Sto cercando un mentore. Sto cercando un uomo da idealizzare. Sto cercando un padre. Sto cercando qualcuno che mi mostri la via. Sto cercando una figura cristologica nella cultura. 

Per tutti questi motivi, ho deciso di intervistare tutta la redazione dell’Ultimo Uomo, che mi causa una grave forma di ossessione da cui spero di liberarmi. L’idea, però, è farli parlare di qualunque cosa tranne la loro esperienza all’interno della testata online che si occupa di sport. 

Come se fossero le cast evaluations che faceva Dan Harmon, lo showrunner, per la sua sitcom, Community, in cui invitava gli attori e gli tirava addosso, come nel caso di Yvette Nicole Brown, frasi come “I wanna throw a statement at you, you tell me true or false, I’ve fully and completely captured the black woman experience”, però in questo caso io non ho catturato un bel niente e al posto di una talentuosa attrice nera, ci sono uomini e donne verso la mezza età di cui apprezzo la postura culturale. Nulla di uguale tranne la sfacciataggine di sparare frasi, sapendo che sono quasi sempre false. 

Ho iniziato con Daniele Manusia, il direttore, il capo, l’editor-in-chief. Odio quando le interviste iniziano dicendo “Lo vedo arrivare…ha un cappello…siamo nella Williamsburg di Roma” mi sembra di essere in un video di Variety, ma è necessario che io parli, anche solo con una frase, dell’aspetto da jedi che il direttore dell’Ultimo Uomo si porta dietro. 

Daniele è molto alto, ha gli occhi azzurri limpidi, i capelli grigi alla Jeff Tweedy legati un po’ alla Samuel L. Jackson in Jackie Brown e un orecchino. Ha una voce molto riconoscibile, che sembra un po’ strozzata, ma che- a forza di ascoltarla- ha il pregio di convincerti che quello che senti è saggezza pura. 

È accompagnato dal suo cane, Eazy, un cane piccolo con una voce squillante, per creare contrasto e aggiungere strati alla sua presenza. 

Daniele è il sogno o l’incubo di un intervistatore, nel mio caso è stato perfetto perché l’intervista doveva andare così: appena scosti la roccia giusta, è un fiume in piena. A volte la sua bocca prende una smorfia in cui la parte sinistra del labbro rientra troppo in fretta, non rimane mai fermo con gli occhi e gesticola come se dovesse lasciare su un piatto immaginario i concetti che dice. 

Quando mi ha offerto un caffé e un gelato, ho notato una timidezza inaspettata per la figura che avevo in mente che sembrava dettata dal trovarsi in un luogo sociale. 

Per l’intervista, ci siamo seduti in un parco, uno di fianco all’altro, come due spie ai tempi della guerra fredda, o semplicemente due vecchi che si rilassano in un parco intitolato a un fascista ucciso negli anni ‘70. Merce non rara a Roma. 

Io volevo partire da una domanda: in realtà tu puoi dirmi che non l’hai mai detta questa frase, perché io non l’ho ritrovata. In un’intervista hai detto che il tuo rimpianto più grande è non aver fatto sesso con più persone, ma non mi ricordo se è vero oppure no. 

(risata sommessa) Non lo so, magari l’ho detto come battuta, siccome sto con la stessa persona da tanti anni e sono una di quelle persone intrinsecamente monogame. Era una battuta, non è una cosa che rimpiango davvero. 

Il più grande rimpianto, non so. Ho quarant’anni, ogni cosa che rimpiango, alla fine la posso fare. 

Forse era un effetto Mandela. 

Sì, forse sì, me l’hai accollato. 

In questa intervista non vorrei parlare dell’esperienza dell’Ultimo Uomo perché tutti ti fanno domande su quello. Ma vorrei parlare di altro. Francesco Pacifico mi ha detto che sei un grande estimatore dell’opera di Saul Bellow e quindi volevo chiederti perché questo autore ti ha toccato più di altri? 

Mi sa che è stato proprio Francesco a farmi leggere per primo Bellow, con La resa dei conti, un libro molto breve. Forse è ancora il mio preferito suo, è quello che regalo sempre. È anche quello che consiglio sempre. 

