Quando, dopo la laurea, mi sono ritrovato a tornare nel mio paesino dell’estremo sud della Sicilia orientale — un rientro forzato, reso ancora più stagnante da due cicli di quarantena pandemica — ho vissuto una lunga parentesi di sospensione. Il tempo sembrava essersi inceppato, e le prospettive si erano fatte opache. In attesa, con una certa frustrazione, di entrare nel mondo della scuola, coltivavo in segreto un desiderio che fino a quel momento avevo considerato poco più che una fantasia adolescenziale: scrivere. O, più precisamente, essere letto.

Non mi sentivo attratto dalla narrativa, e l’eredità della scrittura accademica — soprattutto quella filosofica, spesso involuta e autoreferenziale — mi lasciava addosso un fastidio formale, una repulsione istintiva per certi codici. Così, quasi per caso, ho iniziato a cercare altre direzioni: ho scoperto le prime riviste culturali online, ho seguito discussioni e polemiche su Facebook e spiato — da dietro lo schermo — quella che solo più tardi avrei riconosciuto come una vera e propria scena. All’epoca mi appariva come un paesaggio affascinante e confuso: persone che scrivevano di temi complessi con libertà e stile, e che, soprattutto, sembravano appartenere a un altrove inaccessibile.

Non sapevo che scrivere è innanzitutto un gesto relazionale. Che per trovare la propria voce serve anche trovare uno spazio, una comunità, un campo di forze. Le riviste culturali, in questo senso, restano dispositivi fondamentali: luoghi di passaggio, di esercizio e di incontro. Officine effimere ma essenziali, capaci di far emergere nuovi sguardi e nuovi linguaggi. Per me, l’esperienza di Rivista Stanca è stata decisiva: una micro-redazione nata su Instagram che, nonostante l’assenza di fondi e strutture, è riuscita a costruire un immaginario condiviso. Il prima e il dopo della pandemia hanno cambiato le regole del gioco simbolico: ricostruire quella traiettoria aiuta a capire come si muove oggi la scrittura in Italia, e quali energie la sostengono.

Per questo, abbiamo deciso di parlare con Gregorio Magini e Vanni Santoni, due autori che hanno contribuito a uno degli esperimenti più emblematici degli anni Duemila: Mostro, la prima rivista letteraria italiana online. Un progetto che ha saputo intercettare, prima di altri, i mutamenti di paradigma in corso, e che oggi possiamo rileggere non solo come una tappa fondamentale della cultura digitale, ma anche come una riflessione ancora attuale sull’essere scrittori in rete.

Questo è l’inizio di una autopsia del mondo culturale italiano, siamo negli anni in cui l’italia sta vivendo con più intensità il passaggio dal mondo analogico alla realtà del digitale. È il 2000 e siamo a Firenze. Mostro nasce dagli ambienti della militanza politica universitaria, tra i suoi fondatori ci sono gli scrittori Gregorio Magini, Francesco D’Isa, Matteo Salimbeni e Dario Honnorat, a cui nella fase di picco della rivista si sono aggiunti i racconti di un giovane Vanni Santoni. Nell’ottobre del 2000 e fino al 2005, la rivista era distribuita gratuitamente in PDF, un formato che rappresentava il compromesso tra la nostalgia del cartaceo e le potenzialità ancora acerbe del web. Non un medium broadcast, ma uno spazio di condivisione orizzontale, anarchica.  

È opportuno iniziare da qui per raccontare un’esperienza di confine in senso culturale: il passaggio dal cartaceo all’online da parte delle riviste letterarie e culturali ha assunto, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, i tratti di una vera e propria epica della frontiera. Il digitale appariva allora come un territorio ancora aperto, libero, da esplorare e colonizzare; uno spazio in cui sembrava possibile costruire zone di autonomia creativa e politica, svincolate dalle logiche del mercato tradizionale. La carta non scompare, ma accanto a essa si afferma il testo virtuale, il dispositivo è già attivo, la macchina lavora. A quel punto, la scelta sembra ridursi a due opzioni: resistere o farsi assorbire, senza combattere, dal flusso incessante del nuovo ambiente mediale.

