Sonar è un podcast di Nicolò Porcelluzzi, prodotto dal Post, che affronta tanti argomenti diversi, tutti connessi al suono e alla vita acquatica: i canti delle balene e i clic dei capodogli, il loro riverberarsi nelle distanze oceaniche e diventare un linguaggio che ancora stiamo cercando di decifrare; e poi membrane risonanti o membrane cellulari, quelle che hanno separato gli esseri viventi dall’acqua salata. La descrizione sul sito del Post lo presenta così: “Sonar è un documentario in forma di podcast: si ascolta, e si interroga sull’ascolto”. Porcelluzzi è anche autore di altri podcast: La bomba in testa, Stragisti D’Italia, Frigo!!!; ha scritto Fare i versi (Quanti, Einaudi 2022) e, con Matteo De Giuli, MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) (Not, NERO editions 2021), nato dalla loro newsletter omonima. L’ho incontrato qualche settimana fa a Roma per parlare del suo ultimo podcast.
Quando parlo di Sonar lo definisco un podcast, ma tu durante le puntate lo chiami audiodocumentario. Volevo partire da qui, l’audiodocumentario per me è un genere un po’ retrò che continua a sopravvivere sottotraccia nella radio (penso a Tre soldi su Rai Radio 3). Perché hai scelto questa definizione?
Per me i podcast sono un formato che prevede delle chiacchiere, dei momenti in cui una, due o più persone si trovano a parlare di qualcosa senza seguire una sceneggiatura, andando a braccio. Proprio per questo mi viene naturale distinguere i miei da quel formato. Negli ultimi anni poi il podcast è andato a significare molte cose diverse, ne è nata una minuscola industria con attori oggi riconosciuti come Chora Media o storielibere. Considerato che mi capita di non riconoscermi nell’offerta culturale di questa industria, quando vengono proposti come “podcast” oggetti che mi sembrano molto diversi da Sonar, scrivendolo sentivo l’esigenza di distinguerlo.
Trovo curioso poi che per te l’audiodocumentario si leghi più alla radio, che ormai è completamente riproducibile on demand. Quella distinzione netta tra radio e streaming digitale oggi mi sembra completamente abbattuta. Almeno, questa è la mia percezione.
Quando hai cominciato a pensare a Sonar, considerando anche il panorama italiano che hai descritto, quali sono stati i tuoi riferimenti?
Non ho avuto influenze italiane. Ascolto diversi podcast italiani, anche tre o quattro a rotazione, soprattutto La Riserva e Pendolino (che fanno parte dell’ecosistema Ultimo Uomo), ma sono quasi tutti di calcio. Ascolto spesso anche Radio 3, e sono affezionato al suo palinsesto, ma in nessuno di questi programmi ho trovato un modello.
Probabilmente il mio riferimento principale è stato un programma radiofonico statunitense che ascoltavo anni fa: Radiolab, prodotto dalla WNYC Studios, la radio pubblica newyorkese. Uno dei due autori è un amico storico di Oliver Sacks, e infatti nella scrittura del programma si può riconoscere un taglio molto sacksiano: si incomincia da un micro-aneddoto o qualche strana storia personale, per poi arrivare a ricostruire tutto l’universo scientifico retrostante. Quelli che chiamiamo podcast in Italia – un po’ per ragioni culturali, un po’ per ragioni economiche – di solito sono fatti da persone che parlano sopra un tappeto musicale, anche quando sono scritti come i miei. Ascoltando Radiolab invece mi è rimasto impresso il ritmo. Fanno un uso sapientissimo della materia sonora: ci sono intromissioni del suono nel parlato, presentazioni non canoniche degli ospiti; soluzioni formali che rendevano molto più vivo l’ascolto e che sfruttavano fino in fondo il mezzo, che diventava così qualcosa di più di un semplice veicolo di informazioni.
Mi sembra di capire che ti interessa molto il rapporto – anche tecnologico – con il medium. Le sue possibilità di sperimentazione. Soprattutto a livello di montaggio e di come questo influenzi un certo tipo di scrittura. È stato così anche per gli altri podcast a cui hai lavorato?
