Durante il mese di marzo in moltissime città toscane si è manifestato l’ennesimo fenomeno di quella che troppe persone, con insopportabile ipocrisia, si ostinano a chiamare emergenza climatica. I cambiamenti sistemici che colpiscono il clima globale e che porteranno presto a delle rivoluzioni sostanziali nella vita di grandissima parte della popolazione globale sono ignorati, rimossi o trattati alla stregua di casi fortuiti o episodici. Quando non dobbiamo scontrarci con il più becero negazionismo, ormai quasi ridicolo agli occhi dei più, ci troviamo di fronte a una strategia retorica molto più complessa da contrastare: mettere su due piatti della stessa bilancia la tutela dell’ambiente e la crescita economica.
Il negazionismo climatico è la manifestazione estrema di posizioni politiche molto più diffuse, che tentano di mitigare le azioni necessarie a salvaguardare l’uomo dall’estinzione con la scusa della necessità di tutelare la produzione industriale. Ogni volta che in Italia si verifica un’alluvione, non sentiamo parlare che di tutele per le imprese.
Il Capitale nell’Antropocene del filosofo giapponese Saito Kohei (Einaudi 2024, anche se la versione in lingua originale è del 2020) è una rilettura critica delle teorie economiche marxiste a partire dall’analisi di alcuni testi meno noti del filosofo tedesco, in particolare la lettera alla rivoluzionaria russa Vera Ivanovna Zasulič e la mole di appunti e scritti incompiuti, soprattutto tardi, che costituiscono l’oggetto privilegiato di analisi della monumentale opera MEGA (Marx-Engels-Gesamtausgabe), l’edizione critica completa dei lavori di Marx ed Engels, avviata nel 1958 e ancora in corso, a cui lo stesso Saito attualmente lavora. Lo scopo del nuovo Capitale, si intuisce facilmente dal titolo, è rileggere le teorie di Marx alla luce della crisi climatica in corso. Analizzare il testo ci offre un punto di vista radicale sulle pratiche e sulle politiche possibili, dando spunti non sempre innovativi ma raramente così massimalisti.
Saito critica alcune interpretazioni delle teorie di Marx nate in seno ai Paesi socialisti e alle relative dottrine economiche, in particolare l’assegnazione di un ruolo centrale alla crescita economica – e quindi alla produzione – come fonte di benessere e arricchimento collettivo. Questa logica, dice Saito, non è diversa da quella capitalista, e nonostante nelle società comuniste la produzione sia regolata da paradigmi radicalmente alternativi riguardo all’organizzazione del lavoro e alla proprietà dei mezzi di produzione, i governi di paesi come l’URSS o la Cina di Mao non hanno mai messo in discussione l’idea che l’arricchimento debba passare dalla crescita economica. Saito dimostra come la produzione, a prescindere dalla sua organizzazione sociale, sia di per sé causa del peggioramento del clima sul nostro pianeta. Per uscire dalla crisi, sostiene quindi l’autore, dobbiamo eradicare dalle nostre politiche il mito della crescita, sia essa anche perfettamente redistribuita, e puntare a un’abbondanza radicale – su questo concetto torneremo – attraverso un modello che il filosofo definisce “socialismo della decrescita”.
Questa forma di socialismo si fonda su alcuni pilastri: la responsabilizzazione del singolo nei consumi, la riduzione del lavoro e della produzione, l’assegnazione ai prodotti di un valore d’uso che prevarichi il valore economico dell’oggetto in quanto merce. Per valore d’uso si intende l’impatto diretto che un manufatto o un settore economico-industriale hanno sui bisogni primari e sulle attività quotidiane essenziali di un individuo: istruzione, sanità, agricoltura. Secondo Saito, a questa soluzione sarebbe arrivato, almeno in una forma abbozzata, lo stesso Marx negli appunti delle ipotetiche seconda e terza parte del Capitale, mai pubblicate dal filosofo tedesco e rimaneggiate da Engels dopo la sua morte:
«Ciò che [Marx] proponeva […] era di passare a produzioni centrate sul valore d’uso, diminuendo quelle orientate alla creazione di valori inutili e accorciando gli orari di lavoro. E anche la riduzione della divisione del lavoro, che priva i lavoratori della loro creatività. Inoltre, di pari passo dovrebbe procedere la democratizzazione del processo produttivo, con lavoratori che prendono decisioni democratiche in merito. E questo anche se richiede più tempo. Deve inoltre esserci maggiore considerazione a livello sociale per i lavori essenziali, sia per la loro utilità che per il loro basso impatto ambientale».
