Dietro alla grande cattedra, in penombra, si agitava una vecchietta bionda con addosso dei leggins leopardati e un camice usa-e-getta semitrasparente aperto proprio sulla scollatura. Impugnava il gessetto sulla lavagna a tre facciate riempiendole di equazioni con una grafia talmente leggera da risultare illeggibile già alla terza fila. Ogni tanto commetteva un errore e cancellava. Rivoli di polvere finissima si alzavano nei pochi raggi di sole che attraversavano le tende, l’odore secco di gesso saturava l’aula.

Stava spiegando le equazioni di Henderson-Hasselbalch, quelle che descrivono i sistemi tampone in chimica analitica: un acido debole dissocia solo in parte, ma se lo si combina con il sale della sua base coniugata la soluzione riesce a mantenere l’acidità quasi costante, anche quando aggiungi sostanze forti come ammoniaca o acido muriatico. Entro certi limiti, resiste. Poi, basta una goccia di troppo, la soglia si rompe e la situazione precipita.

Gli equilibri chimici erano affascinanti, complessi e sfuggenti. Quando la professoressa parlava, spesso anch’io dissociavo, entrando in una trance fatta di sonno e noia. Forse è per questo che la chimica analitica mi ha sempre lasciato un alone di mistero. Sognante, pensavo che i sistemi di atomi e molecole alla fine non sono tanto diversi dalle persone. Per convincerle a cambiare serve molta energia, a lungo non accade nulla, e poi improvvisamente tutto si trasforma: è stata superata l’energia di attivazione.

Lo studio delle sostanze in laboratorio ti mette davanti a un fatto: la materia è tutt’altro che docile. Resiste, devia, non è un fondale inerte su cui si esercita la volontà umana, ma un interlocutore che risponde. Per fortuna non serve lavorare sotto una cappa aspirante per rendersi conto di questo strano fenomeno. A volte basta uno sguardo, durante una passeggiata, per accorgersi di oggetti gettati in un canale di scolo che riverberano di una bizzarra energia. Reclamano indipendenza nelle loro traiettorie. Il tappo di bottiglia rimarrà nelle acque a galleggiare ancora per molto tempo; il cadavere di un topo si fa vedere nella sua putrescenza senza alcun pudore.

Il canale di scolo, il tappo di bottiglia e il topo morto sono alcuni tra gli oggetti nominati da Jane Bennett nell’apertura del saggio Materia vibrante (Timeo, 2024). La filosofa statunitense si inserisce nella corrente dei neomaterialismi e la sua proposta è di pensare la materia come attraversata da uno sforzo vitale capace di orientare i processi ed eventi. Il saggio prende le mosse dall’esperienza fenomenologica dell’incontro con gli oggetti. La materia organica e inorganica di cui sono costituiti, la funzione, la forma: cercare l’essenza di un oggetto è un atto che lascia sempre fuori qualcosa. In dialogo con Adorno e Merleau-Ponty, questa qualità sfuggente ed esuberante degli oggetti viene inquadrata da Bennett come una sorta di slancio vitale bergsoniano. Questo porta l’autrice a sostenere che la concezione comune del mondo sia fondata su una illusione: la cesura tra vita organica e materia inorganica.

Per Bennett, riconoscere questa vitalità non è quindi un vezzo teorico ma un atto politico. Viviamo immersi in un ecosistema di oggetti e materiali che condizionano la nostra esistenza quotidiana: l’elettricità che attraversa le reti, il petrolio che alimenta i trasporti, le scorie che continuano a rilasciare effetti per secoli. Ignorare la forza autonoma di questi attori significa illudersi di essere capaci di agire senza dare conto del campo di forze che agenti umani e non umani costituiscono insieme.

La sua è una filosofia della composizione, che vuole disfare ogni dualismo: non un dominio dell’uomo sulla materia, ma un intreccio in cui umani e non umani collaborano e si influenzano. In questo senso, Materia vibrante è un testo di ecologia politica, perché mostra come per affrontare le sfide ambientali sia necessario liberare il nostro sguardo dall’abitudine a vedere solo soggetti attivi e oggetti passivi. La filosofia diventa una pratica di attenzione: esercitarsi a percepire il mondo non come scenario, ma come tessuto di forze attive, ciascuna con un proprio grado di agency.

