Tra gli anni Dieci e gli anni Venti del nostro Secolo il paradigma del fare rivista si è evoluto: dopo l’iniziale fase espansiva dei blog, quando alle esperienze di Carmilla, Nazione Indiana e Il primo amore si sono sommate quelle di minima&moralia, Doppiozero, Le Parole e Le Cose, le riviste hanno visto nei social un terreno da esplorare e nel rapporto con i brand un modo per fare soldi e pagare chi scriveva. È probabile che quel modello si stia esaurendo e che le riviste si stiano trasformando in spazi di sperimentazione comunitari, più vicine al loro pubblico in senso fisico e con un’idea diversa dell’abitare gli ecosistemi digitali. Alla base di questo cambiamento sta un’idea nuova di progettualità e di rivista come spazio poroso di mescolanza tra gli spazi fisici e quelli online, nonché come veicolo per la costruzione di nuove comunità di lettori. Di questo abbiamo parlato con Giacomo Giossi, socio fondatore ed ex direttore della rivista di Che Fare e oggi coordinatore editoriale di The Italian Review, la rivista edita dal Saggiatore dal 2021.

Partiamo dalla tua esperienza con Che Fare. Come nasce e come interagiva la rivista nell’ecosistema del progetto?

Che Fare nasce come un concorso all’interno di Doppiozero di cui abbiamo fatto tre edizioni in quattro anni. L’obiettivo del premio era indagare e rivelare i progetti di realtà culturali indipendenti o quantomeno innovative, per muovere le acque in un momento in cui la crisi economica del 2008 batteva forte e sembrava esserci una sorta di disorientamento culturale: le aspettative degli anni Duemila erano state tradite, in Italia si cedeva il passo a logiche un po’ vecchie e quel progetto ci sembrava una buona opportunità di fare cose nuove. Abbiamo mappato tantissime realtà diffuse in tutta la penisola. Avevamo lo scopo di favorire la disseminazione culturale con modalità maieutiche. Il secondo passaggio è stato provare a capire come potevamo sostenere queste attività, ovvero come rinnovare il mondo dei concorsi, dei bandi e dei finanziamenti privati perché potessero vedere che esistevano cose diverse rispetto alle logiche del momento e per permettere ad attività, fatte anche da persone appassionate ma inesperte, di strutturarsi.Da lì nasce la necessità di diffondere questa missione, perché non era una cosa ovvia: negli anni successivi anche realtà molto più istituzionali hanno replicato il bando di Che Fare anche nelle modalità e nelle pratiche. La rivista interna a Che Fare diventa quindi il mezzo per raccontare e disseminare le realtà che stavamo intercettando. Dopo essere nata dentro Doppiozero, Che Fare si è sviluppata in modo autonomo: la parte editoriale si alimenta tramite chi in quegli anni portava avanti pratiche culturali e aveva il bisogno di farsi riconoscere, tramite una forma diffusa di volontarismo e finanziata da progetti vinti da Che Fare che avevano bisogno di una parte culturale. All’inizio pubblicavamo soltanto online a cadenza piuttosto regolare, poi siamo andati anche offline, perché intendevamo la rivista come elemento relazionale: abbiamo stretto accordo con editori e altri agenti culturali interessati al nostro progetto.

Rimanendo in quel periodo storico, in qualità di giornalista culturale autonomo hai scritto per moltissime riviste anche diverse tra loro (penso a IL, minima&moralia, Blow Up), che stavano costruendo una nuova scena. Ti vorrei chiedere un parere su come è cambiata la scena delle riviste da quel periodo a oggi.

