Cuore di Terra – Intervista a Virginia Stammitti pt. II

Cuore di Terra – Intervista a Virginia Stammitti pt. II
[Tempo di lettura: 12 pignalenti]

Qui potete leggere la prima parte dell’articolo

Stare senza internet per qualche giorno è un’esperienza spaventosa ed elettrizzante. Si vive in un tempo dilatato in cui abitano imprevisti dimenticati. È come viaggiare in un territorio sacro. Si sente rispetto, silenzio e apprensione.

La stazione di Molina sembra proprio una piccola cripta. È composta da un semplice corridoio con due panche riverniciate di marrone pallido. I tuoi passi riverberano. Anche qui piove e il cellulare continua a non prendere. Aspetto Virginia che dovrebbe passare a prendermi in macchina.

Dopo una mezz’ora che sembra interminabile alla fine arriva, guida la sua 206 grigia, il tempo di salutarci e siamo già sulla strada tutta tornanti che sale a Gagliano Aterno. Arrivati in paese la prima cosa che mi fa vedere è la foresteria in Via Fara dove abita e dove alloggerò anche io nei prossimi giorni.

Via Fara è un vicolo selciato un po’ in salita con ai lati dei ripidi scaloni di pietra che si arrampicano fino alle porte di legno degli alloggi, tra queste ce n’è una più in basso che da sul soggiorno comune per gli ospiti. Le stanze sono state restaurate dal comune per ospitare chi arriva in paese per una conferenza, una ricerca, per qualche ragione ufficiale insomma. Sono stanze piccole e spartane, nella mia ci sono due letti e un armadio a due ante di abete, un comodino e il bagno.

Il soggiorno è tutto un affastellarsi di barattoli con dentro frutta e verdura immersa in liquidi dal trasparente all’opaco, “sono i fermentati” mi conferma Virginia mentre li guardo con sospetto. Sopra la dispensa c’è il palco di un cervo, un pandoro rosso su cui un diavoletto augura merry christmas helly hot e un libro di Benni un po’ stropicciato.

Prima di pranzo Virginia mi propone di fare una passeggiata fuori dal paese per raccogliere un po’ di erbe spontanee da cucinare, così nel frattempo può raccontarmi della scoperta della permacultura (un punto a cui tiene molto). Le chiedo se la permacultura (non ne so davvero nulla) abbia a che fare con la coltivazione delle erbe : “Questo è il grande equivoco, non si occupa di piante, o meglio, non solo. La permacultura è un sistema di progettazione che imita i modelli naturali. La puoi applicare a qualunque cosa: una casa, un sistema sociale, un terreno, anche alla tua agenda. Si basa su tre etiche: la cura della terra, la cura delle persone e la condivisione. Tutto si basa sull’osservazione delle dinamiche naturali, perché in natura non esiste il rifiuto per come lo intendiamo noi. L’energia prodotta da un sistema diventa energia fruibile da un altro e questo ciclo si ripete all’infinito. Non esiste spreco. Questo ti porta a ragionare non per ambiti separati ma per elementi che si connettono tra di loro”. Nel frattempo devo aver assunto un’espressione un po’ stupita  perché si interrompe un secondo per guardarmi e poi continua: “Non è complicato, è complesso, che è ben diverso. Vuol dire che ci sono tanti elementi che interagiscono tra di loro ma in modo semplice. Se tu applichi la permacultura alla costruzione di una casa allora ti accorgi che il cantiere diventa un organismo in equilibrio che si nutre di ogni tipo di risorsa, di materiali di costruzione, ma anche delle persone, assorbe energie fisiche ed emotive”.

Mentre passeggiamo mi insegna i nomi di un po’ di piante comuni da queste parti: il centocchio, il crespigno, la silene (che in dialetto si chiamano gli strigoli), poi ci sono anche la rucola selvatica e la calendula. Raccogliamo tutto quello che ci serve. Qualcuna andrà nel pesto, qualcuna nell’insalata, qualcun’altra sarà da stufare per la frittata. Ad alcune di queste piante scatta una foto col cellulare (“le osservo nelle diverse stagioni. Il loro aspetto cambia molto durante l’anno”). Ogni tanto strappa una foglia, un fiore e l’assaggia – “questa sa di fagiolini ed è ottima per fare il pesto”, io provo a fare lo stesso un po’ titubante ma alla fine ha ragione, sa anche un po’ di fave.