Vanni, volevo chiederti innanzitutto se sei rimasto in contatto con le persone incontrate nell’ambito di Mostro.

Vanni Santoni: Con molti ho continuato a lavorare anche dopo quell’esperienza, penso allo stesso Gregorio con cui dopo “Mostro” ho portato avanti SIC – Scrittura Industriale Collettiva –, poi ovviamente Francesco D’Isa, con cui collaboro alla rivista da lui diretta, “L’Indiscreto”, o ancora Tommaso Lisa, autore che negli anni conclusivi di “Mostro” era dietro il progetto
“Re:vista”, altra rivista, fondata da lui e da Alessandro Raveggi, che ha contribuito in modo importante alla nascita della scena letteraria fiorentina

Gregorio, scusami ma devo subito chiederti come ti è venuto in mente il layout per il racconto intitolato Blitzkrieg… Hai di sicuro danneggiato la vista di molte persone.

Gregorio Magini: [ride] In effetti credo di non aver mai più impaginato qualcosa in quel modo. 

Lo ricordiamo a chi ci legge. Tu sei tra i fondatori di “Mostro”, anche se leggo il tuo nome a partire dal decimo numero..

GM: Sì perché inizialmente tutta la redazione usava degli pseudonimi, io ero Peter Poe! 

Se penso ai primi mesi di “Stanca” avevo l’impressione che le cose che scrivevo insieme alla redazione finissero in un vuoto, insomma, che non ci leggesse nessuno. Mi chiedevo in effetti per chi portassimo avanti la rivista. Voi addirittura avevate lo pseudonimo. Quindi, chi era il vostro pubblico? Ho notato che in ogni frontespizio è presente un indirizzo email a cui i lettori potevano scrivere…

GM: Non sapevamo assolutamente chi fossero i nostri lettori ma non era qualcosa che ci importava più di tanto. Non so quanti anni hai, ma quando creammo “Mostro” il mondo era decisamente diverso da quello di oggi. Si, c’erano i forum ma il luogo in cui scoprire nuove tendenze e scrittori interessanti era la libreria. Andavi lì, facevi un giro e sfogliavi la rivista che ti aveva incuriosito. Poi magari cercavi i contatti per scrivere alla redazione o un numero di telefono ma, anche lì, riesci a immaginare? Chiamavi e poi che dicevi? Quindi non succedeva quasi mai di entrare fisicamente in contatto con queste realtà. Il tentativo era quello di usare lo spazio online messo a disposizione da Autistici/Inventati, con cui cercavamo di portare avanti un discorso critico rispetto al copyright e alla S.I.A.E.

Quindi è stato il legame con Autistici/Inventati a non farvi optare per il blog, strumento che in quegli anni adoperavano tutti?

GM: Esatto, l’idea del blog non ci passò mai per la mente, ma in effetti, ora che mi ci fai pensare, sarebbe stato un buon modo per avviare un dibattito più ampio con chi ci leggeva, la questione come ti ho detto era che la nostra realtà si intersecava con quella dei collettivi politici che militavano a Firenze.

Mentre Vanni arriva dopo, a partire dal numero XV, quindi tra il 2003 e il 2004.

VS: Sì, ho avuto il primo contatto ravvicinato con la redazione di “Mostro” grazie al comune impegno politico nel movimento, in occupazioni come il Bandone o spazi autogestiti come l’Elettro+. Proposi un racconto e così fui invitato prima alla riunione settimanale del venerdì, aperta ai collaboratori e dopo un po’ di fatica fui ammesso a quella della domenica, a cui partecipavano solo i redattori fissi. Fu difficile, erano tipo incontri massonici (ride).

GM: Ma no, era che in quella si parlava più che altro di soldi e questioni organizzative.

Vanni, un gioco di memoria e nostalgia: riesci a ricordare il primo e l’ultimo contributo che hai proposto alla redazione di Mostro?

VS: Il primo era un racconto medievaleggiante che fu giustamente rifiutato; l’ultimo non ricordo.

A proposito di questioni organizzative, sono interessato ad un argomento: i soldi. Come finanziavate la rivista?

