Il rito serale prevedeva che, mentre gli occhi si socchiudevano, si dovesse osservare per bene la macchia. Era lì da anni, fissa sul soffitto, perfettamente in corrispondenza del cuscino. La rilassava seguire i contorni e individuare le sfumature del colore, osservarla era in un certo senso rassicurante. Le ricordava il vicino di casa che esce sempre alla stessa ora. Ogni giorno dimentica qualcosa; rientra per lo stesso numero di secondi, producendo gli stessi rumori del giorno prima per poi riuscire, puntuale, ignaro di aver scandito la giornata dei suoi prossimi. La macchia era diventata una faccia amica, come i visi conosciuti cambiava a seconda del clima: a volte più marroncina e torva, altre più gialla e allegra. Qualche volta era timida e si tingeva di bianco e solo un occhio attento avrebbe potuto vederla, tanto si faceva piccola e pallida.
Non è che non avesse provato a tinteggiarla, a eliminare quell’imperfezione dal soffitto della sua stanza, della sua tana. Era servito a poco: quell’umidità senza che nessuno fosse mai riuscito a capire il perché, si formava di nuovo. Dopo inutili e costosi interventi, una sera qualsiasi, mentre era a letto a mangiare un pezzo di pizza, aveva smesso di fare la guerra alla macchia: aveva deciso di accettarla.
Giorno dopo giorno, Prisca iniziava a riconoscere qualcosa di leggermente differente nel suo viso. A volte, mentre camminava, guardandosi attraverso gli specchietti delle macchine parcheggiate, aveva l’impressione che si riflettesse qualcuno di diverso a ogni passo. Le era capitato di recente di dimenticare come si chiamasse, all’improvviso. Si era presentata con il primo nome che le era venuto in mente senza sentire il bisogno di correggersi.
Le piccole libertà che Prisca era solita concedersi comprendevano spesso il cibo, ma queste ormai generavano comportamenti simili a degli atti di ribellione interiore: qualche volta aveva una terribile voglia di dolce e allora se ne privava appositamente, decidendo di comprare solo ed esclusivamente salato, per poi rimanere delusa; altre invece si assecondava come se ogni suo desiderio fosse un ordine impartito da un essere superiore, quindi si costringeva ad assolvere qualunque sua volontà come se fosse un obbligo.
Per la maggior parte del tempo era consapevole del suo corpo, ma a volte se ne dimenticava e non sapeva più come muovere un piede o sbattere le palpebre, così doveva forzarsi. Per riprendere il controllo aveva iniziato a utilizzare delle specie di mantra sei viva, chiudi gli occhi e riaprili, allunga le dita dei piedi e senti la terra.
La casa di Prisca era un ambiente carino che le avevano venduto come un vero affare: ampio per una sola persona, non troppo costoso e arredato con gusto. La disgustava, eppure non poteva che provare entusiasmo all’idea di tornarci. Nonostante gli ambivalenti sentimenti per la sua casetta, dopo aver guardato nell’abisso del nulla per otto ore consecutive attraverso il monitor del proprio computer al lavoro, il letto era di conforto. Da sempre rappresentava il suo rifugio, un luogo caldo e comodo, dove tutto era concesso. Il luogo delle possibilità, del sogno e del pensiero. Dal letto ci si poteva affacciare su ben altri lidi, addentrarsi in mondi inventati, con regole proprie e propri abitanti, decisamente una vista migliore rispetto a quella offerta da qualunque browser. E ogni sera e ogni mattina, da quel letto, la prima cosa e l’ultima che vedeva era la macchia, la sua inquilina.
La ammirava, in un certo senso. Era come una di quelle persone che va alle feste anche senza invito, non per mettere gli altri in difficoltà, ma solo perché ha voglia di ballare. Infatti, nessuno l’aveva invitata a piazzarsi sul soffitto di casa, anzi, era stata scacciata, modificata, rasata, pulita, avevano provato a debellarla, ma comunque non aveva mai desistito. La macchia era tenace e fiera di essere viva.
