Nel primo articolo del nostro progetto editoriale per una storia delle riviste culturali online, Giovanni Padua parla de “l’inizio di una autopsia del mondo culturale italiano”, anche io nell’editoriale avevo segnalato un “sistema che non può che soffrire una serie di limitazioni congenite”. Il linguaggio medico emerge spontaneamente quando si è alla ricerca di patologie occulte. È questo il motivo che ci ha spinto a intraprendere questa ricerca editoriale, trovare nel passato i germi dei soverchianti problemi che sono chiamate ad affrontare oggi le riviste culturali e con loro anche Stanca.
Frugando nella storia delle riviste culturali degli anni Dieci, «404: File Not Found», era per noi un caso interessantissimo. È la prima rivista culturale online universitaria di cui abbiamo conoscenza – o che almeno è sopravvissuta abbastanza a lungo per lasciare tracce significative – vuol dire per noi che, da quel momento (2010) in poi, una redazione poteva mettere su una rivista distribuita online a costo zero, grazie ai nuovi strumenti informatici a disposizione. Come leggerete nell’intervista «404» nasce con Facebook ma prima di Instagram, è una rivista del web 2.0, quando la comunicazione social aveva ancora un miraggio di orizzontalità e nessuno al tempo sapeva cosa fosse un influencer. Silvia Costantino, che ha chiacchierato con noi di «404», lavora tutt’ora nell’editoria italiana, anzi è una delle figure chiave di un lavoro culturale indipendente per almeno due motivi: è nella redazione della casa editrice effequ e ha fondato il festival Firenze RiVista.
Hai fatto parte della rivista «404: File Not Found»», che è stata una delle prime riviste culturali online indipendenti italiane negli anni Dieci. Vorrei partire da quell’esperienza. Come è nata l’idea di fondare una rivista?
È sempre un grande piacere per me parlare di «404: File Not Found» perché questa rivista è stato il mio primo vero approccio all’editoria e a quello che faccio tuttora nell’ambiente editoriale. «404» nasce all’Università di Siena dove, poco prima della sua fondazione si erano scatenate le proteste dell’Onda contro il decreto Gelmini, culminate in una lunga occupazione dell’università. Io già frequentavo il collettivo studentesco e mi interessavo di politica, studentesca e non, così ho aderito fin da subito al movimento. Proprio in quei giorni, insieme ad alcuni compagni di corso, abbiamo iniziato a lavorare a un giornale dell’occupazione che si chiamava «A titolo precario». Volevamo raccontare via via quello che succedeva: le manganellate, le proteste; mi ricordo di quel periodo un incontro con Umberto Eco, che venne duramente contestato per quello ciò che disse sull’occupazione, il suo discorso ci sembrò una cosa molto anacronistica, da boomer, anche se questa parola non esisteva ancora.
Dall’entusiasmo di quella piccolissima esperienza strettamente cronachistica è nata l’idea di costituire una redazione di respiro più ampio, che è poi diventata «404: File Not Found» – un nome che oggi mi sembra pretenziosissimo. Non avevamo pianificato molto: volevamo soltanto pubblicare degli articoli per parlare di argomenti che ci interessavano.
In redazione eravamo in otto e tutti studiavamo a Siena, ci vedevamo quotidianamente e anche per questo era facile lavorare alla rivista. Ognuno di noi aveva un ambito di interesse differente e via via che la rivista cresceva riuscivamo a reclutare sempre più persone per la scrittura degli articoli. Le riviste online al tempo erano pochissime, per cui era anche relativamente facile essere notati e ricevere nuove proposte.
Nel giro di poco tempo entrammo in contatto con quella che al tempo era la generazione TQ, quindi i giovani trenta-quarantenni [da cui il nome, ndr] che gravitavano in questo grande gruppo intellettuale di Roma; noi eravamo i ventenni dei TQ, loro ci guardavano un po’ con paternalismo ma iniziarono a coinvolgerci in una serie di loro progetti di militanza letteraria. Questo ha permesso alla rivista di crescere, di entrare in un certo tipo di ambiente e – a me personalmente – di approcciare un mondo editoriale che non conoscevo affatto.
«404» è durata quasi dieci anni. È finita quando, dopo qualche tentativo di tenerla in vita, ci siamo accorti che non era più possibile continuare; ormai eravamo tutti andati via da Siena, non era possibile mantenere quel ritmo di lavoro a distanza e quindi ci siamo salutati.