Le chiedo come è uscita dal periodo buio avuto una volta rientrata in Italia: “La parentesi del lavoro nel bar a Napoli mi è servita molto per inquadrare la critica che muovevo al sistema. Dopo quell’anno diciamo sabbatico ho deciso di ricominciare a muovermi cercando di acquisire quante più conoscenze possibili che rispondessero ai miei bisogni primari. Il ragionamento di base è stato questo: probabilmente per continuare a fare quello che mi piace non avrò mai uno stipendio fisso, quindi non mi potrò mai comprare casa, allora voglio imparare a costruirmela”.

Le faccio notare che mi sembrava quello il vero momento di apostasia: “Alla fine sei passata dall’altra parte della barricata, hai disertato per unirti alla resistenza, hai abbandonato definitivamente quella prospettiva dall’alto che dicevi prima”. Mi risponde in maniera lapidaria, come se avesse avuto paura di pronunciare questa frase per un bel po’ di tempo: “ho messo me stessa in una condizione di marginalità”.

A pranzo con noi ci sono altre persone e mentre si cucina tutti insieme mi presento e scambio qualche chiacchiera. Giovanni Castaldo e Casey Harch, vivono anche loro nella foresteria, sono arrivati qui due anni fa con l’intenzione di rimettere in funzione un vecchio forno a legna che in questo momento è in ristrutturazione; vorrebbero usarlo per cucinare il pane e la pizza per il paese usando grani antichi, lieviti naturali – come quelli che si possono ottenere dai fermentati – e le verdure del loro orto. Il terreno che usano è stato messo a disposizione da una signora che ormai aveva smesso di coltivarlo, lei riceve in cambio qualche cassetta di ortaggi freschi. 

Mi dicono che a Gagliano da diversi anni non c’è più un forno attivo e per comprare il pane bisogna arrivare fino a Castelvecchio. Sono appena tornati da un lungo giro tra Marche ed Emilia per conoscere realtà simili alla loro, forni resistenti in aree interne. Anche Giulia Ferrante si unisce al pranzo, vive con gli altri nella foresteria ed è una ricercatrice del GSSI che da anni collabora con progetti in paese. Quando arriva Luca Santilli, il sindaco, mi racconta un po’ dei suoi impegni e poi mi chiede di Rivista Stanca, gli racconto cosa facciamo e la storia della rivista; mi sembra sinceramente entusiasta del fatto che sono lì e mentre mi ascolta si mette ad apparecchiare la tavola.

A pranzo si parla dei progetti del comune, di qualche manutenzione da fare in foresteria e dello scontento degli agricoltori locali, pressati dalle tasse e dai terreni sempre meno produttivi, in guerra aperta con la fauna selvatica (difesa però dagli animalisti). Luca chiede spesso a tutta la tavolata un parere su come intervenire, nuove idee su questioni da affrontare e rimango sorpreso, non c’è niente che somigli ad un comizio, siamo sei persone che fanno brainstorming immersi in una preziosa atmosfera di umiltà e intelligenza. Il pranzo mi da buone speranze e mi mette a mio agio.

Nel pomeriggio con Virginia facciamo una un’altra passeggiata, questa volta nella campagna intorno a Gagliano. Appena la strada spiana nella valle Subequana, dietro gli alberi radi rispunta in alto il paese e ancora più su il monte Sirente che pallido di neve gli tiene le spalle come un padrino alla cresima. Troviamo cose interessanti: diversi mucchietti di aculei di istrice, probabilmente investito da un fuoristrada, raccolgo quelli più intatti – che sono molto belli – per lasciarli alla foresteria; poco più giù nel sentiero c’è la zampa di una pecora strappata di netto, dal femore scoperto pendono brandelli di carne e ciuffi di pelo, ma non c’è traccia di putrefazione, probabilmente i lupi l’hanno mangiata la notte scorsa.

Chiedo a Virginia un po’ di dettagli sui cantieri di autocostruzione partecipata perché non mi è ancora chiaro come funzionano e soprattutto in che modo si partecipa. Mi racconta che la prima associazione italiana con cui è entrata in contatto è stata A.r.i.a. Familiare e che uno dei principali ostacoli oggi è convivere con il grande vuoto burocratico che contorna queste pratiche: “in Italia l’autocostruzione è possibile o per economia, vuol dire che se ti vuoi autocostruire la casa puoi farlo ma in cantiere ci può entrare solo il tuo nucleo familiare, o per associazione che era il modello usato da A.r.i.a. Familiare [oggi l’associazione non esiste più, n.d.r.], cioè la creazione di un associazione ad hoc per ogni cantiere che sostituisca le figure della logistica, della sicurezza, eccetera, necessarie ad aprire un cantiere. Il problema è che se vai in comune a dire mi voglio autocostruire una casa, loro ti rispondono che semplicemente è illegale, non è possibile, e così ti devi fare tutta la procedura burocratica da solo e poi la devi insegnare anche a loro”.

