Preferirei di no: riflettere sul lavoro culturale prima delle ferie

Preferirei di no: riflettere sul lavoro culturale prima delle ferie
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In questo testo si proverà a fare un elenco di situazioni, contesti e conversazioni che costellano l’ambiente culturale di oggi, con un approccio né strutturato né risolutivo, quanto piuttosto riassuntivo di una sensazione irrequieta. Potete prenderlo come il tentativo di veicolare la rabbia attraverso un percorso orientato per capire dov’è che ci siamo persi il valore della cultura mentre cercavamo di valorizzarla.

La cultura ci viene fin da piccoli insegnata in maniera semplificatoria. Il primo modo di concepirla è come tradizione – ovvero quell’insieme di valori e credenze da rispettare e seguire quasi come fossero parte di un ricettacolo saldo e immutabile: in questa accezione la si usa spesso nelle argomentazioni conservatrici. Il secondo modo di intenderla è come bene di consumo, qualcosa al quale si accede tramite varie forme di capitale e del quale ci si nutre; la cultura così capitalizzata si scontra continuamente con il tema dell’accessibilità, quindi del privilegio.

Pierre Bourdieu, in Forme di capitale e campi di lotte (Mimesis, 2024), ha descritto le forme in cui si configura l’inaccessibilità della cultura dal punto di vista del capitale. Nella sua analisi, Bourdieu parte dal concetto di habitus – cioè il punto d’incontro tra la volontà dell’individuo e i condizionamenti sociali che caratterizzano l’ambiente in cui l’individuo si forma – e spiega come questo si intreccia con il capitale del soggetto di riferimento. Il capitale culturale acquisisce così una vera e propria struttura composta dal capitale culturale incorporato (disposizioni mentali durevoli), da quello oggettivato (tramite oggetti come i libri) e da quello istituzionalizzato (tramite credenziali certificate e titoli di studio).

Sia intendendo la cultura come tradizione, sia facendolo come forma di bene capitalizzato si tralascia fatalmente l’elemento che ha permesso, sul finire del Novecento, di trattare la cultura come un bene della società intera, di distaccarsi dall’idea che fosse una questione elitaria democratizzandola. Questo elemento consiste nella sua natura pratica, nella decentralizzazione delle opportunità e degli spazi in cui la cultura si fa e si crea, che sono intrinsecamente plurali, imprevedibili e mutevoli.

Oltre alle rivendicazioni sociali dal basso, l’evoluzione di questa concezione è stata spinta dalla nascita degli studi in ambito antropologico, più precisamente dell’antropologia culturale. Il significato di cultura piano piano è mutato in un’accezione più completa e inclusiva: non è più qualcosa al quale bisogna avere accesso, ma è dentro di noi, ci appartiene e circonda (Hugues de Varine), di conseguenza non può essere né insegnata né appresa. Tuttavia, gli strumenti di analisi antropologica non vengono forniti come pacchetto di base utile a chiunque per astrarsi dagli spazi ufficiali e dai prodotti materiali; l’ottenimento di questi strumenti è ancora un privilegio accessibile soprattutto a chi sceglie di cimentarsi dopo la scuola dell’obbligo in un percorso di studi umanistico. Di conseguenza, il concetto di cultura spesso è ai più estremamente semplificato oppure fumoso.

Se la cultura, per essere funzionale alla società democratica deve essere anch’essa democratica, una cultura che viene ancora sistematicamente consumata sulla base del privilegio o rigorosamente rispettata sulla base della conservazione difficilmente può esserlo. 

È a questo punto che il discorso si complica ancora: se da un punto di vista antropologico fare cultura rappresenta i modi di interiorizzare e esteriorizzare l’incontro con l’altro, quindi una capacità che appartiene a qualsiasi membro di una determinata società, cosa significa fare un lavoro culturale? Ma soprattutto, cosa significa fare un lavoro culturale oggi? Interrogarsi su questo è molto importante perché farlo seriamente significa inevitabilmente intraprendere una riflessione politica.