Addormentandosi, Prisca vide un particolare angolo della macchia, una lieve striatura bruna che fino a quel giorno non aveva notato. La seguiva con lo sguardo stanco, come se avesse davanti a sé la pennellata di un abile artista della calligrafia giapponese, cercando di risalire all’origine del tratto. Quella venatura rigirava su sé stessa e la costrinse a girare gli occhi dietro la testa per poterla seguire. Nello scostare una ciocca di capelli che le ostacolava la vista, si rese conto che quel riccio sulla sua fronte si ripeteva come un timbro nella macchia: un perfetto gemello nella forma e nello spessore era impresso sul muro. Era come se avesse scoperto una nuova pianta miracolosa, una fonte d’intrattenimento irresistibile ed entusiasmante.
Dal giorno seguente il rito serale si arricchì: non si trattava più solo di osservare la macchia per prendere ispirazione e immaginare mondi inediti e segreti, ma di cercare in essa qualche particolare da aggiungere a quel ricciolo così familiare. A mano a mano che i giorni si susseguivano, la macchia, con i suoi numerosi e consueti cambiamenti, iniziò come a rimpicciolirsi, schiarendosi e raccogliendosi sempre di più in un tondo giallognolo. Prisca avrebbe voluto poter cogliere il momento esatto del cambiamento, ma se ne accorgeva sempre a fatto compiuto.
Le sessioni di osservazione di Prisca si erano fatte sempre più lunghe e frequenti, fino a diventare quasi la sua attività esclusiva dopo il lavoro. Fu così che un giorno, dopo essere corsa a casa per verificare se c’erano stati mutamenti nella macchia, notò che la forma circolare si era definitivamente delineata in un ovale. In esso si potevano scorgere due linee arrotondate e scure, quasi del tutto speculari, anche se quella a destra risultava vagamente più arcuata. Dopo alcune ore di intensa ricerca Prisca iniziò a scorgere chiaramente un lieve sorriso, caratterizzato da labbra carnose che piano piano diventavano sempre più definite. Per ultimi apparvero gli occhi, inconfondibili: due occhi grandi tirati vagamente all’ingiù, che conferivano al volto un’aria lamentosa, nonostante il sorriso aperto.
Quando il volto apparve intero di fronte a Prisca, lei, presa come da una forza esterna al suo corpo, non poté fare a meno di alzarsi in piedi sul letto, per osservare l’immagine più da vicino. In ogni particolare, soprattutto nell’espressione gentile e insieme triste, si riconobbe. Rimase lì in piedi sul cuscino per un po’, forse per un’ora. Per la prima volta dopo molto tempo le pareva di riuscire a guardarsi davvero; tutto in quel volto le era familiare eppure estraneo. Allungò la mano, ma non riuscì a toccare il viso della macchia, allora cominciò a saltare. Saltava sempre di più, sempre con più foga, fino a quando ad un tratto la toccò.
Visto da lì il letto era solo un rettangolo multiuso: un giaciglio, spesso un tavolo da pranzo, altre volte un confessionale, raramente un luogo entusiasmante. Sembrava così calma, vista da lì. Nessuno guardandola avvolta in quel bozzolo di coperte avrebbe potuto sospettare il tumulto dei suoi pensieri. Gli occhi erano verdognoli, con un cerchio quasi nero attorno e la bocca era storta in una smorfia, stava creando uno dei suoi mondi? O era solo intenta a rivisitare la giornata appena trascorsa? Provò un moto di tenerezza verso sé stessa e si perdonò, mentre si guardava da quello strano, inusuale e invisibile specchio tra il soffitto e il letto.
Una risposta a “La stanza di Prisca”
[…] Livia Mastrodonato in La stanza di Prisca insegue allucinazioni o premozioni nell’orario ambiguo che separa il sogno dalla veglia; sotto al letto si nascondono i mostri mentre i veri fantasmi stanno in mostra sulle nostre pareti; […]