Questo è stato il mio quinto podcast; il primo l’ho scritto con degli amici per un’associazione culturale di Venezia, era un progetto piccolino dedicato ad alcuni aspetti più o meno nascosti della città. Poi ne ho fatti altri quattro, due con Storytel, uno con Chora e ora Sonar con il Post. Come sempre, ogni progetto ti insegna qualcosa di nuovo, e soprattutto i due con Storytel mi hanno insegnato tanto, mostrandomi la quantità di cose che non sapevo fare; una delle cose che mi hanno insegnato poi, è che ho bisogno del potere decisionale sulla parte sonora del podcast. (Ora li sto chiamando podcast per la comodità delle sillabe ma ci siamo capiti.) Con Storytel per tanti motivi non era stato possibile. Ad esempio per Frigo, che ho realizzato insieme a Ivan Carozzi, ci siamo affidati per l’elaborazione sonora e il montaggio a Massimo Carozzi, un musicista e sound designer che stimo profondamente.
Il processo creativo quindi era condiviso: io e Ivan nello script suggerivamo delle soluzioni, che a volte Massimo raccoglieva, a volte no. Questa volta invece, con Sonar, mi sono trovato ad avere molta libertà, ho potuto immaginare ogni intervento sonoro del progetto. Se nei primi progetti lavoravo più da scrittore, (quindi sulla parola e sull’ordine logico degli avvenimenti) in questo caso, invece, già nella primissima scrittura mi venivano in mente delle idee sonore. Quando mi allargavo a un nuovo argomento, lo pensavo insieme a una certa musica fin dal processo di ricerca.
Di solito, in tutti i tuoi progetti, passato qualche anno, se ci torni, su vorresti cambiare qualcosa o anche tutto; mentre non so se cambierei o aggiungerei qualcosa a Sonar. Certo, non l’ho più ascoltato dall’estate scorsa, ora che ci penso. L’unico aspetto su cui avrei lavorato ancora di più, se ne avessi avuto il tempo, sarebbe stato quello dell’uso del suono come strumento significante. Di solito il suono è usato semplicemente per creare una risposta emotiva nell’ascoltatore, e mi sembra che questo suo uso didascalico limiti un’esplorazione più approfondita del mezzo. Cerco di farti un esempio concreto: ricordo una puntata di Radiolab sul metodo CRISPR, la tecnologia che permette la modifica artificiale del genoma. Per farti capire che cosa riesce a fare questa tecnologia, durante la trasmissione riproducono un determinato suono per ogni determinata cellula di cui stanno parlando: da ascoltatore impari a riconoscere ogni cellula, associando il concetto al suono. Poi, poco più avanti nell’episodio, le senti ricombinate tra loro attraverso i loro suoni. Sto parlando di due-tre secondi di intervento, niente di strutturale o sinfonico. Un tocco. Un’idea che mi è tornata in mente cercando di non affidare l’apprendimento all’intelligenza visiva, ma a quella uditiva.
È una specie di sinestesia concettuale. Che permette di fare associazioni diverse da quelle che facciamo di solito. Organizzare e catalogare attraverso il suono invece che la vista. Non ci avevo mai pensato.
Sì, un suono puoi anche modularlo, armonizzarlo con altri, ottenendo effetti particolari. Per dire, in Frigo c’erano dei temi musicali: quando arriva il momento di Andrea Pazienza puoi riascoltare in sottofondo quella tastiera che compariva mentre parlavamo di lui nell’episodio precedente. Invece in Sonar ho cercato di usare questo approccio e sperimentare con il suono, in particolare mi torna in mente un’idea del quarto episodio. Verso la fine della puntata si parla di questo volatile che emette dei suoni a frequenze molto rapide e ha sviluppato perciò un udito molto diverso al nostro: non percepisce la sequenza dei toni nelle melodie, come facciamo noi, ma riconosce – in modo estremamente preciso – la variazione di ampiezza della frequenza del suono. Così sembra abbastanza complicato, ma per spiegarlo meglio ho usato una canzone di Gigi D’Agostino che è Bla Bla Bla, in cui una serie di campionamenti vocali producono una melodia per noi riconoscibile [A a ben / Warem a ben ben / Warem ben ben ben, ndr]. Quella specie di uccello non va alla ricerca della sequenza ordinata in un certo modo, ma è più attento a come cambia la frequenza di queste unità. Se cambiamo l’ordine dell’unità [A ben a / ben ben Warem a / Ben ben warem ben, ndr], lui non se ne accorge. Si accorge invece di qualunque minima variazione nella frequenza. Questo accade perché ha un udito molto più veloce del nostro, e per questo motivo è come se vivesse immerso in un mondo sonoro totalmente diverso da quello umano. Quella canzone è stata un ottimo esempio uditivo per spiegare quello che volevo dire, e con Yi Ming ci siamo anche divertiti (Yi Ming Zhou è il pazientissimo sound editor che mi ha aiutato a mettere insieme le puntate, al quale sono grato).