Fare cultura nel 2024 può significare prescindere dagli spazi, o meglio, gli spazi in cui questi incontri avvengono sono principalmente immateriali. L’incontro con le altre culture sulle piattaforme di condivisione online spesso si tramuta velocemente in uno schizofrenico fraintendimento. Sui social network, per esempio, il contesto dal quale i contenuti nascono e vengono pubblicati è astratto: è molto difficile capire qual è la realtà ambientale che circonda l’autore di un post. Eppure l’interfaccia è sempre la stessa, è familiare, non sembra di star varcando una soglia oltre la quale le usanze e le abitudini culturali che vigono nelle nostre vite non valgono più allo stesso modo. Questa fittizia staticità del luogo in cui si scambiano input, rende il confronto con l’alterità confuso. Questa confusione non si sperimenta solo rispetto alla percezione che si ha di invadere o meno lo spazio altrui, ma anche nei confronti dell’esperienza dell’altro espressa sotto forma di contenuti multimediali e le pubblicità che sulle piattaforme social competono alla pari: quello che sto guardando è l’espressione di una soggettività, di una comunità diversa dalla mia, o è uno spot pubblicitario? Così quello che si genera, invece che un incontro, si rivela uno scontro nel quale la cultura – per chi ne semplifica l’essenza – diventa arma e scudo, polarizzazione, estremizzazione, evitamento. Le differenze diventano in questo contesto un modo per erigere muri, troncare l’osservazione dell’altro, rinchiudersi al sicuro nella propria visione del mondo impedendo il confronto costruttivo. Inoltre, tutto questo è amplificato da una struttura algoritmica che premia l’incomprensione interattiva. Le sfide del presente, quindi, ci impongono un’accelerazione che tramuta la volontà di una cultura di tutti e per tutti, in una necessità immediata di fornire strumenti utili a destreggiarsi con coscienza nell’enorme labirinto traboccante di culture esotiche e mostruose che è Internet.

Se per lavoro culturale si intende farsi largo in questa struttura caotica, rintracciare le necessità sociali alla base dei dibattiti infuocati, creare spazi fisici nei quali queste istanze possano trovare ascolto, mai come oggi questo lavoro è sembrato essenziale.

Intendiamoci, non si vuole attribuire al lavoro culturale la responsabilità propria della politica di creare terreni in cui il dibattito democratico appaia possibile, piuttosto si vuole esaltare la capacità della letteratura – e di altre forme culturali – di avvicinare un individuo all’universo di qualcun altro (di un altro tempo, genere, lingua, ideologia) pur non condividendo nella vita nessuna delle sue esperienze. Questa possibilità, quando la si esercita, crea uno spazio nel quale ci si può confrontare con la diversità senza mediazione o censura: fare i conti con l’incomprensibilità, accettare di non poter mai veramente capire l’altro nella sua accezione più umana.

La cultura e i suoi spazi usati come strumenti per orientarsi nel mondo iper-connesso e globalizzato di oggi sono un’opportunità enorme, ma il lavoro culturale nella sua pratica non viene nemmeno lontanamente trattato nel rispetto di questa sua potenzialità in termini, per così dire, utilitaristici. Lo scenario che ci si pone davanti non solo ci riconsegna una realtà profondamente problematica in termini etici sul tema del lavoro, ma anche la consapevolezza che l’insostenibilità di questo stato delle cose porta inevitabilmente a un impoverimento del potenziale valore democratico della cultura stessa.

Francesca Coin, in Le grandi dimissioni (Einaudi, 2023), fa il punto sull’accelerazione della sensazione di disincanto nei confronti del peso che ha la propria posizione lavorativa – intesa come status – rispetto alla vita delle persone, soprattutto negli ultimi quattro anni – dopo la pandemia – e soprattutto nei contesti in cui il lavoro è precario. Se già dagli anni Novanta si notava un affievolirsi della fedeltà rispetto alla vecchia idea che il lavoro potesse in qualche modo restituire un’identità e un ruolo all’interno del contesto sociale, oggi questo atteggiamento è sistematico. Il sacrificio richiesto alle persone è sempre di più, ma in termini economici la sostenibilità di questa passionalità è sempre più ridotta. Dimettersi, con tutto quello che comporta, sembra un’opzione sempre più appetibile rispetto a tenersi un lavoro insoddisfacente perché mal pagato, insoddisfacente e stressante a tal punto da causare burnout.

Anche in ambienti considerati in passato come più tutelati e privilegiati, come quello culturale, queste difficoltà sono diventate ineludibili anche se si cerca a tutti i costi di nasconderlo come se far parte di questo mondo fosse un ottocentesco ‘prestigio’.

La realtà che ci consegna l’ultimo sondaggio di Redacta è che, salvo rarissime eccezioni, questo tipo di lavoro è precario, sottopagato e la maggior parte delle volte sfruttato: l’enorme filiera della cultura poggia su spalle stanche e anonime. 

In un contesto politico globale nel quale la democrazia arranca, affaticata dai soprusi delle nuove forme di potere, lo spazio culturale sembra la cosa più utile che c’è. Eppure, non solo il lavoro è precario e tutt’altro che ricompensato, ma il mondo della cultura stesso – inteso come istituzione e filiera produttiva  – non vuole cedere i suoi spazi, non vuole essere usato a questo scopo.