Mi piace perché lui è un maestro delle descrizioni, delle metafore. La sua scrittura è molto materica, proprio plastica. Ti fa vedere le cose, ti fa sentire le sensazioni. È molto divertente, pur toccando temi profondi. Non c’è mai solo una descrizione o un racconto, c’è sempre una grande attenzione al contesto. 

Le idee dei suoi libri partono sempre da un’idea ironica o, comunque, di intrattenimento. 

Devo dire che tutta la letteratura ebraico-americana è stata la mia prima passione letteraria. Da Isaac Bashevis Singer, tra l’altro uno dei maestri di Saul Bellow che lui ha tradotto dallo yiddish, a Philip Roth. 

Ma c’era qualcosa che ti colpiva di questa mia passione? 

Il fatto è che quando si parla di letteratura ebraico-americana, si cita molto di più Philip Roth, che è praticamente il suo alfiere. 

Penso perché Roth è un po’ più contemporaneo, per quanto anche lui parta dagli anni ‘50-’60. È più nel canone. Poi Bellow è stato messo in mezzo per tutta la questione del suo rapporto con le donne, credo che lui abbia avuto l’ultimo figlio a ottant’anni se non sbaglio. Ha avuto tantissime donne, che ha usato nei suoi libri. Tutte le descrizioni delle persone che conosce nei suoi libri sono quasi una violenza. 

Ma d’altra parte, per lui, la scrittura era una cosa violenta: se io scrivo di te, sto comunque facendo un atto violento, non è che puoi rispondermi. E lui si è vendicato di sue amanti, buttandole nei libri. 

Come si vendicava? 

Di solito si tratta di donne che non si sono sottomesse al maschio. Dopo tutto, questo è uno che ha fatto un figlio a ottant’anni, di sicuro non si sveglia la notte per cambiare i pannolini. Ora però ho paura di confonderlo con Picasso, che ha avuto una relazione con una donna, di cui non ricordo il nome, guarda un po’ non mi ricordo il nome della donna ovviamente, che ha scritto dei libri su di lui. Appena ha trovato una donna che le ha tenuto testa, Picasso l’ha voluta distruggere, non le ha riconosciuto i figli o almeno non ha poi avuto rapporti. Uno dei figli si è suicidato. Una cosa orribile. Comunque si chiamava Francoise Gilot. 

Picasso aveva addirittura un rapporto ancora più terribile con le donne: stava con questa modella del surrealismo, che non faceva uscire di casa, chiudendola a chiave. Ha poi adottato una bambina semi-adolescente, e, a un certo punto, la compagna di prima l’ha riportata in orfanotrofio perché ha trovato dei nudi espliciti di questa bambina. E ha detto “ok, calma.” 

Forse è anche per questo che di Saul Bellow se n’è parlato di meno, sarà assimilato a questo tipo di artista molto controverso. 

Per esempio, però, il Philip Roth del Teatro di Sabbath è quello più esplicitamente vicino a Saul Bellow, con questa linea divertente, forse Bellow era meno esplicito. 

La resa dei conti tratta poi di un tema che, a me, è sempre piaciuto molto: il rapporto padre-figlio. 

Però a livello di scrittura, magari non era un grandissimo costruttore di storie, però tutto quello che fa della scrittura: l’uso delle parole, le parole stesse, il ritmo, la lingua nuova che ha trovato in Augie March

Lingua che lui paragona all’acqua che scorre lungo i marciapiedi di Parigi e per me è impareggiabile. 

Per me pochi hanno toccato queste vette. È più strano che se ne parli poco di Bellow.

Forse è perché non ha un suo Pastorale Americana

Eh sì, quel romanzo che puoi tranquillamente politicizzare. Però era molto concreto, comunque ne Il dono di Humboldt in cui parla del suo rapporto con il poeta Delmore Schwartz, è molto politico. 

C’è tutto il passaggio dall’underground degli anni ‘60 al mainstream degli anni ‘70, con un senso di colpa pazzesco. Quel libro per me sta al livello de La Macchia Umana, Pastorale Americana

Forse quello che piace di più di Philip Roth è che è autobiografico, ma l’ha sempre nascosto meglio. Saul Bellow invece cambia solo il suo nome. Per esempio, ne Il pianeta di Mr Sammler lui fa outing a un suo amico professore, di cui nessuno conosceva l’omosessualità. Sputtanato, senza problemi. 