All’inizio di Che Fare uno dei temi di discussione era: “dobbiamo o non dobbiamo essere sui social?”; alla fine della mia collaborazione con loro la domanda era la stessa, ma con un verso totalmente opposto. Prima si rifletteva sui social in termini di opportunità di mercato e di pubblico, soprattutto in relazione a Facebook, dove stava e in parte sta ancora la massa dei lettori, oggi invece si parla di opportunità politica. È cambiato lo spazio dei social e, se vogliamo essere politicamente coerenti, stare su un social come X non ha senso. Negli anni Dieci l’online era quasi totalmente gratuito, si scriveva in modo volontario perché ti offriva la “visibilità” su cui poi si è marciato troppo. Le riviste culturali di quel periodo avevano molti legami con le riviste degli anni Settanta in termini di intento e modalità di partecipazione, da Officina ai Quaderni Piacentini: si raggiungeva un pubblico che una firma non nota e senza particolare esperienza accademica poteva sognarsi. Prima di internet, per raggiungere un pubblico dovevi conoscere fisicamente delle persone, stare in determinate città come Milano o Roma; improvvisamente tutto diventa rapido. Hai citato minima&moralia e IL, che sono due esperienze molto diverse. Mentre l’online va avanti a intuito e per tentativi in un mare aperto in cui era possibile intercettare migliaia di lettori per ogni articolo – minima&moralia diventa la rivista che legittima sulla scena intellettuale Nicola Lagioia e Christian Raimo –, IL è un esperimento “dall’alto”, nato dentro Il Sole 24 Ore da Christian Rocca, un giornalista molto bravo e molto organico al mondo redazionale. Da lì sono usciti giovani giornalisti oggi molto esperti. Il merito di Rocca è stato avere un’idea di rivista, cosa che da anni non si faceva più, e costruire un ambiente dove si lavorava bene e si veniva pagati bene. Accanto a questi esperimenti sopravvivono riviste più tradizionali come Blow Up, che vive pienamente nell’edicola. Mentre Blow Up ha una dimensione totalmente fisica e finisce in mano ad appassionati che vanno in edicola, IL è un inserto del Sole 24Ore che ha un interesse relativo per i lettori storici di quel giornale e viene acquistata da persone che invece non leggerebbero quel giornale. Vendeva molto poco, ma questo contava relativamente perché aveva un obiettivo di posizionamento identitario. Vorrei citare altre due esperienze di quegli anni. La prima, totalmente riuscita, è Il Post di Luca Sofri, il grande quotidiano generalista che dismette una serie di modalità retoriche che i quotidiani usavano per acchiappare pubblico – vedi ad esempio la colonna di destra di Repubblica, dove si “smarmellavano” i contenuti per i click. Accanto al Post c’è Doppiozero, che ha un taglio più culturale e forse è meno riuscito, sia per i limiti del contesto culturale italiano sia nella possibilità di racimolare risorse.

Hai parlato della ricerca di visibilità di chi scrive articoli e dello spazio di sperimentazione che le riviste aprivano durante gli anni Dieci. Oggi, rispetto al passato, mi sembra che sia più diffusa la consapevolezza della necessità di pagare gli articoli e di conseguenza la necessità per chi crea progetti editoriali di trovare soldi da investire per rendere il progetto solido da un punto di vista economico – penso al nostro dialogo con Filippo D’Angelo su Snaporaz. Tu hai scritto su tantissime riviste, sia da persona interna alla redazione, sia da freelance. In un contesto in cui il singolo articolo viene pagato molto poco, sia in senso relativo al mercato della cultura sia in senso assoluto, come si è evoluto in questi anni il lavoro del giornalista culturale? La precarizzazione del lavoro ha delle conseguenze sulla qualità del giornalismo?

A un impoverimento economico corrisponde un impoverimento culturale e viceversa. Chi fa giornalismo culturale non se l’è mai passata bene, non solo perché c’è una pulsione sacrificale, ma perché lo spazio del giornalismo culturale è sempre stato visto come un’opportunità per poi fare altro. Nel sistema editoriale si partiva dal giornalismo culturale un po’ per passione, un po’ per avere accesso a luoghi di lavoro, conoscenze e così via. Tutto questo non c’è più, è tutto più frammentato e più piccolo. Non ci sono neanche più le redazioni. Chi prima veniva pagato decentemente era chi stava in redazione e in parte anche ora è così per le poche rimaste, ma non esiste più una vera filiera e quindi si salta in continuazione da un posto all’altro tentando di intercettare una possibilità creativa ed economica. Dovendo scrivere molto si è molto soli e diventa difficile intercettare altre persone che ti aiuterebbero a farlo meglio e in maniera più organizzata. Questo ti costringe a diventare un nevrotico, un insonne e a restare costantemente attento e attivo. Essendo poche le possibilità reali e le persone con cui parlare, è un continuo inseguimento. Tutto questo non è molto lontano dal lavoro culturale di una volta, il problema è che una volta c’era una speranza, mentre ora non si sa bene cosa si sta inseguendo, soprattutto se è fuori da un percorso accademico.