Nel 2017 «404» chiude. Sul vostro sito appare un lungo articolo di congedo, che ogni tanto vado a rileggere perché mi sembra molto significativo nel descrivere il ciclo vitale di una rivista culturale e i principali problemi che portano alla chiusura: tempo, soldi, precarietà. Ne cito qui una parte: «il mondo è cambiato, e siamo cambiati anche noi. Le condizioni di tutti quelli che hanno partecipato a questo percorso – chi era qui fin dall’inizio, chi ci ha accompagnato per un po’, chi è entrato, chi infine è rimasto – sono mutate e si sono diversificate. Eravamo studenti, vivevamo nella stessa città (Siena), praticavamo una vita intellettuale e politica comune. Le riunioni di redazione erano pranzi a mensa; la redazione stessa era un angolo rumoroso della nostra biblioteca. […] Ora, il 5 giugno 2017, il principale tratto che ci accomuna inizia con una negazione: non siamo più studenti. Siamo precari, chi più chi meno, viviamo sparsi in cinque diverse nazioni e otto città, e le nostre priorità (siano dettate da costrizioni o desideri) si sono differenziate. […] Alla diversità […] si è affiancata una frammentazione sempre più forte: scadenze pressanti, orari lavorativi rigidi, o al contrario, fin troppo fluidi, hanno progressivamente intaccato la nostra capacità di partecipare tempestivamente al dibattito critico. Per seguire le nuove uscite, selezionare quelle più valide, e proporre analisi occorrono condizioni materiali precise – entrate economiche fisse e tempo libero da dedicare – che da qualche anno non possediamo più». Come è finita quell’esperienza e cosa ti ha lasciato?
C’è stato uno strappo, nel senso che per un periodo abbiamo provato a coinvolgere nuove persone, a riformare in qualche maniera una redazione e passare il testimone a qualcun altro. Ma i tempi erano proprio cambiati, e con loro gli interessi delle persone che incontravamo, direi giustamente: perché qualsiasi altra persona intenzionata a fondare una rivista avrebbe dovuto subentrare nel nostro progetto, piuttosto che farsene uno suo?
Dispiaceva a tutti ovviamente, qualcuno continuava a dire di no e provava a resistere, mentre altri ammettevano che ormai non ce la facevano più, che non avevano più il tempo di impaginare i pezzi, occuparsi dei social o del sito.
Alla fine erano sempre le solite – poche – persone a fare tutto, proprio perché gli altri non riuscivano a stare dietro agli impegni. Gli articoli non arrivavano nei tempi previsti e la programmazione saltava continuamente.
Tutte queste questioni a un certo punto hanno portato a delle discussioni anche molto dure, ho ancora conservati gli appunti fittissimi che prendevo durante le ultime riunioni – che a quel punto ormai erano online – si riproponeva puntualmente il “che fare?” e alla fine abbiamo detto “basta, chiudiamo”, nessuno aveva più il tempo e le energie per portare avanti quel lavoro. Eravamo tutti quanti stremati, e la rivista è finita così. Mi dispiace ancora, era un progetto a cui ho tenuto e tengo tuttora moltissimo.
«404» nasce nel 2010 e chiude sette anni dopo, attraversa quindi tutta quella fase di sviluppo dei social network che va dalla nascita del web 2.0 agli influencer. Quale era il vostro rapporto con i social?
Facebook era già arrivato in Italia quando è nata «404», quindi già lo usavamo e abbiamo continuato a usarlo senza porci troppe questioni al riguardo. Certo era un Facebook molto diverso, all’inizio c’erano quattro gatti, poi con il passare del tempo abbiamo iniziato a usare le immagini al posto dei semplici link agli articoli, ma alla fine il nostro rapporto con i social era rimasto quello lì. Con Instagram invece è cambiato tutto. È stato quello il punto di non ritorno in cui abbiamo cominciato a chiederci “qual è l’orario migliore per postare? quante visualizzazioni stiamo facendo?”
Oggi fai parte, insieme a Francesco Quatraro, della redazione della casa editrice effequ. Spesso le riviste sono descritte come portali d’accesso al mondo editoriale vero, nel senso di imprenditoriale. Il tuo passaggio dalla redazione di una rivista culturale a quella di una casa editrice è stato lineare o imprevisto?
Il mio accesso al lavoro in editoria non è stato lineare. Mentre ero nella redazione di «404», di lavoro facevo tutt’altro: mi occupavo per una scuola privata dell’housing degli studenti stranieri (ricchi) che venivano a Firenze a studiare italiano. Nel frattempo era già nata Firenze RiVista [il festival delle riviste culturali di cui parleremo tra poco, ndr] e frequentavo anche un corso di editoria a Roma con conseguente tirocinio non retribuito. Ogni tanto, grazie a dei contatti, facevo anche le famose schede di lettura per alcune case editrici. All’idea di un lavoro stabile nell’editoria avevo fondamentalmente rinunciato; e finché era attiva «404» per me andava già bene così. La svolta c’è stata quando insieme a un manipolo di persone appassionate di letteratura fantastica nasce Il sublime simposio del potere – il nome, così magniloquente, ovviamente era stato scelto da Vanni Santoni.
