivano dalle due sagre di giugno e settembre, vere e proprie feste che servono a creare attorno alla società un’idea comunitaria di socializzazione: il calcio, per come lo concepisce il Lebowski, deve avere alla base un’unità identitaria tra società, tifosi e squadra, come era scritto sul volantino che i fondatori distribuirono per la prima volta nell’anno della sua creazione in Piazza D’Azeglio a Firenze, una piazza in cui ogni giorno, in un campetto in pessime condizioni, ragazzi e bambini giocano a calcio e a pallacanestro per divertimento. 

Dal 2010 a oggi il Lebowski maschile conquista tre promozioni, fino ad arrivare alla serie in cui milita oggi. Col tempo è cresciuta la dimensione societaria, sono aumentati i soci (ora circa duemila), si sono ampliati i progetti e le prospettive. L’anno scorso, tuttavia, la squadra femminile ha dovuto rinunciare alla promozione in serie C, ottenuta sul campo, per mancanza di fondi da investire per l’iscrizione al campionato e per la sopravvivenza nella serie. 

Per fare calcio a livello professionistico, è evidente, servono soldi e investitori. Le logiche finanziarie di questo sport, che tende sempre di più a trasformarsi in una merce con un valore di mercato puramente speculativo, grazie al progressivo inserimento nel mercato di fondi finanziari, ricchi investitori e banche, generano fra le persone appassionate parecchie resistenze. 

Ne è esempio la grottesca vicenda della Superlega, il super-campionato di 12 grosse big europee che nel 2021 miravano a svincolarsi dalla UEFA e a creare una lega tutta loro: la storia dei processi, dei ricorsi e delle ritorsioni punitive della UEFA nei confronti del club aderenti è nota e ancora tutta in divenire, grazie alla recente sentenza del tribunale di Madrid che ha ritenuto lecita la mossa del Barcellona e del Real Madrid (attualmente le uniche superstiti del progetto Superlega originario) di creare un campionato ex novo. L’altro elemento che ha fatto molto rumore fin dal primo annuncio del progetto sono state le proteste di moltissimi tifosi – soprattutto delle squadre che erano state lasciate fuori – contro l’idea di un campionato giudicato elitario e che mira in modo esagerato alla spettacolarizzazione di un calcio pensato per gli spettatori e non per i tifosi stessi. 

“Contro il calcio moderno” è uno degli slogan che campeggia sugli striscioni di moltissimi stadi, soprattutto di periferia. Non è raro trovare sticker per le strade, scritte con lo spray sui muri e sui cavalcavia, manifesti di vario genere che lanciano lo stesso messaggio: il calcio dei ricchi investitori non piace alle persone comuni. Sarà che è avvertito come qualcosa di distante, sarà che le regole di comportamento negli stadi si sono fatte progressivamente più stringenti e severe, che tantissime società a partire dagli anni ’90 in Italia sono state fatte scientificamente fallire da investitori che speculavano grazie al calciomercato e alla crescita del valore nominale dei propri tesserati, che le logiche di profitto dietro le decisioni di giocatori, società e agenti si fanno sempre meno nascoste: sta di fatto che la richiesta evidente delle tifoserie è quella del ritorno a un presunto e idilliaco calcio delle origini. Il calcio è della gente. 

Ci si chiede, quindi, come dovrebbe essere il calcio per come lo intendono le tifoserie a cui stiamo facendo riferimento e se esistono delle vie concrete per trasformare radicalmente le logiche che governano l’industria calcistica moderna. Istintivamente verrebbe da dire di no, che è impossibile; eppure, la semplicità delle regole del gioco e l’esistenza di squadre come il Lebowski fanno dire il contrario – basta, cioè, che squadre che si strutturano attorno a principi differenti da quelli delle grandi società capitaliste prendano a vincere sempre più partite, i campionati maggiori, le Champions League, imponendosi sui grandi palcoscenici, guadagnando tifosi e visibilità, creando nuovi immaginari. Non esistono regole del sistema attuale che lo impediscono, vanno solo create le condizioni oggettive. 

Il Centro Storico Lebowski rifiuta, per motivi legati alla propria organizzazione e ad alcune differenze sul piano ideale, l’etichetta di società di calcio popolare. Tuttavia, è proprio questa la definizione che viene in mente quando si immagina un sistema calcio diverso da quello imperante. Altre squadre che funzionano secondo regole simili a quelle del Lebowski sono il St. Pauli di Amburgo e lo United of Manchester, entrambe nate dalla volontà dei tifosi di creare compagini separate rispetto a quelle delle società preesistenti e di dare vita a un movimento organico di coesione tra società, tifo e squadra. Eppure, la definizione di calcio popolare oggi è più larga, fino a comprendere soprattutto società dilettantistiche che mettono al primo posto i valori sociali di inclusione, comunità, antirazzismo e lotta ad altre forme di discriminazione. Prevale, cioè, la diffusione di una serie di valori giudicati positivi e fondanti dello sport stesso, al di là delle logiche di competitività. Insomma, il principio del calcio popolare è un principio al tempo stesso politicamente radicato ma anche vago e multiforme, che spazia dall’esaltazione del valore di coesione sociale del campetto di periferia alla costituzione di società organizzate e strutturate. 