Per articolare la sua proposta, Bennett trova due validi alleati: Spinoza e Deleuze. Se Materia vibrante nasce dall’urgenza di dare voce alla vitalità della materia incontrata nell’esperienza quotidiana, è grazie a questi due autori che tale intuizione acquisisce una vera profondità teorica. Con la sostanza unica e immanente Spinoza aveva spezzato già nel Seicento la cesura tra pensiero e corpo, natura e spirito. Ogni cosa è animata dal conatus: la forza con cui ogni cosa, pietra o albero, animale o uomo, persevera nel proprio essere. Qui la materia non è mai passiva, ma parte di un flusso vitale che la percorre dall’interno – e l’uomo si scopre vittima dell’illusione dell’eccezionalismo. Deleuze, tre secoli dopo, riprende e radicalizza questa intuizione. Parla di “una vita” impersonale che attraversa i corpi e ne costituisce la dinamica. È da questa prospettiva che nasce la sua nozione di assemblaggio (agencement): configurazioni di elementi eterogenei che, intrecciandosi, producono effetti nuovi, non riducibili alla somma delle parti.

Nel solco di Spinoza e Deleuze, Bennett costruisce così un’ontologia del materialismo vitale: la materia non è sostanza inerte ma campo di forze, un sistema di enti o “attanti” (usando un termine di Bruno Latour) capaci di comporsi e di decomporsi in una rete in cui l’agenzialità si distribuisce tra i componenti in base al loro potere di essere affetti.Parlare di assemblaggi significa spostare la domanda filosofica dalla sostanza alla relazione. La tradizione occidentale ha spesso cercato l’essenza delle cose, la loro identità stabile. In Bennett, seguendo Deleuze, ciò che conta non è ciò che una cosa “è” in sé, ma ciò che può fare insieme ad altre.

Un assemblaggio funziona come una reazione di chimica organica: non basta avere i reagenti giusti per ottenere il risultato desiderato. Quando si cerca di sintetizzare una molecola attiva, per esempio il corretto isomero di un farmaco, occorre predisporre con attenzione tutte le condizioni: il solvente adatto, la temperatura, i catalizzatori, perfino i metodi di separazione. Se uno solo di questi elementi cambia, la reazione può produrre tutt’altro composto, meno efficace o persino dannoso. L’esito non dipende dalla volontà del chimico, ma dalla configurazione complessiva del sistema – un intreccio di elementi eterogenei che, combinandosi, generano un effetto emergente non riducibile alle singole parti.

In questa prospettiva la materia non è un sostrato passivo in attesa di forma, ma una rete di potenzialità attive, che si attualizzano a seconda delle circostanze. È qui che Bennett compie il salto filosofico: mostra come l’ontologia del materialismo vitale non sia più una metafisica della sostanza, ma una metafisica della relazione.Un’intuizione affine si trova nel pensiero cinese, dove François Jullien ha mostrato l’importanza del concetto di shi: la propensione delle cose. Non un destino già scritto, ma l’inclinazione che una certa configurazione porta in sé, come il pendio di una collina che orienta il corso dell’acqua. Anche qui, non conta l’essenza isolata di un elemento, ma la direzione che prende il suo concatenarsi con altri.Gli assemblaggi ci obbligano a pensare l’agire come distribuito: ogni entità partecipa con il proprio peso, nessuna domina del tutto. È una filosofia che decentra l’umano, riconoscendo che la materia stessa ha una capacità di iniziativa che ci attraversa e ci eccede nella sorpresa dell’evento.

Riconoscere la vitalità della materia non significa cedere a un animismo ingenuo, ma accettare che ciò che ci circonda non è mai neutro. Oggetti, sostanze, infrastrutture non sono semplici sfondi della nostra azione: hanno una forza propria che orienta i processi. Pensiamo ai rifiuti tossici, che resistono per secoli e continuano a produrre effetti ben oltre le intenzioni di chi li ha generati. O ai gas serra, invisibili ma capaci di alterare il clima del pianeta. Oppure ancora alle reti elettriche e digitali, che determinano possibilità e limiti delle nostre vite quotidiane. In tutti questi casi la materia non subisce soltanto: agisce, condiziona, persino impone delle scelte.

