Di cosa ci ricordiamo?

Di cosa ci ricordiamo?
King Crimson, Epitaph - Volume 1 e 2, 1997
[Tempo di lettura: 5 pignalenti]

La struttura stessa della società umana si basa sull’idea di conservare i ricordi in modalità consultabile e ordinata. La nostra coscienza di specie è profondamente radicata nei nostri ricordi, sia per una questione funzionale che identitaria. Conservare e archiviare ci permette di attingere all’occorrenza alle informazioni necessarie per capire un determinato contesto o agire in una situazione specifica. 

Oggi tutto ha a che vedere con la memoria o con l’accesso a essa, l’economia si basa in gran parte sulla capacità di conservare informazioni nei database, ma ricordare ha anche a che fare con la contestazione, la risignificazione, il dibattito pubblico, la polarizzazione ideologica che la nostra integrità storica e di appartenenza può sperimentare. Eppure il ricordo dell’esperienza all’effettivo non è che una piccola parte rispetto alla totalità di quello che esperiamo come individui.

Daniel Kahneman, l’inventore della finanza comportamentale – l’apertura allo studio psicologico in ambito economico, soprattutto rispetto all’approfondimento riguardo il giudizio umano e alle capacità decisionali in condizioni d’incertezza – si è espresso a lungo per una problematizzazione necessaria della questione della memoria.

Spesso immaginiamo la nostra memoria come un archivio, un’enorme libreria nella quale riporre i nostri ricordi per poi poterli consultare quando ne abbiamo bisogno. È un’immagine errata. La nostra memoria somiglia più a un’intelligenza artificiale, che sulla base di pochi input essenziali ricostruisce una storia permettendoci così di ricordare vicende della nostra vita passata. 

Il ricordo è sempre influenzato dalle credenze, dalla nostra cultura di riferimento, dalla comparazione che facciamo con il nostro agire, con altre narrazioni memoriali e addirittura da congetture sul nostro futuro. C’è sempre una differenza sostanziale tra un’esperienza e il ricordo che si ha di quest’ultima.

La memoria è onnipresente nelle nostre vite e così il tema della conservazione del passato e del ricordo delle esperienze non può che intrecciarsi fittamente con quello del benessere e della felicità. Kahneman nota queste interferenze soprattutto tra l’ambiguità della parola felicità e la difficoltà nel distinguere la memoria dall’esperienza.

Quando ero piccolo, ricordo che mio padre mi diceva che cosa servisse a un uomo per essere felice secondo lui […] Cose semplici in realtà: una moglie che lo amasse, un lavoro onesto, amici e vicini che gli volessero bene e lo rispettassero e, per un certo tempo, senza neppure rendermene conto, io ho avuto tutto questo… ero un uomo felice.

Hank in A Simple Plan di Sam Raimi, 1998

Il concetto di felicità è molto ampio, chiamiamo felicità sia una scarica di dopamina che la soddisfazione personale rispetto a un lavoro svolto, chiamiamo felicità anche l’alternarsi di queste due situazioni per un periodo di tempo prolungato; questo rende spesso difficile capire di cosa si sta parlando. Questa confusione si respira anche negli ambienti scientifici, per Kahneman tra gli studiosi c’è riluttanza ad ammettere la complessità del definire quel particolare comportamento o rielaborazione mnemonica di una situazione con il termine felicità. Infatti, nel suo significato elementare, la parola felicità non è più una parola utile perché è applicata a troppi campi molto diversi tra loro. Per riuscire a comprendere quali siano gli aspetti sostanziali che la determinano, è necessario adottare una versione più complessa e sfaccettata dell’idea di felicità, cioè quella strettamente legata al concetto di benessere e di cura.

Un ulteriore problema è la difficoltà di distinguere l’esperienza dal ricordo di quest’ultima. Siamo circondati da narrazioni di ricordi e di esperienze. Inoltre, le manifestazioni della nostra identità sui social richiedono una costante costruzione narrativa: le foto, i commenti, le comunicazioni in differita ma non troppo. Tutto questo ha modificato il valore dell’esperienza in sé. Quanto consumiamo le nostre memorie? Quanto le performiamo? Come dice Kahneman: se ci dicessero che per fare la vacanza che abbiamo prenotato dobbiamo accettare il vincolo di non scattare nemmeno una foto, di non poterci portare via nemmeno un ricordo, sceglieremmo la stessa vacanza?

C’è un che vive l’esperienza e un altro che la ricorda, questo secondo è il nostro cantastorie personale, il suo processo di narrazione inizia come risposta immediata alla fine di qualunque esperienza. Confondere questi due aspetti rischia di rendere confusa anche la nostra nozione di felicità.