Mi fa pensare anche a quando, in una delle puntate, testi l’udito dell’ascoltatore sfidandolo a sentire il fischietto per cani in Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles. Crei un momento di strana interattività che mi ha ricordato certi vecchi quiz su vhs. Questo comunque mi porta a farti un’altra domanda sull’aspetto strettamente tecnologico del podcast. Rispetto alla scrittura questo mezzo ti richiede maggiori competenze tecniche: registrazione, manipolazione e montaggio dell’audio; come hai affrontato questi aspetti? Durante la lavorazione di Sonar la tecnologia è stata per te un limite o una fonte di ispirazione ulteriore? Più banalmente: dopo tutto questo lavoro sul suono come ti sei rapportato con il fatto che qualcuno avrebbe potuto ascoltarlo da un smartphone in mezzo al traffico perdendosi gran parte del risultato?
Con Valentina Lovato e Matteo Caccia del Post, ci siamo interrogati spesso su quest’ultimo punto durante la preparazione di Sonar. C’è stato un periodo nel quale avevamo pensato di mettere una specie di disclaimer, un’avvertenza all’inizio del podcast: “consigliamo di utilizzare delle cuffie, o di ascoltare Sonar in ambienti sonoramente protetti”. Cose del genere. Ma poi abbiamo preferito non farlo, perché non volevamo in nessun modo spaventare all’ingresso l’ascoltatore. Si rischia di diventare più realisti del re. Abbiamo deciso di affidarci alla consapevolezza delle persone, sperando che fosse intuitivo che ascoltarlo per strada senza cuffie avrebbe fatto perdere un bel pezzo dell’esperienza per come l’avevamo pensata.
A livello strettamente tecnico, non essendo il montatore posso rispondere solo in parte a questa domanda. Ho un Tascam DR40 e per registrare le interviste in presenza ho usato quello. Rispetto agli altri podcast, per essere sicuro di non perdere nulla, mi sono portato dietro anche un piccolo microfono lavalier, di quelli che pinzi con una molletta, che mettevo su di me per registrare una traccia di backup nel telefono.
Mi viene da ridere mentre lo racconto, perché nonostante tutte queste precauzioni, più di una volta mi sono dimenticato il cappuccio antivento (che ho visto che anche tu non hai). Questo ci porta alla parte tecnologica per me più interessante. Nel giro di due anni, da Frigo a Sonar, la tecnologia audio ha fatto enormi passi avanti grazie alla solita intelligenza artificiale. L’ho scoperto a mie spese quando mi sono accorto appunto che delle registrazioni importanti erano state deturpate dal vento. Con un software AI sono riuscito a ripulire tutto il rumore di fondo ed è stato un processo davvero interessante. L’ho dovuto fare per un paio di interviste. Mi torna in mente l’intervista di Diana Lola Posani ai Quartieri Spagnoli a Napoli, in cui ho dovuto ripulire tutto l’audio dal rumore provocato dal vento. Per coprire il silenzio innaturale della registrazione modificata, ho inserito una registrazione del paesaggio sonoro di Napoli che avevo fatto poco prima, mentre facevo una lunga passeggiata.
Mi riconnetto a quello che hai detto prima sul come ascoltare questo podcast: non è solo un problema di dispositivo, perché mi sembra che Sonar comunque richieda all’ascoltatore una buona dose di attenzione. In questo senso c’è un sottotesto implicito, direi meta, in tutto il podcast che richiama a un ascolto attento anche del podcast stesso. In un panorama sempre più saturo di prodotti pensati per un ascolto distratto, Sonar è un’eccezione preziosa proprio perché chiede all’ascoltatore qualcosa in più in termini di attenzione.
Per me è semplicemente la risposta che potevo dare al linguaggio espressivo del podcast. Sono uno scrittore, e so che non posso campare di libri né di poesie, però quello che faccio, quando scrivo, è chiedere sempre a chi legge attenzione e presenza. Questo non significa mettere in difficoltà o voler essere oscuri, ma cercare di rendere l’esperienza di lettura, o di ascolto, trasformativa. Ti dico questo perché, al contrario, negli anni ho capito di non essere un bravo cronista o scrittore di reportage veloci e puntuali. Tendo sempre a introdurre nella mia scrittura vari livelli di stesura e di complessità, ma questo mi rende più lento e anche più lezioso di chi vive di giornalismo.