L’argomentazione di Saito parte dalla critica alla green economy e ai modelli keynesiani di crescita economica “ecologica”: a nulla vale la transizione ecologica, se non presuppone una tendenza alla decrescita. Tutti gli sforzi del Nord globale per pitturare di verde le proprie politiche industriali sono inutili per due motivi principali: in primo luogo, in sintesi, ogni forma di produzione, sia essa la più ecologica possibile, produce manufatti, quindi consumi, scorie e rifiuti; gran parte della produzione green del Nord globale, inoltre, presuppone forme di estrattivismo di risorse e materie prime, imperialismi economici e delocalizzazione delle filiere produttive maggiormente inquinanti verso il Sud globale. Il problema dei rifiuti riguarda anche molte tecnologie energetiche “innovative” attualmente in uso, dalle auto elettriche ai pannelli fotovoltaici. Il decoupling, cioè il tentativo (su cui si fondano i modelli di sviluppo keynesiani) di separare la crescita economica dalla produzione di sostanze inquinanti, è un’illusione.
È evidente a chiunque che il Nord globale, soprattutto le fasce più ricche della popolazione, ha maggiori responsabilità storiche rispetto alla crisi in corso. Serve, per questo, che sia il Nord a fare sforzi maggiori per ripensare i paradigmi produttivi dell’economia globale e che, allo stesso tempo, sia messa in conto dagli Stati che cooperano alla lotta contro la crisi climatica la produzione necessaria a fornire al Sud gli elementi essenziali per accedere ai più basilari diritti umani. Le logiche competitive e di accumulo di risorse che stanno alla base del capitalismo, inutile specificarlo, sono incompatibili con questi bisogni. Anche sulla disparità tra Paesi industrializzati e economie rurali si sarebbe espresso Marx nella già citata lettera a Zasulič, in cui il filosofo tedesco esalta i modi di vita e le strutture sociali delle popolazioni germaniche premoderne e sostiene che la via verso il comunismo potesse realizzarsi non soltanto negli Stati europei economicamente più avanzati (come si afferma nella parte edita del Capitale), ma anche in Paesi come la Russia, dove, per via dell’assenza di economie industrializzate, non poteva verificarsi il calo tendenziale del saggio di profitto immaginato nel testo del 1867. Queste affermazioni, per Saito, sono la conferma che il pensiero del tardo Marx contenga già i prodromi per l’ideazione di un “comunismo dell’Antropocene”.
A proposito della riduzione sostanziale delle attività produttive, abbiamo già evidenziato come Saito prenda di mira tutte quelle che non generano un valore direttamente misurabile in relazione al benessere della persona, a partire dai bullshit jobs, i “lavori del cazzo” (l’autore cita le professioni finanziarie, il marketing, la pubblicità, il settore della consulenza e quello delle assicurazioni), allo scopo di dare centralità politica ed economica ai lavori che hanno invece un alto impatto diretto sulla vita delle persone (sanità, istruzione, agricoltura e così via). È necessario, continua, produrre meno (quindi anche lavorare meno), fondando la nostra organizzazione sociale sulla messa in comune dei beni essenziali – è il caso di piante e alberi da frutto che appartengono all’intera cittadinanza, come nel caso recente di Copenaghen. La produzione del cibo dovrebbe, continua lui, essere fondata su principi di sovranità alimentare e mirare al più ampio benessere collettivo. Esistono già esempi virtuosi di esperimenti ben riusciti – Saito fa gli esempi di Barcellona e di altri esperimenti di municipalità che hanno creato modelli partecipativi dei cittadini alla vita collettiva. È evidente che gli sforzi fatti finora non sono sufficienti, ma possono tracciare la strada. La decrescita a cui questo modello tende si fonda su un principio di “abbondanza radicale”, cioè un’abbondanza misurabile non tramite i tradizionali parametri capitalisti, primo fra tutti il Prodotto Interno Lordo, ma tramite la più ampia e radicale redistribuzione dei beni essenziali a tutta la popolazione, la loro immediata disponibilità, l’ideazione di un sistema fondato sul mutualismo e sul rispetto dell’ambiente allo scopo di salvaguardare la nostra specie e di vivere in armonia con le altre.
Come farlo? Come arrivare a questi risultati? È la domanda che chi legge si pone durante l’intero libro e alla quale Saito tarda volontariamente nel dare una risposta, quasi a voler creare un effetto di suspense in un testo di impronta saggistica tradizionale. La risposta è secca, quasi brutale: in base agli studi di Erica Chenoweth dell’università di Harvard, per ottenere un cambiamento serve che il 3,5% delle persone interessate – in questo caso l’intera umanità – si mobiliti.
Il testo di Saito allunga la serie di tentativi di rileggere e attualizzare il Capitale di Marx. È famoso, a questo proposito, Il Capitale nel XXI secolo dell’economista francese Thomas Piketty (UTET, 2013), con cui il testo di Saito dialoga a più riprese. Il giapponese evidenzia i limiti teorici, a suo parere, delle posizioni di Piketty (troppo moderate e in parte riassumibili con le stesse critiche che Saito pone al marxismo novecentesco), ma ne evidenzia allo stesso tempo le evoluzioni positive a partire da un altro testo del 2021 dello stesso autore, Capitale e ideologia, in cui le posizioni di Piketty si radicalizzano in merito all’organizzazione del lavoro e al fallimento sociale e ideologico del capitalismo. Saito vuole dimostrare che una parte crescente dei pensatori economico-politici di ispirazione marxista stanno abbracciando posizioni più radicali e, allo stesso tempo, cerca di dare agibilità politica alle proprie idee.