Noi non raccontiamo storie solo quando decidiamo di farlo, la nostra memoria ci racconta continuamente le sue storie: tutto quello che rimane delle nostre esperienze è una storia. Un’altra differenza sostanziale tra chi vive l’esperienza e il che la ricorda è il rapporto con il tempo. Il tempo ha un valore fluido per chi ricorda e racconta una storia. Tantissimo tempo o pochissimo tempo, cosa cambia? Quando si ricorda, come quando si racconta, il tempo è semplicemente un espediente narrativo.

Quello che definisce una storia sono i cambiamenti, i momenti significativi e più di tutto i finali. Kahneman a questo proposito porta diversi esempi: l’esperienza d’ascolto di un bellissimo brano di musica classica rovinata da un suono stridulo sul finale; oppure i pazienti sottoposti a una colonscopia magistralmente eseguita, ma con un’estrazione della sonda brusca, riferiscono un’esperienza peggiore rispetto a quelli che dopo una colonscopia mal eseguita ma con un estrazione indolore della sonda invece ricordavano un’esperienza perfettamente nella media. Lo stesso succede al nostro ricordo di una relazione finita molto male.

A ben pensarci, niente, nella vita, è importante come pensiamo che sia.

Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, 2011

Tutto quello che ricordiamo viene immediatamente narrato e ogni volta che riaffiora alla nostra memoria lo rinarriamo ancora una volta. Le esperienze negative in questo processo si perdono, non coincidono quasi mai con i ricordi che conserviamo di esse, allo stesso modo in cui quelle positive non sono che costruzioni approssimative attorno a eventi valutati a posteriori come significativi. In quest’ottica la felicità stessa non è che una storia che ci raccontiamo. Non si tratta di quanto felicemente una persona viva, si tratta di quanto sia soddisfatta e compiaciuta quando ripensa alla sua vita.

A questo punto viene da chiedersi se, per migliorare la percezione postuma delle nostre esperienze e far funzionare correttamente la nostra memoria, oltre che lavorare sulla consapevolezza dei suoi meccanismi, non dovremmo anche esercitarci su una maggiore consapevolezza dell’influenza che l’ambiente esterno ha in tale processo di creazione di un ricordo. Provare ad agire sull’esterno può restituirci la promessa di una felicità alla quale ambire perché questa si trova in un spazio diverso – fuori di noi – rispetto a quello in cui riposano le nostre esperienze.

La memoria può cambiare la forma di una stanza, il colore di una macchina. I ricordi possono essere distorti; sono una nostra interpretazione, non sono la realtà; sono irrilevanti rispetto ai fatti.

Leonard in Memento di Christopher Nolan, 2000

Nel film Memento di Christopher Nolan, il protagonista Leonard Shelby si tatua sulla pelle quello che deve ricordare al prossimo risveglio, costruisce un percorso di memoria selezionando le informazioni essenziali affinché sia in grado di agire per perseguire i propri scopi. Allo stesso modo, tenendo in considerazione le indicazioni di Kahneman, si potrebbe dire che ogni volta per Shelby l’esperienza fisica e temporale di ricevere quelle informazioni sia diversa, di conseguenza anche l’immediata rielaborazione del ricordo dell’esperienza sarà variabile. 

All’interno del continuum esperienziale ricerchiamo elementi narrativi nonostante questa selezione non sia sempre collegata a stimoli fisici come le emozioni che proviamo o le sensazioni. Spesso questi elementi hanno qualcosa a che vedere con la narrazione complessiva che facciamo della nostra vita, con le nostre aspettative e aspirazioni, con le nostre paure e i nostri traumi. E’ troppo semplice ridurre la questione in un “ricordiamo cosa ci ha colpito”, ci hanno colpito centinaia di cose che non ricordiamo più. La memoria e le sue narrazioni repentine ci dicono molto su quello che pensiamo sia la felicità, ma quasi niente riguardo il nostro benessere giorno dopo giorno.

L’anima nomade dell’esperienza e del benessere fa fatica a confrontarsi con gli ordinati palazzi della memoria contemporanei. E’ difficile prendersi cura delle proprie esperienze, comprenderle e rispettarle nel qui e ora, metterle proficuamente a confronto con le aspettative e le speranze; soprattutto quando l’ambiente esterno ci fa l’occhiolino promettendoci uno spazio sempre più gratificante nella rielaborazione continua dei nostri sé, per storytellare i noi di ieri, di oggi e anche i noi di domani.

Il processo di creazione e conservazione dei ricordi, il modo in cui agisce la nostra memoria ci appare incredibile, un meccanismo tanto complesso quanto autonomo e infallibile, e proprio per questo troppo spesso non abbiamo una conoscenza – seppure di base – del suo funzionamento. È così che uno dei meccanismi più sorprendenti del nostro cervello, se non controllato con consapevolezza, può paradossalmente allontanarci dal benessere, dando vita a fantasiose ricostruzioni del nostro passato: ricordi delle nostre vite bellissime che non abbiamo mai vissuto.

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