Mi sembra che la stratificazione di cui parli sia proprio uno degli aspetti migliori di Sonar: è un podcast densissimo di voci, suoni, musica, atmosfere e rimandi ad altre opere. Mentre la tua indagine prosegue diramandosi sulla superficie, intreccia personaggi, narrazioni e scoperte scientifiche; poi all’improvviso apri dei profondissimi squarci filosofici. Sembra davvero di assistere a quel comportamento del capodoglio, che descrivi in diverse puntate, di inabissarsi improvvisamente. Penso al finale in cui parli con Diana Lola Posani: l’idea che la membrana cellulare, sia allo stesso tempo una superficie risonante e quindi ricettiva del suono e anche la prima forma di separazione della vita dall’acqua salata. Come se la vita nascesse nel suono insomma. Crei una congiunzione improvvisa e un po’ stordente tra i due grandi temi del podcast: la biologia e il suono. Mi hai detto che questo tipo di complessità per te si lega soprattutto alla scrittura e alla sua stratificazione di senso, quindi vorrei chiederti: quando è che le due strade si dividono, che si passa dalla scrittura per se stessa alla scrittura per il suono?
La base è la stessa: per me è sempre lo studio, se parliamo di saggistica, mentre nella narrativa è diverso. Per spiegarmi meglio devo partire dal primo podcast, La bomba in testa; per farlo ho studiato molto più del necessario, in maniera bulimica e non sistematica, e così mi sono ritrovato con una sproporzione grave tra il materiale che ho letto e quello che ho usato. Quell’esperienza mi è servita parecchio, perché ora prima cerco di vendere l’idea del progetto e poi inizio a studiare. Se sto studiando per un podcast, negli appunti cerco di ragionare già secondo la sequenza degli episodi. Se sto assorbendo delle informazioni da un libro, cerco già di distinguere i contenitori in cui finiranno le diverse idee. Quando invece studio per scrivere articoli o saggistica, faccio delle schede dei libri che leggo. Non tutti, per carità. Le schede restano lì e a volte mi tornano in mente mesi o anni dopo, grazie a un altro spunto, una notizia, un’idea; così torno alla scheda e da lì incomincio a scrivere il pezzo. Quindi la risposta per me è sicuramente il momento dello studio, la differenza sta nel modo in cui è orientato.
Vorrei chiederti anche qualcosa della capinera…
È tornata! È tornata una settimana fa.
Quella storia è bellissima e mi accompagna spesso anche se è passato molto tempo dall’ultima volta che ho ascoltato Sonar. Hai trovato questo modo molto intimo di descrivere com’è cambiato il tuo ascolto durante il lavoro per il podcast. È qualcosa che associo al Deep Listening, la pratica di ascolto meditativo creata da Pauline Oliveros, che infatti ha una parte sempre più preponderante verso la conclusione del podcast. Volevo raccontarti una mia esperienza simile: a me è successo con i colori degli alberi. Da quando la mia compagna, che è un’agrotecnica, mi ha spiegato che alberi diversi fioriscono e sfioriscono o perdono le foglie in momenti differenti. È una banalità, ma adesso quando torno in Abruzzo, a casa mia, vedo sulle montagne delle sfumature sempre diverse a cui prima non facevo caso: il rosso, il giallo e il verde cambiano posto e si muovono continuamente. Quindi vorrei chiederti qualcosa di più su come ti ha cambiato questo podcast e in che modo.
Per risponderti vorrei partire da un punto fondamentale del mio progetto, ma anche di tanti altri di questa nuova ondata di lavori sul suono. Negli ultimi secoli le nostre società hanno pilotato troppa attenzione sulla vista; c’è chi dice sia stato a causa della rivoluzione prospettica portata dal Rinascimento: a Firenze nasce la prospettiva, il punto di fuga, il gioco degli spazi nelle immagini; si sperimenta come distribuire i corpi in uno spazio, ed è una rivoluzione nelle arti figurative. Ma prima di tutto ciò il suono era stato una delle dimensioni primarie della nostra esistenza, la nostra attenzione era completamente immersa nel suono. Pensa alla reinvenzione della notte come momento sociale: fino a qualche secolo fa non si stava in giro di notte, calava il sole e andavi a dormire; possiamo solo immaginare cosa significasse vivere in posti poco inurbati, circondati dai suoni della natura, tra paure, follie, deliri che portava il buio.
