Toni guarda Anna –che sta perdendo la calma per l’incomunicabilità delle loro posizioni, poi guarda in camera per capire se sia accesa, e poi ancora la figlia. Chiede ad alta voce se questo scontro sia stato registrato e si raccomanda di inserire le riprese nel film. In questo piccolo momento di vanità in cui Toni Negri realizza di essere il coprotagonista di un’opera cinematografica, è racchiuso il significato della lunga conversazione tra padre e figlia.
Toni Negri (1933-2023) è stato un filosofo marxista, un militante della sinistra operaista, un pensatore che ha segnato la storia politica italiana dal ‘68 in poi. Ma il film di Anna Negri, Toni, mio padre non vuole mai essere, in nessun punto, un documentario di ricostruzione storica. Non ha uno scopo didattico o informativo e, non creando mai questa aspettativa, neanche la delude. Il pubblico che trovo in sala riflette perfettamente questa intenzione. Anagraficamente, sono solo una manciata le persone sotto i quarant’anni, che potrebbero approcciarsi al film come a un manuale di storia. Perlopiù vedo settantenni del centro, che si ritrovano e si riconoscono, sono trepidanti e forse col film si aspettano di sentir parlare di sé, di quello che sono stati anche loro, forse si aspettano un’assoluzione per aver abdicato alle loro battaglie. Ma Toni, mio padre sembra piuttosto una seduta di autoanalisi della regista, Anna Negri, figlia di Toni. Forse una seduta di terapia familiare, a cui però il padre non sembra davvero convinto di prestarsi. O quantomeno, non ha quel prerequisito richiesto a chiunque si sottoponga a un processo di analisi: non vuole davvero mettersi in discussione.
Padre e figlia sono stati distanti per molti anni, quelli in cui anche Anna – superato lo stadio infantile dove la bambina non chiedeva che la pura attenzione e la cura del padre –, ormai adulta, avrebbe avuto la possibilità di contribuire e autodeterminarsi nella costruzione del rapporto. Il dialogo che ascoltiamo e vediamo si dipana in diverse sedute: tra quella che si intuisce essere la casa di lui e qualche passeggiata per Venezia, Toni Negri ci appare in diversi momenti del suo invecchiamento negli ultimi anni della sua vita, sempre più affaticato nella postura e nella parola, aiutato dall’ossigeno, ma sempre mentalmente lucidissimo.
Il dialogo corre su due sentieri che spesso si intrecciano: la dimensione storica e quella familiare. Di entrambe possiamo ricostruire un immaginario, attraverso alcune immagini dell’archivio familiare e qualche filmato d’archivio sulla cronaca di quegli anni. Se per Anna Negri la prima dimensione è stata un elemento di disturbo che ha interferito con la seconda, per Toni Negri la famiglia è stata un elemento inserito nella più grande visione della militanza e di uno sguardo sempre votato al collettivo, mai ripiegato in se stesso.
Anna Negri racconta della difficoltà, da adolescente, di essere associata al nome del padre. Nel 1979 Negri era stato arrestato e processato, accusato di essere la mente intellettuale delle Brigate Rosse e di essere stato la voce dell’ultima telefonata delle BR prima dell’uccisione di Aldo Moro. Anna allora aveva quattordici anni e adesso racconta della paura costante, da ragazzina, di imbattersi nelle famiglie delle vittime delle Brigate Rosse, confessa il disagio nell’essersi sentita in dovere di dare spiegazioni o giustificazioni ad azioni che non aveva commesso lei e che, a quell’età, nemmeno capiva. È la ferita di una donna che ha vissuto la propria infanzia, l’adolescenza e la prima età adulta adombrata dallo spettro di un cognome difficile. Non solo quando il padre era incarcerato, in un momento in cui la famiglia viveva in funzione di uno stato di precarietà. Anche dopo, come nel 1997, quando Toni decide di rientrare dall’esilio in Francia, lo stesso anno in cui sua figlia debutta da regista in Italia, dopo essersi a sua volta autoesiliata per studiare e vivere lontana dalla sua vita precedente. Negri aveva lasciato l’Italia chiedendo asilo a Parigi, beneficiando della dottrina Mitterand che offriva protezione e negava l’estradizione degli imputati per reati politici in altri paesi. In quegli anni di grande distanza, mentre Anna studia cinematografia all’estero, Toni continua la sua attività intellettuale e ha un’altra figlia, Nina, a cui il documentario accenna soltanto. Anna racconta della grande frustrazione provata per non essere stata messa, neanche in quel momento del ritorno, al centro delle preoccupazioni paterne. Il controcanto è il Toni Negri novantenne che non nasconde il dispiacere provato quando la figlia, in occasione del rientro di entrambi, gli aveva esplicitamente chiesto di non tornare, per evitare di coprire mediaticamente il suo esordio italiano e di compromettere ancora le sue esperienze.
Affiora l’incapacità del padre di empatizzare con lei, di prendersi cura della figlia o anche, nella sua assenza come figura genitoriale, di darle spiegazioni sulle sue scelte e le sue azioni. Con l’urgenza di contribuire a una dimensione collettiva e costruire la rivoluzione, Toni si è assentato dalla dimensione familiare dimenticando di essere padre, ignorando quanto il suo ruolo mancato abbia poi condizionato la vita altrui.