GM: In realtà era molto semplice. Inizialmente quando tutto è iniziato ed eravamo appena usciti dal liceo, ci limitavamo a usare le fotocopiatrici negli uffici dei nostri genitori o in casa. In quella prima fase bastava comprare le risme di carte e accettare di stare tutta la notte ad impaginare i cartacei. Quando poi iniziammo a stampare in una tipografia e anche il progetto grafico migliorò, mi pare a partire dal decimo numero, seguimmo due strade. La prima era quella dei bandi universitari, penso all’A.R.D.S.U., non so se esiste ancora, che erogava tra i 500/1000€, sufficienti a fare tutto. La seconda strada fu quella di metterci in strada davanti a una libreria qui a Firenze, bastava riuscire a vendere 100/200 copie e con il ricavato coprivamo le spese. Certo, dopo i primi numeri, la rivista cominciò ad avere pubblicazioni semestrali.

Voi però siete anche una delle prime, se non la prima, rivista letteraria online. Come vi relazionavate ad internet?

VS: Ricordo che quando iniziarono ad aumentare i contributi esterni si faceva una selezione e quelli che ci piacevano meno finivano su internet. La cosa era controproducente, perché chi non leggeva il cartaceo pensava che quello che veniva pubblicato fosse penoso. 

GM: Ritornando al discorso della militanza, questa influenzava anche il nostro rapporto con l’on-line, da qui la scelta dello spazio sui server di Autistici/Inventati. 

C’erano dei riferimenti, anche esteri, a cui vi siete ispirati? 

GM: No, assolutamente. A parte che, come ti ho detto, non conoscevamo nessuno. La nostra era più che altro un’esigenza che nasceva da un impegno politico. C’è anche un aneddoto che mi ha fatto sempre ridere. Pensa che la famiglia di Matteo Salimbeni, uno dei fondatori di “Mostro”, era la proprietaria di una famosa libreria di Firenze. Periodicamente gli chiedevamo di aggiornarci sulle novità interessanti ma lui rispondeva sempre che non c’era nulla. Noi ci fidavamo del figlio del libraio. 

VS: Io personalmente leggevo solo i classici, e ai tempi in cui conobbi Gregorio,  Francesco, Matteo, Dario e Margherita – questo il “gruppo storico” che trovai alle prime riunioni, anzi prima ancora di conoscerli, quando trovai una copia della rivista al Bandone, questa mi attrasse per lo stile borgesiano/kafkiano delle cose che scrivevano. Era una letteratura che conoscevo bene da lettore, e per quello volli provare a scrivere un pezzo. A quei tempi le mie letture si fermavano più o meno al 1933, con l’eccezione giusto di Borges o del Calvino delle Città invisibili… Ho cominciato a conoscere altri scrittori viventi fuori da “Mostro”equando sono stato invitato ai primi festival di letteratura, dopo l’uscita degli Interessi in comune per Feltrinelli. Era il 2008 e l’incontro con i romanzi di gente come Filippo Tuena o Giorgio Vasta, che poi sono diventati anche dei cari amici, mi fece scoprire che esisteva una vita letteraria valida oltre ai classici.

In effetti una delle cose che mi ha colpito dell’editoriale del numero X, che è in effetti il primo editoriale di “Mostro”, è che nel vostro contesto di riferimento sentivate questo contrasto tra la realtà mainstream e i circoli culturali locali, troppo elitari.

GM: Non che ci interessasse farne parte, “Mostro” era una nicchia culturale del movimento militante di quegli anni, non portavamo avanti la rivista per entrare nel mondo della letteratura ma perché avevamo un’anima politica che si esprimeva in una lotta contro realtà come la S.I.A.E. o che ci condusse nel 2004 alla manifestazione di Firenze contro la guerra in Iraq a distribuire i cartacei della rivista. 

VS: Io bazzicavo il Collettivo Politico della facoltà di Scienze Politiche a Firenze, invero mosso per lo più dal desiderio di conoscere le ragazze che lo frequentavano, anche perché in fondo mi riconoscevo più in altre aree del movimento, più libertarie e meno “tankie”… in ogni caso, le assemblee infinite ahimè tipiche del movimento, mi annoiavano a morte. Avevo invece una grande passione per la letteratura ma che fino a quegli anni non era diventata materia di condivisione con qualcuno. “Mostro” è stato un percorso di scoperta, di autoformazione attraverso la condivisione dei riferimenti e degli interessi di ciascuno di noi. 