È passato parecchio tempo da quando partecipava come volontaria ai cantieri di autocostruzione in tutta Italia, per costruire case, intonaci in terra e calce, biopiscine e stufe rocket. Oggi aiuta i volontari ad acquisire quelle stesse tecniche: “La cosa a cui tengo di più quando faccio i canteri partecipati è di creare inclusione. E su questo punto vado proprio a scontrarmi con l’edilizia classica. Lì ti devi sfondare di fatica, devi far vedere che sei più forte degli altri. Il ragazzo mingherlino che arriva a fare il manovale lo prendono tutti per il culo e lo bullizzano. Pensa io che sono una donna, non mi ci hanno mai fatto entrare in un cantiere del genere. Mi dicevano li riesci ad alzare quei sacchi da 25 kg? No, allora sei inutile. Quando arriva in cantiere una ragazzina di 15 anni, lei deve essere perfettamente integrata nella catena di costruzione, quindi tu non puoi fare un secchio che pesa 25 kg se lei ne pesa 45. Fai i secchi a metà e li porti piano piano, facendo attenzione alla postura. Perché i muratori fanno tutti i machi ma poi si fanno male, a 40 anni sono tutti con la schiena distrutta. Io non è che faccio yoga in cantiere però il tema del corpo è centrale. Per riappropriarti di un sapere manuale devi riconnetterti col tuo corpo mentre lo fai. È questo che crea un valore molto più grande del prodotto finale.”

Mettere le relazioni al centro del cantiere. Costruire case per costruire relazioni umane, dove comincia una e finisce l’altra è difficile dirlo. Virginia ha capito che nel cuore dei cantieri dovevano esserci le relazioni tra persone anche grazie alla scoperta della comunicazione non violenta: “Ora che ti racconto queste cose ho paura che sembri tutto fantastico. Ma ci sono stati tanti momenti in cui mi sentivo distrutta. Non ho un lavoro, non so più dove vivo, i muratori non mi vogliono in cantiere e tutto il resto del mondo segue la sua strada. Ho realizzato col tempo che dovevo capire i motivi reali di tutto quello che stavo facendo, era l’unico modo per andare avanti. Ho cominciato a farlo grazie ad un corso che ho seguito di comunicazione non violenta. Nasce come un metodo di facilitazione per gruppi e risoluzione di conflitti, ed è un percorso che implica il mettersi in discussione in prima persona, acquisire confidenza con le proprie emozioni e i propri bisogni ed imparare a comunicarli. Quando vivi in comunità o fai cantieri partecipati se non hai una padronanza delle relazioni e non te ne prendi cura, prima o poi implodi. Ora, quando faccio corsi di progettazione integrata, il mio primo passo è sempre di spostare l’attenzione dalla strategia al bisogno. Io non ho bisogno di fare questo intonaco, quali sono davvero i miei bisogni reali? Bisogno di benessere, di stare in una stanza senza la muffa; creare una situazione di armonia intorno a me; il bisogno di generare qualcosa che sia soddisfacente e il bisogno di condividerlo con gli altri. Se decidessi di fare quell’intonaco da sola, potrei finirlo in due giorni ma non soddisferei nient’altro che il mio bisogno di efficacia”.