Ci ritrovavamo alla Cité, una libreria storica di Firenze, e facevamo queste sessioni infinite in cui ognuno portava dei contributi sul fantasy e sul fantastico. C’erano degli interventi molto interessanti e così mi sono proposta di raccogliere le bozze scritte dei contributi, editarli e poi pubblicarli su «404». A Francesco Quatraro, che lavorava in effequ, (la casa editrice esisteva già prima del 2017 anche se era molto diversa) quel lavoro è piaciuto molto e mi ha contattata proponendomi di farne un libro, che poi è uscito con il nome Di tutti i mondi possibili. È stata quella l’occasione per cominciare a collaborare con effequ, di cui ho incominciato a curare l’ufficio stampa.
Il passaggio da una rivista culturale a una casa editrice a volte mi sembra quasi propedeutico. Molte persone fanno questo percorso. Quanto un’esperienza può essere utile all’altra, quanto la influenza e quali sono le differenze fondamentali tra questi due tipi di lavoro culturale?
Ne parlavo, di recente, con Francesco [Quatraro, ndr]. È una differenza reale, e in effequ c’è stata un’evoluzione in questo senso. La nostra attitudine iniziale era quella di trattare la casa editrice quasi come fosse una rivista, un contenitore ampio in cui inserire cose che ci piacevano e che sceglievamo di approfondire, un approccio che abbiamo anche adesso ma in maniera molto più strutturata, con un piano editoriale che fa da barriera all’ingresso, e non raccoglie più in modo indiscriminato. Anche con effequ facciamo una selezione molto forte, come facevamo anche con «404» – con cui, devo dire, eravamo estremamente odiati per la quantità di pezzi che rifiutavamo o che chiedevamo di modificare.
Sono davvero tante poi le differenze a livello di impostazione del lavoro tra una rivista e una casa editrice, quello che le accomuna profondamente è la curiosità necessaria a fare questo lavoro: cercare tematiche, capire di queste quali sono gli argomenti del discorso, anche per confutarli, individuare i libri più interessanti o meno e le polemiche in corso. L’esperienza con «404» mi ha permesso di allenare questo tipo di sguardo critico, una forma di sensibilità nei confronti del panorama culturale che è fondamentale se vogliamo che effequ abbia un’identità precisa.
Abbiamo citato Vanni Santoni, il tuo incontro con Francesco Quatraro e gli scambi con i romani TQ. Possiamo dire che anche «404», come spesso accade per le riviste culturali improvvisate, ha funzionato davvero come collettore di tante realtà che alla fine hanno creato intorno a voi una rete culturale importante.
Si anche se è successo tutto un po’ per caso. Noi eravamo molto sfacciati: commentavamo tutto, ogni volta che nell’ambiente intellettuale succedeva qualcosa noi eravamo lì, di conseguenza era facile venire notati da quelle situazioni che gravitavano nel giro editoriale. Poi ai tempi, quando uscì il primo documento di TQ su minima & moralia, le riviste culturali erano davvero poche, quindi era anche relativamente facile farsi notare per una realtà come «404». C’erano «minima & moralia», «Nazione Indiana», «Il Lavoro Culturale»…
Anche «Carmilla»…
Si, però «Carmilla» era sempre rimasta un po’ ai margini di quell’ambiente. È un peccato perché anche io l’ho riscoperta negli anni successivi, non era una rivista culturale nell’accezione che ne avevamo noi. Faccio un esempio: una cosa che mi ha fatto ridere adesso che hai riletto quel pezzo lì di «404» era proprio questo inseguimento della questione qualitativa – selezionare le uscite più valide – che è una cosa che adesso rinnego completamente. Non credo più a questa idea della qualità oggettiva, perché rivedo in quelle parole tutta una serie di posture che avevamo in quel momento.
Una parte importante del tuo percorso nel mondo dell’editoria, insieme a «404» e effequ, è rappresentato da Firenze RiVista, il festival delle riviste culturali che hai fondato. Questo festival è stato molto importante per la redazione di Stanca, siamo stati lì insieme poco prima di fondare la nostra rivista, lo consideriamo una specie di battesimo del fuoco…
«404», effequ e Firenze RiVista sono per me una triade indissolubile, per cui è difficile parlare di una senza citare le altre. Il festival nasce dieci anni fa, quando mi sono trasferita a Firenze. Faccio un passo indietro: io vivevo con i miei nel Valdarno, in provincia di Firenze, ho fatto l’università a Siena e poi ho vissuto per un periodo a Roma per fare uno stage, dopodiché sono tornata a stare a casa con i miei senza una lira. Tornata a Firenze per il lavoro alla scuola per stranieri a cui già ho accennato, e anche grazie a «404», sono entrata in contatto con tutta una serie di riviste e associazioni.