Per Bennett, sviluppare una sensibilità verso questa agency materiale è un compito etico: si tratta di purificare lo sguardo da un’abitudine antica che ci porta a vedere solo soggetti attivi e oggetti passivi. La filosofia diventa allora una pratica di attenzione, un esercizio costante di percezione. Ma è anche un compito politico. Se la materia partecipa agli eventi, la politica non può più essere intesa come dominio dell’uomo sulla natura. Deve diventare arte della composizione, capacità di modulare gli assemblaggi, di accompagnare e orientare le propensioni dei processi materiali senza pretendere di controllarli dall’esterno.

Eppure, se davvero si volesse sviluppare una politica materialista in senso spinoziano e deleuziano, non basterebbe il riconoscimento umano del non umano. In Spinoza, la potenza della moltitudine si costituisce immanentemente nei rapporti tra corpi; in Deleuze, gli eventi stessi hanno una forza politica, indipendentemente dall’intenzione o dal riconoscimento. Rispetto a queste prospettive, Bennett sembra restare a metà strada: apre la porta al non umano, ma lo fa ancora a partire da un atto di concessione umana. Ne deriva una tensione tra la promessa radicale dell’agentività distribuita e il residuo antropocentrico che ancora struttura la sua concezione della politica.

Se, come dice Bennett, i concatenamenti e il campo di propensione che essi generano devono essere considerati elementi il cui effetto agisce sulle scelte e le azioni umane fino al punto da sottrarre parte della responsabilità individuale, i concatenamenti diventano entità mostruose, dotate di un potere di creare effetti che si muove nell’ombra della nostra ignoranza, con cui serve urgentemente confrontarsi.

Questo aspetto inquietante e inumano della materia viene meglio compreso nell’Object-Oriented Ontology (OOO), corrente filosofica sviluppata da autori come Graham Harman e Timothy Morton. L’OOO, infatti, insiste sul carattere ritratto degli oggetti, sul loro custodire un residuo inconoscibile che sfugge a ogni tentativo di comprensione o appropriazione e che li rende, come nel caso degli iperoggetti di Morton, presenze perturbanti, viscose e inafferrabili, con cui siamo comunque costretti a convivere. Qui l’accento cade sull’inquietudine generata da ciò che non può mai essere pienamente conosciuto.

Bennett, invece, pur condividendo con l’OOO la critica all’antropocentrismo e la valorizzazione di una parità ontologica tra umano e non umano, assume una prospettiva diversa: la sua materia vibrante resta inscritta nell’orizzonte razionalista di Spinoza, per cui tutto ciò che esiste può essere in linea di principio compreso dall’intelletto umano. Ne deriva un contrasto dinamico: laddove l’OOO sottolinea il limite ontologico della conoscenza e il mistero inquietante degli oggetti, Bennett propone un vitalismo che, pur riconoscendo l’autonomia della materia, mantiene aperta la possibilità di una sua progressiva illuminazione razionale.

Se l’OOO ci obbliga a fare i conti con il lato enigmatico e perturbante degli oggetti, ricordandoci che qualcosa di essi sfugge sempre, Bennett ci invita a un esercizio quotidiano di attenzione alla vitalità della materia, a riconoscerne la forza senza ridurla a mera opacità. È in questa oscillazione tra l’inquietudine dell’oscurità e l’apertura della conoscibilità che si colloca il senso più urgente di queste riflessioni: imparare a pensare e ad agire in un mondo che non è fatto per noi, ma di cui siamo parte inseparabile.

In laboratorio bastava poco per accorgersene: una goccia in più di solvente, una temperatura che sfuggiva di un paio di gradi, e la reazione prendeva una strada diversa da quella prevista. Non c’era nulla di docile nella materia, bisognava seguirla passo passo, quasi coglierne il carattere, inseguirne gli umori. La filosofia di Jane Bennett nasce da questa consapevolezza elementare. In Materia vibrante ci invita a guardare la materia come viva, attraversata da una propria vitalità, capace di orientare i processi e di sorprenderci. Non riconoscerlo significa cedere all’illusione del controllo; prenderne atto significa imparare a convivere con la sua forza, a comporre assemblaggi più sensibili e meno distruttivi.In un tempo segnato dalle crisi ecologiche, questa non è un’astrazione accademica. È un invito concreto a cambiare postura: non più spettatori davanti a uno scenario inerte, ma co-attori dentro un mondo vibrante che ci costituisce e ci supera. Ascoltare la voce della materia non è un lusso intellettuale, ma una necessità politica ed etica del nostro tempo.

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