Qui arriviamo a un altro punto, che non è uno snodo quanto piuttosto l’ennesimo nodo intricato che si avvinghia al discorso: il mondo culturale, quello dal quale vengono i soldi, quello delle enormi manifestazioni e iniziative piene di buoni propositi, non ha alcuna intenzione di scalfire la sua apparente sacralità con le ardenti e furiose necessità della società contemporanea. Si sceglie, preferibilmente, di romanticizzare i problemi, strizzando l’occhio a un reale disagio percepito dirottandolo in qualche forma vendibile di fuga dalla realtà. Il disagio scaturito dalle brutture del mondo è sempre da qualche altra parte, altrove, o lontano nel tempo, tenuto a bada da un passato remoto.

È l’11 maggio 2024 e un centinaio di manifestanti si raduna fuori dal Lingotto Fiere di Torino che ospita l’ultima, acclamatissima edizione del Salone Internazionale del Libro – l’evento editoriale e culturale più importante e grande d’Italia. Il presidio è promosso dal gruppo di coordinamento Torino per Gaza, il cui intento è quello di trovare un accordo con gli organizzatori, entrare all’interno dei cancelli, sensibilizzare riguardo gli ultimi avvenimenti circa il conflitto in corso e invitare i presenti alla partecipazione al corteo che si sarebbe tenuto qualche giorno dopo. Ai manifestanti viene chiesto di attendere fuori. Dopo qualche ora vengono raggiunti dalla celere e gli viene intimato di allontanarsi. La situazione crea subito un certo scalpore: alcuni piccoli e medi editori decidono di chiudere i propri stand come atto di solidarietà e di raggiungere  i manifestanti; come loro fanno anche molti visitatori paganti. Un cordone di poliziotti si frappone fra le persone sopraggiunte e quelle fuori dai cancelli, ma la situazione rimarrà comunque immobile fino a quando alcuni dipendenti e alcuni invitati del Salone – tra cui Michele Rech (Zerocalcare) – proveranno a mediare con la polizia e infine riusciranno a far accedere il corteo nel cortile esterno del Lingotto Fiere. Nessuna presenza istituzionale, nessuna intenzione di legittimare l’esigenza dei manifestanti e di alcuni dei partecipanti all’evento editoriale di dedicare uno spazio a quello che sarà molto probabilmente ricordato nei libri di storia come uno degli eventi più significativi di questo secolo.

L’incontro con la testimonianza diretta del presente c’è stato fuori dal luogo adibito per celebrarlo, come è successo molte altre volte nella storia, ma in questo caso il progressismo entusiasta e spassionato che spesso riempie i discorsi nel Salone ha tristemente rivelato, rimanendo ammutolito di fronte ai fatti, di essere probabilmente un mero ornamento formale.

Viene di nuovo da chiederselo: fare un lavoro culturale, quando molti degli spazi che celebrano e ospitano questo tipo di mestiere rifiutano di accogliere esplicitamente le istanze che muovono e delineano i cambiamenti sociali, quindi l’embrione affaticato della cultura di domani, cosa significa? Alla luce dei fatti, le grandi manifestazioni celebrative del mondo culturale sembrano momenti durante i quali il fermento laborioso intellettuale si sospende e l’urgenza delle istanze sociali insieme con esso.  

Quella del lavoratore della cultura che viene presentata in questi contesti sembra solo una posa. L’intellettuale che presenta il suo nuovo libro è performante: tutte le sue fatiche sono state ripagate, è soddisfatto perché ce l’ha fatta. Ma questo tipo di lavoratore della cultura non esiste veramente, è piuttosto un personaggio utile per alimentare la fantasiosa narrazione per la quale nel mondo culturale si sta bene e questa beatitudine se la guadagnano i meritevoli. Altre volte pare che la cosa più importante sia far sembrare il lavoro culturale qualcosa che si fa solamente per passione: costruire una fabbrica di miti intellettuali, accomunati dalla capacità di fare bella figura nonostante il contesto non sia poi granché.

Questa posa non è facile da mantenere per tutti, e ad alcuni iniziano a formicolare le braccia e le gambe. Eppure scomporsi fa paura,  ci si può sentire minacciati dalla possibilità di perdere tutto. Alcuni intellettuali, tra i quali Francesco d’Isa, hanno espresso stati d’animo inquieti all’indomani degli avvenimenti accaduti fuori dal Salone: nessuno mi ha censurato, posso dire quello che voglio e continuo a farlo. Ma mentre lo faccio, per la prima volta, una voce molto pragmatica nella mia testa sussurra: “non ti conviene”. Questo non è semplicemente un cattivo segno, è una pericolosa testimonianza cognitiva.

La performance di chi lavora nella cultura, come abbiamo detto, riguarda diversi argomenti e deve rispettare l’interesse del mercato, che non è un interesse strettamente culturale. In questo ambiente, la propria firma, quindi la reputazione, ha un grosso peso sulle opportunità lavorative. Questo cortocircuito tra interesse e realtà, negli ultimi mesi, ci ha permesso di assistere ai più grandi silenzi culturali del secolo. Così come è difficile parlare di Palestina, diventa difficile anche parlare di soldi mal distribuiti o mai ricevuti e soprattutto di arrabbiarsi.