Oggi, la nostra è una società prettamente visiva, e forse per questo motivo c’è una volontà di riattualizzare l’attenzione per il suono. Almeno, io l’avverto. Il Deep Listening si inserisce in questa esigenza di prestare attenzione al suono.
Questo ci porta a un altro dei punti fondamentali del mio progetto: gli ecosistemi, siano essi le città o le foreste, sono dati dall’intreccio di intelligenze molto diverse tra loro. Questo significa che non esiste una realtà oggettiva, data e esterna a tutti noi. Esistono solo dei fenomeni e dei sensi che li captano, perciò più si diventa consapevoli delle forme di percezione e di attenzione delle altre specie, più la mente si apre a nuove cognizioni. È davvero come una droga, molto potente, una trasformazione plastica del tuo cervello.
Quindi devo risponderti che non mi ha cambiato in un modo particolare questo progetto specifico, penso che si cambi costantemente, studiando, facendo ricerca. Ho capito però perché certe cose mi interessavano, come la musica, che è sempre stata una dimensione primaria nella mia vita, e lo è anche per molte altre persone; ma perché? Torniamo a quello che abbiamo detto prima: perché è il primo linguaggio, la prima forma di contatto con il mondo, ancora prima di uscire dal corpo della madre.
Sonar si conclude con un’ultima puntata chiamata, appunto, in utero. I Nirvana, la vita prenatale, l’oceano dove nasce la vita, tante cose intime e universali si intrecciano improvvisamente. Mi ero chiesto spesso perché un determinato tipo di suoni dai caratteri per così dire acquatici, sottomarini, vengono sempre legati a sensazioni rilassanti, contemplative. Quei suoni riverberati e dalle alte frequenze molto attenuate. Penso a questo riverbero che ho per la chitarra che si chiama proprio oceanic reverb, non so precisamente cosa sia il riverbero dell’oceano però il suono che potrebbe avere riesco a immaginarlo per qualche motivo.
Come la Dub, i primi esperimenti di King Tubby… David Toop la definisce la musica dell’ecoscandaglio. Io però non ho una risposta più precisa di quella che ho provato a dare nel quinto episodio di Sonar. Per alcuni, le prime forme musicali di Homo Sapiens sono nate proprio dall’interazione della madre con il neonato. Nell’utero siamo sospesi nell’acqua, è quello il nostro modo di riprodurci, una parte fondamentale della nostra vita biologica. Credo abbia a che fare con l’assorbimento dell’oceano nel nostro corpo, con l’aver ricreato delle cellule di mare all’interno del nostro corpo, e la gravidanza ne è in qualche modo un esempio. Ma così andiamo nel New Age e le mie competenze finiscono ben prima.
Questo mi fa pensare a un libro che mi piace molto: Thalassa di Sandór Ferenczi. La sua teoria psicanalitica considerava il passaggio dallo stato acquatico a quello secco come un trauma universale della vita sul pianeta. Un trauma che portiamo dentro anche noi, come molte altre specie, e da ciò deriverebbe quella nostalgia per l’elemento acquatico che si manifesta, ad esempio, nella nostra forma di riproduzione sessuale. Probabilmente tutto molto antiscientifico ma estremamente affascinante.
Già, anche Rolland e Freud parlavano di sentimento oceanico, no? Però anche qui possiamo ritrovare una forma di pregiudizio antropocentrico: noi lo consideriamo un trauma, il distacco dal mare-latte, perché ne siamo usciti. Anche Herzog, nella sua Minnesota Declaration, dice: “La vita negli oceani deve essere un vero inferno. Un vasto, spietato inferno di permanente e immediato pericolo”. Le sue frasi sono sempre molto ieratiche, a volte anche molto banali. Però una cosa che ripeto sempre in Sonar è che questo è il nostro punto di vista. I mammiferi che hanno deciso di tornare nell’oceano sono diventati gli animali più imperturbabili, socievoli e canterini che conosciamo. Alle loro orecchie, l’abisso è un rifugio che abbonda di cibo. Si accudiscono, mangiano e chiacchierano, si accoppiano, nuotano nel mondo. Di che trauma stiamo parlando?
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