Dopo tanti passi e discorsi profondi ci siamo meritati un bell’aperitivo così ci spostiamo al bar del paese, Virginia vuole presentarmi Benedetta Cericola e Simone Ubiali, che hanno qualche anno in meno di me, anche loro si sono trasferiti qui a Gagliano. Benedetta viene da un paese del basso Abruzzo, vicino Lanciano; Simone addirittura da Bergamo ed è arrivato qui con il progetto NEO (Nuove Esperienze Ospitali) che permette di rimanere in paese qualche mese studiando e collaborando con gli antropologi di Montagne in Movimento, dopo quell’esperienza ha deciso di rimanere e oggi lavora in una ditta di costruzioni locale. Tutti e due collaborano con la radio del paese, Radio Antiche Rue, e mi propongono di fare un’intervista (“una contro-intervista!” dico io). La trasmissione si chiama i Notturni e la usano per fare qualche domanda a chi passa per il paese per un motivo interessante, l’ospite prescelto per la settimana è saltato e io potrei fare da sostituto. Ovviamente accetto. Mentre Simone una volta a settimana dalle undici a mezzanotte fa da speaker per i Notturni, Benedetta tiene un nuovo programma giornaliero che si chiama Reggae-time. Arriva al bar anche Costantino Tuccori che è il Boss di Radio Antiche Rue, ha da sempre la passione per la radio e per molto tempo ci ha anche lavorato, è stata sua l’idea di aprire una radio locale ed erano suoi anche parte dei soldi usati per avviare il progetto. “Siamo in discesa da mesi” dice a Benedetta lamentandosi degli ascolti di Reagge-time “il rock e la generica la mattina vanno forte, ma il reggae se lo ascoltano in tre, se vuoi ti faccio vedere i dati”. Cerco di rincuorare Benedetta dicendole che un programma di solo reggae all’aperitivo (“è anche in filodiffusione” mi fa notare Virginia) mi sembra un’idea figa, anche se non mi sembra particolarmente scoraggiata dagli scarsi ascolti.

 Finiamo l’aperitivo parlando di Libriganzi, il festival della letteratura che organizzano a Gagliano da due anni, il fondatore del festival è Mattia Tombolini di Momo Edizioni e lo scorso anno c’è stato un bel talk con Sarah Gainsforth e Filippo Tantillo. Quest’anno per l’occasione la libreria Simon Tanner che aveva chiuso la sua sede a Roma durante la pandemia ne inaugurerà una nuova proprio nel paese.

Tutti stretti intorno ai tavolini bassi del bar Casey, Giovanni e Virginia mi raccontano che dopo più di un anno dal loro trasferimento in paese hanno deciso di fondare un’associazione per intervenire attivamente sul territorio, si chiama Melemarze. Il nome viene dai rami (marze) usati per praticare l’innesto su una pianta già radicata. Mi dicono che “l’associazione si occuperà di supportare l’abitabilità a lungo termine in paese, concentrandosi sui bisogni primari: cibo, casa, ambiente, relazioni, sostenibilità economica. Vogliamo rispondere a questi bisogni tramite pratiche rigenerative che mettano al centro la cura ed il benessere di ogni persona. Ci piaceva l’idea dell’innesto, dell’innestarci in una comunità e assistere a questa trasformazione reciproca”.

Dopo cena io e Simone raggiungiamo la sede della radio per registrare la puntata dei Notturni. La sala di regia e quella di conversazione sembrano uscite dai tardi anni novanta – se non fosse per un Rode Podcaster nuovo di zecca – ci sono computer fissi, rack pieni di luci e manopole, una patchbay. Ci sediamo a un tavolo circolare tutto ricoperto di finto velluto blu elettrico e due microfoni a cui sono appesi dei cuffioni vintage. Simone si segna un po’ di punti per la scaletta e ci mette un po’ a memorizzare che si dice Carsòli e non Càrsoli (il mio paese, sempre in Abruzzo).

Alla fine ci incagliamo a discutere dell’università, Simone ne ha provate due che l’hanno lasciato insoddisfatto, anche io ho la mia visione abbastanza critica e disillusa e così ci intendiamo. Durante le pause della trasmissione ci dilunghiamo sulle infiltrazioni delle aziende private nella ricerca e lo scollamento dei programmi di studio dalla realtà culturale; prima di rientrare in diretta Simone mi dice “peccato che questo non l’abbiamo registrato”.

Quando torniamo al bar ormai è tardi e nonostante ci sia più movimento del solito in paese perché è l’8 marzo, a mezzanotte stanno già tornando tutti a casa. Chiedo a Benedetta se domani può portarmi a fare un giro del paese e lei accetta volentieri, lo fa già per i turisti che arrivano dalla città nel finesettimana. Racconto a Giulia e Costantino che sotto il ponte di Pietrasecca hanno girato quel vecchio film di Fulci e Giulia mi dice di averlo visto poco tempo fa, Costantino ribatte “ce ne hanno girato anche un altro lì, quello che si perdono in una foresta e poi ci sono i dinosauri”. Lo voglio vedere assolutamente ma non ne so niente e lui non ricorda il titolo.