Arriviamo a The Italian Review, una rivista online che nasce nel 2021 in un contesto un po’ atipico come il Saggiatore, casa editrice indipendente, storica e riconoscibile che sceglie di pubblicare una rivista molto diversa dalle altre nate insieme a voi o dopo di voi – penso a Snaporaz o Lucy.

The Italian Review rappresenta la sintesi del nuovo corso del Saggiatore, iniziato nel 2014 con la direzione di Andrea Gentile. C’è sempre una tensione che lega le uscite di Italian Review alle uscite del Saggiatore. Il nostro obiettivo è andare alla ricerca dei nuovi linguaggi della cultura italiana nel senso più ampio possibile. Mentre Lucy si è posta l’obiettivo di fare una sorta di Doppiozero “fatto bene”, cioè mettere a sistema le intuizioni di quella rivista e proporre la grande rivista culturale generalista, che spazia tra forme diverse come longform, video, podcast, The Italian Review è molto minimalista, non abbiamo immagini, proponiamo solo testi e cerchiamo di lavorare strenuamente nella nicchia, cercando di sostenere una tipicità che è propria anche del Saggiatore.

Come si relaziona la rivista al Saggiatore?

La rivista ha uno spazio totalmente autonomo rispetto alla casa editrice, nonostante esista una fondamentale coerenza intellettuale tra i due progetti. Lo scambio intellettuale tra i due ambienti permette una circolazione di idee molto proficua, anche se non obbligata. La rivista diventa il luogo di sperimentazione più ardita rispetto a quello editoriale.

Come mai avete deciso di non inserire immagini?

È una scelta teorica, le immagini pervadono la rete, mentre noi volevamo mettere al centro il testo scritto, andando controcorrente e cercando di intercettare chi è interessato soltanto a leggere.

Come fate comunicazione? Come parlate col vostro pubblico, o meglio, a chi volete arrivare e come?

Negli ultimi anni la rivista si è presentata con il Premio TIR, in cui concorrevano scrittori e scrittrici divisi in quattro categorie: prosa, saggistica, graphic novel e poesia. Per ogni categoria c’erano tre finalisti, selezionati tramite una giuria composta dai librai indipendenti. Il vincitore veniva poi decretato dai nostri autori più simbolici. Nonostante le nostre apparenze “seriose” il nostro pubblico è molto giovane, tende più ai venti che ai trenta, è in maggioranza femminile ed è radicato tra Roma e Milano. Cerchiamo di saltare il campo tra l’online e il rapporto con i librai. Sempre di più cercheremo di diffondere la rivista offline, o attraverso dei numeri cartacei o tramite gli eventi. Cerchiamo di muoverci in una situazione di guerriglia che garantisca il mantenimento di bassi costi, nonostante tutti i contenuti siano pagati, e cercando di andare in territori che ancora non conosciamo?

Credi che sia importante per una rivista oggi uscire dal circuito della comunicazione online e fare presenza sul territorio? Una delle priorità di Stanca, ed esempio, è stata da subito stampare dei cartacei per andare in giro a conoscere persone e costruirci una comunità di lettori ma anche di gente che volesse scrivere per noi.

Inizialmente l’online – torniamo agli anni Dieci – era una dimensione che poteva portare una rivista ad avere 500 o 600.000 visualizzazioni uniche a settimana, era facile “bucare”, oggi questo non esiste più, se raggiungi quarantamila persone è già andata bene, anche con un budget dignitoso da grande rivista. Se prima l’online poteva essere un modo di veicolare il pensiero di intellettuali, oggi l’online deve essere il veicolo per la produzione fisica. Questo spiega la facilità con cui si producono oggi meravigliose riviste cartacee, anche in un numero unico. I numeri in editoria sono crollati in generale, sia online che offline: online perché le logiche di internet odierno non permettono di raggiungere il pubblico come prima, offline perché la crisi dell’editoria è evidente. La cosa migliore da fare, quindi, è attivare la propria comunità. L’attivazione implica il confronto senza paraocchi, che permette di mutare la propria rivista a seconda delle diverse esigenze. In questo modo i progetti diventano porosi, possono evolvere e cambiare a seconda di chi si incontra. Facendo un lavoro culturale di questo tipo, di volta in volta di intercettano gli strumenti migliori per farlo in maniera efficace.

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