Credo che oggi molti frequentatori delle riviste siano soprattutto scrittori in cerca di capitale simbolico. Ma si tratta di una minoranza. Spesso, e parlo anche per me, ci si accorge che nessuno conosce davvero quante riviste esistano e soprattutto come funzionano: troppo presi dal voler diventare scrittori, si trascura l’aspetto relazionale.

Penso quindi a “Mostro”: un ostinato rifiuto del mainstream, un’estetica che ignora il presente e predilige l’inattuale. Non credo sia una questione di autenticità, anche ai vostri esordi le dinamiche per emergere erano le stesse che ci sono oggi, per non dire che anche l’unica differenza può essere bypassata se si considera che l’online è solo una bolla, estensione del marketing degli uffici stampa e che le cose accadono sempre in presenza, faccia a faccia, tra un festival, una presentazione e una serata techno. Forse l’esperienza di Mostro e di altre realtà come la vostra dimostra che per produrre qualità bisogna concentrarsi sul tema principale che è poi sempre e solo la buona scrittura.

VS: Ci tengo a dire che non mi piace molto l’immaginario evocato ormai dall’espressione “scrittore emergente”, che è stata cooptata dagli editori a pagamento per definire le persone da loro truffate e continuare a farle sentire “autori”. Preferisco parlare di aspirante (se non ha ancora esordito) o  esordiente (se ha già esordito) ed è vero come dici tu che molte delle persone che si iscrivono ad un laboratorio di scrittura il più delle volte hanno ancora un’idea stereotipata del mestiere della scrittura, perdendosi dietro l’invio di copie di manoscritti a case editrici nella speranza di essere pubblicati. Per non parlare poi di chi finisce nella trappola delle edizioni a pagamento, o anche in quella dei “falsi editori free”, che non chiedono soldi ma neanche distribuiscono o promuovono, ma pubblicano centinaia di autori nella speranza di trasformarne alcuni in auto-piazzisti. Durante i miei corsi di scrittura, uno dei consigli principali che do agli studenti che chiedono come pubblicare è: “Fondate una rivista”. Ciò proprio perché prima di pensare agli editori è opportuno pensare a far parte di una scena, o a crearla, insomma pensare prima alla letteratura che alla pubblicazione.

Perché Mostro è finita?

GM: Non c’è un motivo specifico, credo che a un certo punto è come se si fosse dato tutto quello che era possibile dare è questo che poi ci ha portato tutti verso altre strade. Non tutti quelli che erano dentro “Mostro” hanno poi proseguito con la scrittura.

VS: Poi c’è anche da dire che mentre eravamo ancora dentro la rivista nascevano già altri progetti paralleli. Come ti dicevo inizialmente, io e Gregorio abbiamo iniziato a concentrarci sulla scrittura collettiva e l’esperienza di SIC è poi proseguita per tanti anni fino alla pubblicazione di In territorio nemico per minimum fax. Poi, ad un certo punto ci siamo stufati anche di quell’esperienza lì e ci siamo buttati su altro… Insomma è normale che le cose debbano finire, la scrittura, specie quando si è agli inizi, è sempre un accumularsi di progetti, idee, iniziative, ed è bene così. 

Sì, capisco. Quando ho ascoltato Alberto Piccinini parlare di scrittura culturale (ma vale anche per la fiction), mi ha colpito come la collocasse dentro il frame dell’artigianalità e dell’effimero. Non per sminuirla, ma per riconoscerne la natura: parte del dibattito pubblico. A prescindere dalla sua longevità, quali erano i punti di forti e le debolezze di Mostro?

VS:  Il punto di forza era sicuramente la qualità media della prosa; il punto debole forse l’insufficiente apertura verso l’esterno. Punto debole che fu infatti emendato dalla rivista che raccolse direttamente la fiaccola di “Mostro”, cioè “Collettivomensa”, fondata da Sacha Biazzo, Antonio Pronostico e Fabiagio Salerno. È interessante notare come dal cadavere di Mostro nacquero poi altre esperienze: dopo “Collettivomensa”, per la quale noi stessi fummo felici di scrivere, arrivò poi “RiotVan”, e dopo di essa “Street Book Magazine”… Esiste una vera e propria genealogia di riviste della cosiddetta “scenicchia” fiorentina… Si trattò di realtà che riuscirono ad attrarre un pubblico, a creare una scena, veri e propri centri di agitazione culturale. 