Quando andiamo via è quasi l’una, il bar ormai è chiuso, scherziamo un po’ sulla monotonia del paese. Virginia ci incalza “ma ha già chiuso la metro? Forse ci sono i notturni” e Giulia fa “no quelli li c’erano alle 11” e Costantino si riavvia a casa contento perché sa che stavano parlando di Radio Antiche Rue.

Tutto prima o poi deve aprirsi, comunicare. Virginia sta lavorando a un sito che possa finalmente raccogliere il caleidoscopio di ricerche ed esperienze che è condensato in questa intervista: “il sito si chiamerà Incolte, è una sintesi della mia ricerca che nasce dalla volontà di riappropriarsi del saper fare, di ripartire dalla consapevolezza dei bisogni reali. L’ispirazione principale è quella delle erbe spontanee, trovare il modo di soddisfare i nostri bisogni con le risorse che abbiamo intorno. Anni di ricerca, di viaggio, appunti, incontri, ricette, formule, metodi, punti di vista, alla fine avevo l’esigenza di riordinare tutto, di renderlo accessibile. Quando si condivide un pensiero questo diventa più chiaro, gli si da la possibilità di arricchirsi ed espadersi”.

La mattina dopo arrivo alle 10 puntuale all’appuntamento che mi ero dato con Benedetta. Prima di ripartire volevo fare un giro con qualcuno che mi spiegasse un po’ la storia del paese, un giro da turista insomma. Il paese è tutto pieno di cantieri, la vecchia scuola che va demolita, il vecchio monastero che va ricostruito, le vecchie case in rovina e quelle rese inagibili il terremoto del 2009. Finiamo a parlare più di lei che del paese, mi dice che è arrivata qui due anni fa a 22 anni e che si trova bene, da una mano con i turisti e con la radio, fa quello che serve in giro per il paese e ora ha anche una gatta di nome Martina. Incontriamo Silvana, una donna anziana che ha sempre vissuto lì nel paese e che avevo conosciuto al bar il giorno prima; mi saluta ma si è dimenticata come mi chiamo, poi si assicura che voti a sinistra alle elezioni regionali che ci sono in Abruzzo questo finesettimana, “così lo mandiamo a casa ‘sto Marsilio” mi dice. 

Il giro turistico ci riporta alla sede della radio, dove nella grande stanza d’ingresso sono appesi gli ingrandimenti di vecchie fotografie che una signora danese trasferitasi anni fa aveva ritrovato nelle case degli anziani, ne è venuta fuori una piccola mostra di facce sconosciute in bianco e nero, appena sgranate e dal contrasto profondo della pellicola, in qualcuna ci sono scene della vita di paese – un tavolata al bar, una comunione – altre hanno quelle pose posticce da foto ufficiali del secolo scorso: l’intera banda campestre di Castelvecchio guidata da un maestro tutto in tiro che spunta fuori da un ritaglio circolare al lato della foto.

Mentre mi guardo per bene la mostra arriva un gruppo di turisti di ritorno dal trekking, Benedetta mi lascia per accoglierli e mi dice che dovrà fare il giro anche con loro. Per un piccolo tratto li seguo e poi trovo una panchina dove godermi gli ultimi minuti a Gagliano Aterno. Mi siedo sotto un piccolo ciliegio appena fiorito e arriva improvviso un dolore spietato ed esatto: quello di non poter essere tutto, chiunque, in qualunque luogo e in ogni momento. Il dolore di dover osservare la vita degli altri, la cicatrice splendente incastonata nel loro cuore e negli occhi e non toccarla, serrata e sacra nella bellezza incomprensibile che già si scioglie e diventa ogni giorno delle vite che non abbiamo vissuto.

Sotto al ciliegio c’è una piccola cassettina piena di libri per il bookcrossing, decido di lasciarcene uno – una traccia di me. Ho ancora in tasca il Notturno indiano di Tabucchi che ho letto durante il viaggio fino a qui. Di nuovo un Notturno. Apro la prima pagina per scriverci una dedica: Il paese è essenziale. In principio c’erano solo le case… Frugo un po’ tra i libri e trovo una bella edizione tascabile – tutta giallo zabbaione – del Tifone di Conrad. Scambio una notte con una tempesta e mi sembra di averci guadagnato qualcosa. Poi me ne vado perché devo riprendere il treno per tornare a casa.

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