Questa è una questione su cui stiamo sbattendo la testa in questo momento storico, ma prima o poi capiremo che non c’è una vera soluzione. Non sarai mai totalmente al riparo dalla violenza, né tua né degli altri. 

Tu dici quindi che questa è una tendenza a creare un mondo asettico? 

Chiariamo subito una cosa: per me Saul Bellow è problematico. (ride) Non esiste però un mondo non problematico, poi vabbè c’è un limite a tutto, mica mi metto a dire: Bisogna separare l’arte dall’artista. 

Anzi. Bisogna tirar dentro la biografia, bisogna ragionarci. Poi quello che dico è che va anche a sensibilità, ci sono degli artisti di cui ho saputo cose, per cui ho cambiato l’approccio alla loro opera. 

Tipo Louis C.K. mi ha dato fastidio nel modo in cui ha reagito, considerando la sua ironia, con un’altezzosità strana. È semplicemente diventato meno divertente. Ha provato a modellare la sua arte intorno a quel fatto lì e, secondo me, c’è riuscito fino a un certo punto. Però se scherzi, per anni, sulla sessualità maschile frustrata, se poi arrivi a chiudere una persona in una stanza e a esibirti vuol dire che non hai fatto un gran percorso di autoconsapevolezza. Almeno abbi il coraggio di dire “ho sbagliato”, mo devo capire perché ho sbagliato, non far finta di dire “è il momento che parlino le vittime” e poi le vittime non se le incula nessuno e lui dopo un po’ ritorna. 

Non si è posizionato in aria trumpiana?

Non credo. 

Beh, di solito l’arco è quello, questi hanno rivalutato Andrew Tate, quindi diciamo l’asticella è a “stupro e traffico di minorenni”. 

A me interessa molto il rapporto tra arte e artista, perché è sempre problematica, perché la vita di tante persone lo è. Poi, per dirti, ci sono persone che sembrano buone, che non si comportano mai in maniera molesta, seguono le giuste cause e poi magari nel loro intimo sono persone freddissime e magari il figlio può soffrirne. 

Siccome tutti sanno che si inizia a soffrire dentro la famiglia, magari questa ipotetica persona nella vita pubblica è una grande, ma poi non si occupa dei figli o se ne occupa come Elon Musk, ma a quel punto non è meglio di Saul Bellow. 

Tipo Bret Easton Ellis? Perché mi ricordo quando tu avevi letto Le Schegge che lui sembra una persona a cui non interessa il genere umano. 

Ecco in Ellis c’è un rapporto fortissimo tra autobiografia e opera d’arte, ma è un rapporto che c’è sempre e è sempre in atto. L’opera d’arte è comunque vittima del subconscio, ciò che sfugge all’artista. Non puoi sempre assicurarti che di apparire bene, ma perché, sul lungo periodo, si capisce se sei uno stronzo.
Per dire, nell’ultimo di Bret Easton Ellis sembra che ci sia poco in ballo della sua interiorità, c’è sempre quella violenza affrontata in modo superficiale e pure questo ultimo libro ti lascia con un “perché?” enorme a cui lui non risponde mai. 

Forse è un po’ lynchiano: vuole togliere il male dal mondo, mettendolo nelle opere d’arte. Lo dicevo, collegandomi anche a quello che dici tu sul subconscio, comunque lì ci sono tante cose che sono “male”. 

Aspetta però, l’idea del subconscio malato è un’idea che io rifiuto totalmente. Però è la vera ideologia della nostra epoca. Il subconscio malato è l’idea delle persone che dicono che se non tieni sotto controllo l’uomo, l’uomo diventa una bestia assassina, che si uccide a vicenda. Per me questa è una cazzata: non riesco neanche a capire come si possa portare un argomento logico su questo, se la specie umana si fosse davvero basata sulla diffidenza, sulla violenza, come abbiamo fatto a creare una società collaborativa? Ci saremmo dovuti estinguere anni fa. 

Poi, dentro di noi, non c’è per forza una bestia assassina o violenza pura, che poi anche violenza vuol dire tante cose: c’è quella di Turetta a quella di chi controlla i messaggi della fidanzata. 