Come ricordato dallo stesso Vanni Santoni in un articolo pubblicato su “Il Foglio“ (2017), all’atmosfera notturna e borgesiana di Mostro si aggiunse qualche anno dopo “Slipperypond”, rivista dai toni più scanzonati e distribuita interamente online, fondata da Francesco Ammannati, Lorenzo Orlandini e Gabriele Merlini, a cui lo stesso Santoni prenderà parte, così come Raveggi, emerso da “Re:vista”. Se si prova a cercare il sito di alcune di queste riviste oggi si rimane delusi, perché i siti non sono più attivi – le si possono trovare solo con la Wayback machine dell’Internet archive – ma “Mostro” è ancora online, è possibile scaricare i pdf dei vari numeri, una testimonianza di come prescindendo dall’Internet padronale si possano costruire spazi in cui l’effimero può continuare a dibattere con il presente. 

Mi torna spesso in mente una frase di Roberto Calasso, che paragona la scrittura a un rito segreto, l’ultimo rito dell’ultra-modernità, una forma di sacerdozio solitario in cui vittima e carnefice sono riuniti. Scrivere, secondo lui, non si insegna: si pratica, si affina nella dedizione costante, nella lettura degli autori affini, lontano da ogni logica di utilità. Una visione affascinante, ma anche profondamente elitaria, fondata su un privilegio radicale: il diritto alla solitudine, alla libertà dal bisogno, all’indipendenza dal mercato.

Ma più osservo la scena culturale contemporanea, più capisco che questo ideale si scontra con una realtà ben diversa. La maggior parte di chi scrive non ha il privilegio di sottrarsi alle logiche materiali: lavora, si arrangia, si forma in corsi di scrittura o master, partecipa a esperienze editoriali spesso precarie o non retribuite. Altri, con più fortuna o ostinazione, provano a costruire spazi propri: riviste, blog, collettivi, piccole case editrici. In tutti i casi, scrivere oggi è meno un mestiere che una vocazione sostenuta da forme di lavoro parallelo, precarietà, reinvenzione continua.

Alla luce di tutto questo, anche la visione calassiana appare diversa. Una scrittura che non si confronta con l’esterno rischia di diventare sterile, autoreferenziale. Per restare viva, la scrittura ha bisogno di relazioni: non solo di lettori, ma di interlocutori, di tensioni, di contesti condivisi. Calasso stesso, a ben vedere, non era un eremita: era il frutto di un milieu vivo, colto, fatto di reti famigliari e intellettuali, incontri decisivi, istituzioni resilienti. Solo una volta conosciuti i suoi corpi viventi, la letteratura smette di essere culto privato e diventa pratica, artigianato, costruzione collettiva. È in questa zona di frontiera — tra arte e industria, tra underground e mainstream, tra centro e margini — che si gioca oggi il significato della scrittura.

L’editoriale del decimo numero di “Mostro” si apriva così: “C’è tanta merda a giro perché la merda si vende meglio della letteratura”. Oggi la situazione non è probabilmente diversa, ma non bisogna idealizzare, scadere nel mito regressivo dell’arcadia primordiale. Come nella specie di haiku contenuto nella mail che Vanni Santoni mi ha inviato qualche settimana fa, bisogna porre attenzione al fatto che “in qualunque periodo storico le cose non belle erano di più delle cose belle; non ci sono mai state epoche d’oro. Dall’altro lato, ci sono sempre state cose belle in mezzo alle cose non belle, quindi va bene così”.

Una risposta a “Per una storia delle riviste culturali: Mostro (2000-2005)”

  1. […] Più di vent’anni fa, quando cominciai a scrivere, facevo parte di una rivista (Mostro, n.d.r.); all’epoca avevo letto solo classici e non conoscevo bene la letteratura contemporanea, […]

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