Ma ampliando lo sguardo, è discrepante la profondità del pensiero con cui il filosofo novantenne tratteggia un sistema complesso di situazioni storiche, con le obiezioni della figlia-regista. A volte i due si muovono su dimensioni parallele, non incrociandosi mai: Anna parla del suo dolore, Toni risponde su un piano storico, politico e filosofico. L’espressione del dolore intimo e personale non conosce regole e questo la rende autentica: Anna Negri piange guardando in camera e parlando a noi, da sola, mette in discussione il lavoro sul documentario, si arrabbia. L’efficacia del dialogo si perde quando la regista decide di spostare la discussione su un piano meno intimo. Quando la dimensione è quella storica, spesso i due sono seduti ai lati opposti del tavolo e il dialogo diventa uno scontro, dove Anna non sembra essere in grado di sostenere davvero la conversazione. Mentre il padre racconta dell’urgenza politica e del tentativo rivoluzionario a cui ha preso parte, la figlia tira in ballo una questione generazionale, che rischia sempre di suonare come un alibi e che volta le spalle alla necessità, trasversale ai decenni, del conflitto di classe. Anna parla dei suoi vent’anni vissuti negli anni ‘80, il tempo del punk e dell’eroina, di quanto potessero arrivare vuote le parole che avevano scandito il ‘68 e la giovinezza del padre. Ma a smentire questa lettura secondo cui i decenni e la storia, come fossero qualcosa di esterno a noi, annichiliscono le battaglie, Toni Negri continua a definirsi un rivoluzionario. Ammette che loro, negli anni ‘70, hanno perso. Ma la rivoluzione non era un abbaglio, si farà.
Tra i tratti più eloquenti del film ci sono le reazioni di Toni, i suoi primi piani, le espressioni con cui istintivamente reagisce a certe affermazioni della figlia. Emerge così il suo lato più umano e spontaneo: l’incapacità di chiedere scusa, che si dimostra nella mancanza di una risposta pronta di fronte ai racconti familiari, ma anche la sorpresa nel sentire certe accuse, di recepire alcune analisi di Anna, forse anche la delusione nel vedere quanto alcune istanze politiche abbiano fallito nel radicarsi nella mente della figlia. Con certe sue smorfie Toni Negri sembra genuinamente stupirsi e chiedersi come sia possibile che sia proprio sua figlia a non cogliere il significato politico delle sue azioni e, in ultimo, di tutta la sua esistenza.
Si delinea il ritratto di un grande pensatore, ma anche di un uomo nato negli anni Trenta. Riconosce apertamente quanto il suo movimento, consapevolmente e colpevolmente, abbia ignorato molte rivendicazioni femministe. Parlando della prima moglie, Paola Meo, riporta – senza problematizzare – come la donna si sia fatta carico del lavoro di cura della famiglia negli anni in cui lui era in carcere e poi in esilio in Francia. Afferma con orgoglio come l’esistenza di Paola sia stata molto politica, e come il lato politico si sia espresso nell’impegno per la scarcerazione di lui stesso e nella dimostrazione della sua innocenza. Sembra non vedere come l’autodeterminazione di lei sia dovuta necessariamente passare attraverso la vita di lui. C’è poi un passaggio, forse davvero tra i meno riusciti del film, in cui Anna Negri, quasi a voler pubblicamente confutare l’aura di autorevolezza del padre, gli racconta -da dietro la camera e in poche parole- la storia di una persona trans nata in Calabria ed emigrata al nord, dove è finalmente riuscita ad affermare la propria identità a seguito della transizione. In quel caso non stanno davvero parlando, Anna intervista Toni e la reazione di lui è quasi indispettita, non riesce evidentemente a capire la questione, restituisce una considerazione sulla dimensione individuale di questa esperienza e sottolinea quanto sia importante tornare al collettivo, ignorando la necessità dell’intersezionalità di queste lotte. Anna Negri vuole dimostrare che anche il padre sbaglia, che non tutto il suo pensiero è da salvare, che, dopotutto, anche lui è umano e fallibile. Ma la mancanza di argomentazione e la superficialità con cui l’argomento viene introdotto – perlomeno per quanto la regista ha deciso di mostrarci – riduce ai minimi termini lo spessore della questione.
Più che un film di indagine sull’intreccio tra il personale e il politico, Toni, mio padre è uno scontro del personale contro il politico, filtrato dall’esperienza della figlia. Toni Negri ha vissuto all’insegna dell’indistinguibilità di queste due dimensioni, una fusione che ha però implicato una rinuncia alla cura dei legami familiari, perlomeno quelli del nucleo in cui Anna è cresciuta. Per Anna invece la tensione tra questi poli è costante, il secondo toglie spazio al primo, soprattutto perché la sfera politica che così tanto influisce sulla sua vita non è una sua scelta, quanto un riflesso di quelle di suo padre. Si rivela così l’impossibilità di comprendersi, l’incomunicabilità. Niente viene risolto, semplicemente le due visioni esistono e a entrambi i protagonisti non resta che accettarle così come sono, inconciliabili. Più che un tentativo di sintesi, il film sembra la richiesta di ottenere delle scuse, di fare chiarezza su una vita intera prima che sia troppo tardi.


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