Per tornare alla domanda, c’è violenza nelle tue opere se c’è violenza dentro di te. Magari ce l’hai avuta e la stai mettendo in prospettiva, può essere mille cose. Non penso però che l’arte abbia questa facoltà di togliere la violenza dal mondo. 

Un’altra frase che ha detto Lynch, quando era presidente della giuria non so se a Cannes o a Roma, post 2001 e post Mulholland Dr., disse una cosa tipo:«Quando le cose nel mondo vanno male, nel cinema vanno benissimo». 

Però tu hai sempre disdegnato la visione del mondo per cui se l’artista soffre, crea opere d’arte migliori. 

Molto spesso però è un “nonostante”. Sempre Lynch aveva sottolineato come chi sia depresso davvero, mica si alza la mattina a fare arte, rimane a letto. È chiaro ovviamente che devi essere sensibile per forza, se tu sei un po’ superficiale, che ti è andato tutto bene nella vita e non la vuoi vedere la sofferenza, allora poi hai pochi argomenti di cui scrivere. Forse questo è un po’ il problema di Bret Easton Ellis, che certe cose non le vuole vedere. 

Però pensa a tutte quelle persone che sostengono che le persone povere sono povere per colpa loro, quanto non vogliono vedere del mondo? 

È come World of Warcraft dove più esploravi, più la mappa si espandeva.
Per esempio, Saul Bellow, nel Dono di Humboldt, quando parla di Delmore Schwartz si capisce che lui intuisce la sofferenza del suo amico, sempre un po’ da paraculo. Il punto è che se ti limiti a parlare solo di alcune cose, la mappa che hai sarà ancora più limitata. 

Un esempio, che faccio sempre quindi forse l’hai già sentito, per rispondere alla tua suggestione è quello di Jeff Tweedy, il frontman degli Wilco, che ha avuto overdose, è stato male davvero, ha rischiato di morire per i suoi problemi. Lui andava da questo psichiatra, che una volta gli ha detto: «Guarda, io ti posso curare fino a un certo punto perché se no poi perdi di creatività». 

Tweedy ha avuto la forza di cambiare terapeuta, andare da uno che non gli dicesse una cazzata del genere. È chiaro che devi aver curiosità, devi saper parlare con le persone. Per fortuna, non devi uccidere per capire come si sente un assassino. 

Quando l’ha detta questa frase, Tweedy? 

Di recente, nella sua autobiografia. Per tornare al punto di prima, la terapia poi serve anche nelle opere creative: capire alcune cose su di te è sempre utile. 

Una persona scrive un romanzo sul mondo della droga, perché lui lo attraversa, e poi quel mondo non gli appartiene più e quindi magari si può dire “che scrivo adesso?”. Credo ci sia parecchio questa paura di perdere il proprio tema, però se sei davvero un artista non puoi essere spaventato da questa situazione. Anche chi fa sempre gli stessi quadri, in realtà intuisci delle variazioni sostanziali, Fontana, Mondrian…Il cambiamento è vitale nell’arte. 

Poi oh magari tu volevi scrivere solo perché volevi disfarti di quel trauma, allora pure il tuo valore è un po’ limitato. 

Tu hai mai provato a scrivere un romanzo?

Ci ho provato tante volte. La scrittura, per me, è una modalità di espressione costante. Scrivo da sempre. Il confine tra scrivere di sé stessi e scrivere un romanzo è molto sottile. E io ho scritto, anche di recente, anche di me stesso. 

Prima parlavi di Pacifico, che è stato un mio grande amico, gli voglio molto bene, e credo sia un grande scrittore; lui è uno di quelli che ha i meccanismi narrativi in testa. Io invece sento più l’urgenza di esprimere un sentimento. Per me, questa cosa qui confina molto con le seghe mentali. 

Ci sono tantissimi scrittori che con le seghe mentali ci hanno pagato le case. 