Immaginare un futuro nel quale una grande parte della classe intellettuale si unisca per parlare dei profondi problemi del lavoro culturale è abbastanza fantasioso. In primo luogo, perché la classe intellettuale esiste solo idealmente. In secondo luogo, perché la possibilità di costruirla è ostacolata fortemente dal contesto culturale – che è più o meno l’opposto dei suoi manifesti valori: individualistico, competitivo, tendente all’isolamento dei suoi lavoratori.

La cultura non sempre si fa carico esplicitamente di istanze politiche, la maggior parte delle volte si ritaglia una zona di mezzo nella quale è possibile parlare del mondo e di quello che succede senza impelagarsi in temi e argomentazioni che portate alla luce scalfirebbero l’immagine accogliente che questo ambiente cerca di mantenere.

Ci sono però situazioni e luoghi dove si accetta la sfida di rendere la cultura uno strumento da mettere in pratica per fronteggiare le sfide di oggi, dove una classe di lavoratori – anche se ristretta – esiste, dove la competizione diventa collaborazione e ci si raccoglie insieme nei luoghi.

Uno di questi luoghi è il Festival della letteratura Working Class, un festival che è solo alla sua seconda edizione ma che ha avuto un fortissimo impatto sul mondo del lavoro culturale. È un’iniziativa completamente diversa perché parte dalla contestazione e dall’esperienza diretta di un’opposizione alle logiche del potere e del mercato: quella della GKN, un’occupazione di fabbrica fatta alla vecchia maniera ma con i problemi e le parole di oggi, che rendono quello della rabbia e del conflitto un percorso praticabile anche per l’ambiente che gravita attorno alla cultura.

Qui la cultura si fa facendo politica, rifiutando la posa, parlando di soldi e precarietà non come argomento lontano o esotico ma come un problema da risolvere qui e ora, facendo fronte comune, lasciandosi ‘usare’.

Arriviamo così, trascinandoci, a uno scambio di battute avvenuto parecchi mesi fa, dopo la presentazione di un titolo dalla copertina patinata. Si provava a scroccare qualche drink, scambiandolo con un impacciato gioco di ruoli nel quale la moneta dell’emergente è un gran sorriso entusiasta che un po’ inorgoglisce e un po’ scalda il cuore di chi ce l’ha già fatta. Stanca non esisteva, ma l’idea di uno spazio culturale fuori dalle frustranti logiche abbellite del prestigio si era piano piano impossessata prorompente delle conversazioni tra me Franco, Alice, Fabio, Maria, Silvia, Vittoria, Giovanni e Francesca.

“Cosa faresti tu se oggi dovessi costruire uno spazio culturale, tipo una rivista?” chiedevo un po’ imbarazzata, un po’ ingenua e un po’ curiosa, sicuramente ubriaca.

“Quello che mi piace, dovete parlare di quello che vi piace”.

“Ma come facciamo a parlare di quello che ci piace se in questo ambiente manca tutto, per parlare di quello che ci piace dovremmo aver almeno l’impressione che il contesto in cui lo facciamo sia accessibile… altrimenti fare cultura si riduce esclusivamente a un modo per fuggire dalla realtà… cosa possiamo fare per avvicinarci di più a chi questa roba non la può fare?”.

“La cultura non è una roba pedagogica, vuoi indottrinare le persone?”.

Risparmierò le battute finali disperate, nelle quali provavo a giustificarmi motivando questa mia volontà con lunghissimi e ridondanti discorsi sull’accentramento delle risorse dell’istruzione attorno alle città e ai paesi a discapito delle periferie, su quanto è difficile immaginare di bere il drink che avevo tra le mani chiacchierando di “cultura” per chi dall’idea di studiare lettere o filosofia non è stato nemmeno sfiorato per una questione puramente economica, di classe.

È difficile sentirsi salvati, graziati o meritevoli quando ci si guarda alle spalle e ci si rende conto che per fare il lavoro culturale e sostentarsi la regola d’oro è socchiudere gli occhi per la stragrande maggioranza del tempo.
Quello che si accetta alla fine è un compromesso, parlare di quello che ci piace tenendo nel frattempo gli occhi spalancati, con tutta la frustrazione e il dolore che comporta relazionarsi con questo mondo con questo atteggiamento e farlo continuamente presente. Ci si prova, con la consapevolezza che potersi permettere questo tentativo è una forma di privilegio che comprende l’essere giovani, non avere né soldi né una reputazione da perdere ed essere riusciti a non mollare. Finché ci saranno energie da spendere, la fuga dalla realtà non è un’opzione. “I would prefer not to” finché dura, perché è giusto e le basi per il lavoro culturale di domani si gettano adesso.

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