Insieme ad altre due persone appartenenti a altre due riviste («L’eco del nulla», tuttora esistente, con Andrea Caciagli, e «Con.tempo», con Carlo Benedetti) abbiamo deciso di provare a lanciare un appuntamento per organizzare una serie di presentazioni di libri diffuse e in condivisione, quindi gestire insieme ad altre riviste e associazioni tutti gli eventi in cui eravamo coinvolti sul territorio di Firenze. La risposta è stata grandissima, e di lì è nata l’idea di evolvere il progetto in un festival, così ha avuto luogo la primissima edizione – scrausissima, bellissima, improponibile – di Firenze RiVista, il festival delle riviste di Firenze. Il festival ha attirato l’attenzione di riviste da tutta l’Italia e ha cominciato naturalmente a ingrandirsi. Così dal terzo anno, mentre lavoravo già per effequ, abbiamo deciso di aprirci anche alle case editrici. E così, molto lentamente e con pochissimi soldi – non lo dico con orgoglio, ma con un certo risentimento nei confronti di amministrazioni comunali – abbiamo creato il festival come esiste tuttora.
Spesso quello che spinge un gruppo di persone a fondare una rivista è proprio l’esigenza di aggregarsi, Firenze RiVista sposta questa esigenza a un livello superiore proprio perché offre a diverse realtà editoriali uno spazio di incontro – estraneo a tante, frustranti logiche commerciali. Come organizzatrice del festival, negli anni, avrai fatto la conoscenza di tantissime riviste, come ti sembra oggi il panorama delle riviste culturali italiane e come è cambiato?
È sempre molto ricco e sempre molto mutevole. In una delle primissime edizioni di Firenze RiVista, un redattore di una delle riviste partecipanti – che adesso non esiste più – disse che “le riviste nascono per morire”. Credo che questo sia rimasto un po’ il nostro mantra. Le riviste culturali devono necessariamente esaurirsi perché qualcos’altro possa succedere. Una sorpresa recente per me è stata nel rapporto tra nuove riviste online e nuove riviste cartacee, avrei dato le seconde per perdenti, invece oggi rimane abbastanza paritario. Ci sono tantissime realtà che producono riviste cartacee che vanno dalla fanzine alla rivista patinata di qualità. A questo panorama aggiungerei anche i podcast che, per come funzionano, sono assimilabili al progetto di una rivista, è qualcosa a cui stiamo prestando molta attenzione in Firenze RiVista.
Anche effequ ora gestisce una rivista. Non sembra si possa uscire vivi dal mondo delle riviste culturali, anche volendo. Parlo di «Calibano», con cui sei tornata a occuparti di una rivista cartacea.
«Calibano» è una rivista che viene fatta in collaborazione con il Teatro dell’Opera di Roma, per questo motivo, rispetto a «404» è una situazione molto più complessa, più strutturata e necessariamente legata anche a tutta una serie di regole. Anche la ricerca delle autrici e degli autori e dei diversi contenuti vengono fatti cercando di portare sulla rivista le persone più titolate a parlare di un certo argomento. Diciamo così: all’apparenza si colloca in una fascia di prestigio un più alta rispetto a quello che poteva essere «404». Preso atto di questo, il tipo di ricerca, di lavoro, che facciamo non è cambiato molto e le riunioni sono belle quanto quelle che facevamo vent’anni fa per «404».
Tutto sta nel mettersi lì e dire “ok, allora quali sono le opere in cartellone? questa, questa e questa, ok. Allora adesso c’è Alcina, quali sono i temi intorno a Alcina? La magia, la magia è il tema fondamentale, chi parla di magia e che cosa vogliamo dire sulla magia?”. E così inizia un brainstorming infinito per cercare di raccogliere tutte quante le possibili declinazioni sul tema.
È un po’ come facciamo per i saggi su effequ: prima pensiamo ai possibili argomenti che ci piacerebbe approfondire e poi iniziamo a individuare le persone che potrebbero fare quel lavoro lì e, nel caso di «Calibano», si costruisce la rivista…
Quello che mi ha colpito di «Calibano» è proprio questo suo essere una rivista fisica che però ospita firme che scrivono spesso sulle riviste online. In qualche modo questo crea un certo spaesamento ma anche – per me – un senso di familiarità. Dal Teatro dell’Opera mi sarei aspettato qualcosa di molto più imbolsito.
L’obiettivo era proprio quello. Il Teatro dell’Opera produce già i libretti per ogni singola opera in cartellone, che sono già da sé delle riviste monografiche approfondite e bellissime. La sovrintendenza è stata molto lungimirante nel voler proporre qualcosa di diverso, far affrontare quegli stessi argomenti in maniera diversa e da persone diverse. Credo che abbiano cercato noi proprio per questo, perché sapevano che saremmo riusciti a metterci di traverso come sempre, e fargli una rivista storta. La squadra ha funzionato ed è davvero bello occuparsi di questa ricerca.
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