Eh, oddio, magari sono riusciti a trasformare una sega mentale in un’opera d’arte. Io non sono così bravo. Per me si tratta di capire quando una cosa di cui voglio scrivere va oltre lo sfogarmi. C’è sempre un po’ nella scrittura. Per evitare di metterlo nelle opere, dovresti tenere un diario. La scrittura dovrebbe essere un modo delle persone di mettere in prospettiva la vita. Io c’avevo uno zio, che non ha mai fatto lavori creativi, che scriveva poesie in romanesco e poi le regalava. Ma nessuno lo considerava “l’artista di famiglia”, “quello strano”. È la generazione dopo che ha iniziato a ragionare così, sarebbe interessante capire perché. Ora è diventato teambuilding andare a fare pittura assieme, se lo fai da solo sei un po’ fuori dal tempo, strano. Certo, la nostra generazione (i Millennials o hipsteria fans) siamo quelli che hanno tentato di costruire un’immagine più frichettona, però senza avere in mente che l’arte ti può rendere davvero una persona migliore, che puoi avere una spinta autonoma senza condizionamenti della società. 

In Francia si legge di più ma sempre per hobby, per quanto è vero che gli imprenditori devono essere più informati, devono saper giustificare perché preferiscono Macron a Mélenchon, ma in Italia, bah. Ieri a Prati ho sentito una conversazione tra due signori che dicevano: «Menomale che c’è la Meloni, perché se ci fosse la Schlein». In base a cosa, non si capisce, in base a come si veste? Non è che hanno idea del perché uno sia meglio dell’altro. L’imprenditore francese invece ti dice: «Ma che sei matto? Mélenchon vuole tassare le ricchezze, è per la massa».

Però è un’informazione di sopravvivenza, invece l’arte in Francia è sempre un hobby. Come le persone che sostengono che al cinema ci vanno per “spegnere il cervello”. Forse è la singola cosa su cui sono d’accordo estrema destra e estrema sinistra. Una persona, tempo fa, mi disse che per il marxismo, la cultura è come la pioggia, c’è o non c’è ma non è un problema se non c’è. È un evento atmosferico, non è cruciale, se non in alcune occasioni. 

Però tu alla fine qui ci sei tornato. Dalla Francia dove vivevi, hai deciso di ritornare. 

Sì, perché qui, in Italia, è in atto un abbrutimento più violento su alcune cose, ma mi sembra che non riesca a intaccare un’umanità che qui resiste sempre un po’ di più, anche nei fascisti. 

In Francia no?

In Francia, secondo me, il vero problema non sono le idee politiche o anche le misure sociali, che sono comunque cento volte migliori delle nostre. Ma è il materialismo più profondo, che porta a conflitti molto più alti. Il problema delle banlieue, il problema della disuguaglianza lo risolvi solo a livello materiale, senza mai interrogarti sul razzismo che lo sostiene, prendendo solo misure materiali.  

Puoi mettere tutti i DEI hire (assunti secondo diversità) che vuoi, ma quello rimane saldo lì. 

Un giornalista francese, pochi giorni fa, è stato messo nei casini perché ha detto che in Algeria c’è la dittatura, ma dovete capire quello che noi francesi abbiamo fatto lì, per cui giustamente sono ancora incazzati. Non siamo stati lontani dai nazisti, anzi. Una cosa fattuale e tra l’altro lapalissiana. 

Loro però non sono riusciti a dire “Sì, siamo stati così”. 

Come ci si scusa con una ragazza con cui sei stato violento a un punto tale da riuscire a parlarle per scusarti?

Beh, se la mia ragazza è l’Algeria e io sono la Francia, mi sa carcere a vita per me, giustamente.

No, certo. Come si ripara però?

Non si ripara. 

Eh ma allora non hai più rapporti, in quel caso. La donna in questione, sempre rimanendo nella metafora, deve andare nel mondo sapendo che ha ottenuto giustizia e tu devi andare nel mondo sapendo perché hai pagato la pena, dovresti essere rieducato. Portando a una società in cui si convive tutti. Francia e Algeria mica possono non avere rapporti. C’è chi pensa che si possano costruire resort al posto di ricostruire le relazioni. Sono sicuro che se si rinunciasse a abdicare la riparazione dei rapporti solo a delle ricompense materiali, tipo i soldi, ma se si facesse un lavoro di cucitura anche culturale, che non è mai stato messo in atto, se non a livello individuale o molto ristretto, qualcosa cambierebbe. Ma il forte ritorno delle destre mostra che non abbiamo fatto i conti con il nostro passato. Pensavamo che la Germania avesse fatto i conti con la propria storia e invece neanche loro. Però se tu l’unica cosa che fai è le biblioteche, i monumenti, quello che non si può dire, non si può fare… devi fare un lavoro più profondo per arrivare a una società diversa, più accogliente. Stringi, stringi si arriva al neoliberismo poi. 