Per capire meglio di cosa parliamo ci si può rivolgere a due libri che, nonostante i titoli identici, hanno intenti e strutture piuttosto differenti: il primo, edito da Ultra Sport nel 2020, si intitola Storia popolare del calcio ed è scritto da Valerio Moggia; il secondo, di Mikael Correia, è uscito in Italia per LEG un anno prima. 

Moggia inizia a raccontare la storia del calcio dalla seconda metà dell’Ottocento, quando nelle public schools d’Inghilterra è stato codificato il football moderno dai membri della migliore borghesia del Paese e poi, quasi contestualmente, è stato esportato come merce e strumento di controllo delle masse in quasi tutte le città portuali che avevano a che fare con la madrepatria inglese, soprattutto in Asia e Sud America. L’accezione di calcio “popolare”, quindi, si riferisce alla passione che dilagò tra i lavoratori delle miniere e delle ferrovie al servizio inglese, che facevano dello sport uno sfogo, a non a livelli professionistici. Il libro, poi, procede in modo pressoché cronologico per aneddoti, storie e casi eclatanti in cui il calcio si è legato a doppio filo a grandi eventi storici, regimi politici, sistemi di controllo sociali, per avallarli o per rivoluzionarli. Ne sono un esempio le squadre franchiste (e antifranchiste) in Spagna, le nazionali sudafricane composte esclusivamente da giocatori bianchi per via dell’apartheid, il ricorso frequente a giocatori oriundi e immigrati nelle nazionali dei Paesi colonizzatori, tutti casi che l’autore del libro racconta con attenzione e dovizia di cronaca, anche sportiva. Si può notare, tuttavia, che il calcio sia inteso prima di tutto come manifestazione sintomatica di strutture politiche profonde (dittature, apartheid, colonialismi, ma anche questioni di genere e guerre civili) e poi, solo in secondo piano, come elemento sociale a sé stante, con strutture proprie.

Correia, invece, fa della natura popolare – sempre nel senso di “non professionistica” – del calcio il vero elemento fondativo di questo sport, risalendo, nel primo capitolo, addirittura al XII secolo, a forme rudimentali, violente e non pienamente codificate di sport praticate in tutta Europa e poi unificate qualche secolo più tardi sempre in Inghilterra. Resta, anche in questo caso, la Rivoluzione industriale inglese a fare da snodo fondamentale per la nascita del calcio come lo conosciamo e per la sua esportazione, ma Correia, oltre ai casi classici e sintomatici di sport come strumento di lotta politica (sia dall’alto che dal basso), analizza anche due movimenti che tendono a estraniarsi dalle logiche del calcio contemporaneo: il tifo organizzato e le società che si oppongono alle logiche industriali. In entrambi i casi, a emergere dalle parole di Correia è l’elemento working class, riferibile sia alla composizione sociale dei gruppi di tifosi organizzati, a partire ad esempio dagli hooligans inglesi, a lungo criminalizzati e repressi, sia a quella delle società e dei gruppi che decidono di organizzarsi, di cui Lebowski, St. Pauli e United of Manchester fanno parte. Insomma, in questo caso l’autore connette all’idea di calcio popolare non soltanto la manifestazione fenomenica di alcuni processi sociali profondi, ma un vero e proprio tentativo di agency da parte di soggetti subalterni. 

Ritengo fondamentale, a questo punto, sottolineare l’importanza di alcune questioni che, a mio parere, sopra le altre dovrebbero regolare i discorsi sull’immaginario di un calcio alternativo. La premessa fondamentale del mio ragionamento è che le logiche attuali del calcio, come hanno dimostrato sia Moggia che Correia, sono il prodotto delle regole strutturali della società in cui il sistema-calcio prende forma. Detto in altre parole, la finanziarizzazione in corso riguarda moltissimi settori economici e non solo quello sportivo: aspettarsi dal calcio qualcosa di radicalmente altro soltanto per partito preso e rimpiangendo un presunto passato glorioso è ingenuo tanto quanto sperare che i governi mettano un freno alle disuguaglianze sociali in memoria della cara vecchia URSS. In secondo luogo, come hanno dimostrato i due autori che ho citato e forse meglio di loro il giornalista Luca Pisapia, tramite i pezzi che ha pubblicato su varie testate, il calcio nasce merce di controllo e da esportazione, non nasce innocente e non lo è mai stato. Ritengo, quindi, un po’ ingenua anche una lettura dialettica del calcio come scontro tra un football della upper class e uno della working class, se non altro perché, ammesso anche che il secondo sia realmente esistito con uno statuto autonomo rispetto al primo, soltanto il primo ha avuto rilevanza storica e mediatica tale da essere in grado di plasmare le coscienze dei tifosi. Tutti gli eventi di una certa portata e pregnanza politica, per così dire “rivoluzionaria”, sono avvenuti finora all’interno del sistema calcio borghese, coloniale e padronale che conosciamo e giustamente disprezziamo. La terza, e ultima, considerazione è che un altro calcio, nonostante le premesse, è davvero possibile, a patto forse che si conoscano le regole del gioco: per vincere sul piano del modello è necessario che le squadre “popolari” battano sul campo quelle dei padroni; che quando una società gestita dai tifosi giocherà una finale di Champions segni un gol in più della sua avversaria.

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