Tuttavia, a mio parere, è necessario evidenziare che il testo presenta alcune ingenuità. Prima fra tutte, ed è forse una vera e propria colpa politica, è quella di responsabilizzare l’individuo nelle sue scelte quotidiane di consumo. Scrive Saito:
«Ma proviamo a ribaltare la questione: scegliere volontariamente l’autocontrollo diventa un atto “rivoluzionario” contro il capitalismo. Un’autoregolamentazione che abbandona la crescita economica illimitata e pone l’enfasi sulla prosperità e sulla sostenibilità per chiunque diventa l’elemento capace di espandere il regno della libertà e prepara la strada per un futuro all’insegna del comunismo della decrescita».
Abbiamo ascoltato fin troppo delle voci che ci imponevano questo o quel modello di consumo, e venivano quasi sempre dalle aziende e dal marketing. È una strategia del capitalismo quella di spingere il singolo consumatore a “scegliere” i prodotti secondo modelli etici di consumo sempre pronti a cambiare, laddove il concetto di etica può essere declinato in tutte le sue accezioni. Bisogna specificare, tuttavia, che Saito non delega l’autocontrollo e il cambiamento al singolo in quanto tale, ma lo considera piuttosto come parte di piccole comunità autosufficienti. Uno dei punti cardine del modello immaginato dal filosofo è il superamento del controllo dello Stato sulle politiche energetiche e di consumo, contro quello che lui stesso definisce “maoismo climatico”. Saito immagina la formazione di comunità che fondano la propria vita sulla messa in comune dei beni essenziali accessibili a chiunque, riprendendo come già accennato in precedenza il modello di vita delle comunità germaniche e collegandolo agli esperimenti di municipalità contemporanei. Una visione ingenua? Non credo, forse soltanto molto radicale. Specifichiamo quindi che la frase di Saito è un passaggio secondario in un sistema più ampio e che prevede un cambiamento profondo dell’organizzazione sociale. Tuttavia, non possiamo credere che un ritorno a modelli sociali di più di un millennio fa non si scontri con l’impossibilità a cambiare drasticamente i modi di vita contemporanei e, se decidessimo di farlo, non dobbiamo dimenticarci che il consumatore, ancor prima di essere tale, è un essere umano situato, con esigenze, bisogni e desideri spesso in conflitto con la sua condizione sociale o economica. Fondare una rivoluzione sui comportamenti del singolo o di piccole comunità autosufficienti, piuttosto che sulle condizioni materiali che li (pre)determinano, rischia senza mezzi termini di mettere in crisi l’intero impianto teorico del nuovo Capitale.
Inoltre si può notare, a tratti, una tendenza alla rilettura forzata e parziale delle teorie di Marx. È vero che esiste una parte consistente dei suoi testi che abbiamo ignorato; è innegabile che le interpretazioni marxiste novecentesche possano essere dannose per l’ambiente; la riabilitazione forzata e quasi “revisionista” di Marx nel suo complesso, tuttavia, può risultare a tratti arbitraria.È diventato un caso, forse più utile al marketing editoriale che alla politica in senso stretto, il successo che Il Capitale nell’Antropocene ha avuto tra le persone più giovani. Detto che guardo con diffidenza ogni sbandierato entusiasmo verso la sensibilità dei “giovani” per certe questioni, di cui si parla come se l’ambientalismo fosse un dato di natura delle cosiddette “nuove generazioni” – anche il concetto di generazione per me è una truffa, ma questa non è la sede per parlarne –, credo che si possa rintracciare nello stile del testo, oltre che nel messaggio in sé, il motivo del successo del libro. Il Capitale di Saito è estremamente agile, usa un linguaggio semplice e diretto, i capitoli sono brevi e suddivisi in venti o trenta paragrafi tendenzialmente da un paio di paginette. Ogni paragrafo ruota intorno a un solo concetto e anche chi non sa nulla di economia in senso tecnico – come me – può capirlo e introiettarlo. Insomma, un testo opposto rispetto al Capitale di Marx o a quello più recente di Piketty, già citato. Il testo lascia immaginare scenari complessi e rivoluzionari, anche difficilmente realizzabili allo stato attuale, se ci si pensa con un po’ di senso critico o con spietato realismo. È uno di quei libri per cui, se ne parli la sera con un amico incamiciato della Luiss, rischi di imbatterti in presuntuose ma difficilmente confutabili sciorinature di contro-dottrine economiche o in critiche strumentali che ti chiedono di precisare questo o quel passaggio tecnico. Tuttavia, il merito del testo è proprio che lascia spazio all’immaginazione. Non essendo il libro di un economista (come è ad esempio Piketty), non si pone il problema di affrontare i problemi di cui parla da un punto di vista meramente tecnico, ma ne dà una lettura politica. Il più brutale successo del capitalismo, lo sappiamo, è limitare lo spazio dell’immaginazione, mentre Saito prova a riprenderselo.
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