Però allora è una questione di condizioni materiali. Di materialità. 

Infatti dico neoliberismo, non capitalismo. È la cultura alla base. 

Quindi sostiene che c’è un apriori della cultura nei confronti del sistema economico? 

Sì. Vanno pari. Non ho un sistema filosofico così raffinato in mente, ma sono sinergici. Se cambi la cultura o l’economia in maniera forzata, crei un sottotesto fragile. Ma di cosa stavamo parlando? Di cultura violenta? Mi sono un po’ perso. 

Non mi ricordo che giro abbiamo fatto. 

Ecco, ecco. Qui c’è un abbrutimento perché il cavallo di battaglia di “sono tutte cose superflue, sono tutte cose che possono fare solo i ricchi” porta a tutta gente che non legge, se uno vuole diventare un artista o ha dentro di sé una forza tale che gli permette di affrontare tutte le difficoltà o è un pazzo o è un suicida. Oppure ci ritorna dopo una vita in cui si è creato delle basi. Però non è un passaggio di vita come un altro. 

[Intanto il cane di Daniele, Eazy, è andata a cercare di racimolare un pezzo di cibo da un’anziana signora nella panchina a fianco alla nostra.]

Voi con Ultimo Uomo e Fenomeno vi interfacciate comunque con tanti uomini giovani e infatti volevo chiederti se pensavi qualcosa su questa radicalizzazione a destra della mia generazione, soprattutto degli uomini. 

Io sono cresciuto in un contesto di uomini che più o meno consapevolmente avevano un’idea della donna disumana. Chi le vedeva come oggetto, chi la odiava, chi era più insensibile, quello che era una bravissima persona ma aveva una gerarchia definitiva in testa. Per me è importante leggere autori che mettono in questione questa idea della società e scavano nella mascolinità. Però è importante pure leggere Ellis che non mette in questione la sua freddezza razionale, perché essere razionale è sempre un complimento nella nostra società. Però sempre per metterla in questione. 

A me quello che interessava era sapere, secondo te, perché ci siamo radicalizzati a destra noi uomini giovani. Andrew Tate ne è l’esempio più classico. 

Secondo me ci si è confusi molto con il termine “uguaglianza”. Un conto è dire siamo esseri umani entrambi, e quindi avere gli stessi diritti; un altro è pensare di essere identici, perdere l’unicità con tutte le differenze interne a ogni genere. È la singola persona che crea unicità molto più del genere, ma pensare che non ci siano differenze profonde è un po’ un pensiero magico. Differenze biologiche che hanno ripercussioni sul piano psichico, fisico, comportamentale. Senza nessuna gerarchia tra queste. Si influenzano a vicenda. 

Per tornare alla tua suggestione, penso a Salvatore Morelli, morto nel 1880, grande fautore dei diritti delle donne- come potremmo esserlo io e te-. Quindi sì, la società dove vivi ti influenza assolutamente, ma dobbiamo anche smetterla di cercare scuse. Le persone si radicalizzano, ma quello che si è radicalizzato a destra adesso, magari diventa, in un’altra epoca, un impiegato con la moglie che sta a casa, o magari fa un lavoro part-time e guadagna la metà, la controllerebbero. È tanto peggio del ragazzino che sta male perché è stato rifiutato dalla ragazza che gli piaceva e inizia a svilupparsi un sistema di pensiero dove lei è una troia e magari pensa che scopi con tutti, si fa questi film? Se questa persona non commette nessuna violenza è peggio del marito che non fa mai sesso con la moglie, la tratta come un oggetto riproduttivo, si scopa la segretaria, va a prostitute? 

Prima, forse, c’erano più vie d’uscita per uomini che non volevano avere un rapporto sincero con le donne. 

La forza di Andrew Tate e quegli altri è che hanno creato una cultura, di merda, ma hanno creato una cultura. Se tu mi fai gli sport da combattimento, i videogiochi, le macchine, i sigari, la palestra, ste cazzate qua, tu crei una cultura, che rimane. 

Se -per rispondere-, crei una cultura negativa, solo di reazione, quello non mi piace, quello non puoi, perdi in partenza. 

Però non voglio che passi il messaggio che è colpa della cancel culture, non è quello: nel profondo c’è stata un’idea di considerare disumani Berlusconi e Trump, inaccettabili, improponibili, senza creare dei contrappesi. Se Berlusconi è riuscito a fare quello che ha fatto, è perché per la tua cultura è proponibile. 

Se tu dici che non ti riguarda, hai la coscienza pulita certo, ma devi avere curiosità, devi avere apertura mentale per dire “in che senso per te è accettabile?”. 

Se al ragazzino che non parla con le ragazze perché sta tutto il giorno sul telefono, gli dici “tu sei un incel, sei un pericolo per la nostra società”, avvii un movimento esclusivo, non c’è comprensione, che cosa stai facendo per evitare che lui diventi violento? 

Abbiamo creato una società con un’enorme consapevolezza di determinate cose, che però poi a volte diventa rigidità. Quindi, per me, opinione forte: per un Turetta che ammazza Giulia Cecchettin, ci sono milioni di ragazzi che controllano, ma no, vado più all’estremo, che magari non hanno nessun meccanismo di violenza, ma che sentono le stesse cose di Filippo Turetta, come lo stesso che ha detto “ ho bisogno d’aiuto” e grazie al cazzo, anche loro hanno bisogno di aiuto. Se tu non crei una società accogliente che aiuta anche queste persone, finisce che uno su mille poi lo fa. 

Non puoi pensare che se li disprezzi, allora spariscono, sennò sei come quelli che quando vedono un barbone fuori dalla stazione, dicono al capo della polizia di sgomberarli, come i piccioni. Ma dove vanno? Non si sa. Non è che spariscono quelle persone lì. 

Facciamo anche un’indagine sui genitori di questi ragazzi radicalizzati, magari non sono i più maschilisti, ma c’hanno quel meccanismo di freddezza tale tra padre e madre che distorce l’amore per il figlio. 

Ci sono sfumature più sottili, più profondi. Poi ci sorprendiamo che gli intellettuali di sinistra hanno posizioni su questo di destra: magari si sono camuffati bene. 

Ma una vera reale identità pacifica, egualitaria non l’hanno mai avuta. 

Io ho due domande da farti, finali: perché vuoi tatuarti la frase degli Wilco “distance has no way of making love understandable”? 

Ho detto pure sta cosa. 

Questo sono sicuro tu l’abbia detta. 

Non vale che mi rinfacci ste cose. Tu sai come scrive le canzoni lui?

No. 

Lui c’ha un ritornello in mente, fa manamanamanamanaman, poi diventa banana e qualcosa che fa rima con banana. 

Pazzesco. Poi alla fine scrive cose sensate. 

Magari c’è una frase che ha in mente e ci costruisce intorno la canzone. 

[Eazy intanto sta cercando in tutti i modi di scappare dal parco dove ci siamo messi.]

Eazy, basta, ho capito che vuoi andare a casa, ma adesso noi viviamo qui e tu non mangi mai più. Vedi come si fa presto a fare violenza e a usare il ricatto?

Prima ero d’accordo con quello che sosteneva il verso che l’amore non è più facile lontani, ma adesso penso che a volte la distanza, anche non fisica, serva a volte per far respirare un po’ la coppia. Separarsi anche nella stessa stanza. È una frase bellissima, anche sul fatto dell’impossibilità di rendere comprensibile l’amore. 

Ultima domanda: ti è piaciuto davvero “La vita sessuale di Catherine M.”? Avevi pure scritto, nel tuo pezzo su Minima & Moralia, che ti aveva fatto i complimenti per un’intervista (l’autrice)?

Mi sono inventato un po’ di cose, colpa di Saul Bellow. 

[Eazy tenta di corrompermi per convincere Daniele a andare.]

Guarda che stronza che sa che sono qui per te e cerca di corromperti. Non farti fregare però, eh. 

[Eazy si avvicina e si fa accarezzare] È molto difficile non essere convinti. 

Questa è una stronza, fa tutto per un secondo fine. 

Io pensavo di piacerle. Mi ha spezzato il cuore. 

Appena ci alziamo e andiamo lì e la provi a accarezzare, fidati che non ci riuscirai.