Protagonista tra il 1996 e il 2000 di tre album concettuali di Marilyn Manson, il Verme è un anonimo emarginato, buono solo a ispirare pietà e immerso nell’autocommiserazione. La sua parabola si sviluppa anti-cronologicamente, inizia tra le tenebre di Holy Wood (2000), prosegue nella illusorietà plastica di Mechanical Animals (1998) e si conclude con l’apocalisse satanica di Antichrist Superstar (1996). Holy Wood, meta del pellegrinaggio del Verme, è la terra sacra della fama. Il suo opposto topografico è la Death Valley, dove il protagonista vive tra i reietti e gli emarginati. Il Verme odia la sua patria e ha intenzione di raggiungere la terra di Holy Wood perché è convinto che lì vi sia il paradiso.
In Mechanical Animals, il Verme, una volta giunto nella terra promessa, è rinato come rockstar dissacrante, è preda di istinti autodistruttivi, il suo nichilismo lo fa apparire al pubblico come un essere senza anima ma di converso, Omega percepisce la gente di Holy Wood come animali meccanici, senza personalità e sempre pronti alla sottomissione. Inizia così a cercare tra le sue masse adoranti il Come White, una droga che egli consuma nel tentativo di riempire il vuoto che sente espandersi dentro di sé.
Attraverso il suo percorso autodistruttivo dentro il Dope Show, uno dei volti nascosti di Holy Wood, il protagonista si rende conto della finzione costruita dal sistema dei media, droghe senzienti che tengono sotto scacco l’emotività degli esseri umani. Omega ricorda così la sua origine: prima di essere il Verme, egli era un’entità aliena e androgina, chiamata Adam Qadmon. Adam, trascinato sulla Terra dalle major, viene programmato come icona ribelle. Holy Wood sfrutta esseri come Adam — non corrotti dal Dope Show — per questo li alleva nella Death Valley, dove si coltiva il dolore, trasformandoli in reietti e manipolando il loro rancore come carburante per l’intrattenimento delle élite. In seguito a questa caduta la sua personalità si scinde: Alpha, il sé autentico, frustrato dalla consapevolezza di essere strumentalizzato, e Omega, il leader nichilista della band Mechanical Animals.
Questo sistema necrofilo ruota attorno a tre pilastri: le Armi, Dio e il Governo ed è alimentato dal martirio delle celebrità. Il nuovo Cristo di Holy Wood è John F. Kennedy, la cui morte in diretta nazionale ha inaugurato la “necroreligione” americana.
Ogni idolo, compreso Omega, diventa un’ombra del Presidente martire, destinato a rinnovare il culto del leader morto. Così, in Antichrist Superstar, Omega si ribella: diventa un dittatore carismatico, deciso a incanalare la rabbia delle masse in una rivoluzione totale. Ma presto scopre che Holy Wood non fa altro che glorificare la sua ribellione come parte di una morale aristocratica: un sistema nietzschiano dove i “Forti” traggono legittimazione dalla devozione dei “deboli”.
Anche il fascismo è un volto dello spettacolo e viceversa, le masse educate all’odio non cercano liberazione, ma idoli da sacrificare sull’altare della fama. Così, nel capitolo finale, Omega si trasforma nell’angelo distruttore, il “piccolo corno” dalle ali martoriate, deciso a demolire l’intero apparato ritualistico di Holy Wood. Manson descrive questa metamorfosi in Cryptorchid: “Angel has spread his wings: the time has come for bitter things”.
Le cose amare giungeranno davvero. La profezia di Manson si realizza il 20 aprile 1999. Quella mattina, due studenti della Columbine High School, Eric Harris e Dylan Klebold, come il Verme, emergono dalla Death Valley del loro anonimato e sfondano il cielo di Holy Wood con un sacrificio umano. L’uccisione di 12 studenti e un insegnante fu il prezzo per entrare nell’immortalità mediatica, per vedere la loro immagine pubblicata sulle copertine del Time.
Se la trilogia di Marilyn Manson denuncia l’ascesa e la caduta della celebrità come figura sacrificale, il massacro della Columbine segna il punto di rottura in cui questa narrativa si trasforma: dai demiurghi dello star system agli anonimi assassini che rivendicano per sé la centralità del sacrificio mediatico.
Prima di rinchiudersi nella biblioteca della Columbine e di suicidarsi in mezzo al sangue dei feriti e ai cadaveri dei loro stessi compagni, i due amici sapevano, come canta il Verme in Target Audience, che dopo aver compiuto il loro rito sacrificale, una volta morti, sarebbero stati “conosciuti da chiunque”. Fu esattamente ciò che accadde: con la complicità dei media, i due assassini acquisirono una loro personale forma di immortalità.
La cultura pop mostra nelle sue esagerazioni come nell’ecosistema dei college americani viga una gerarchia sociale non ufficiale ma rigidamente rispettata, un legame tra sistema di caste, capitalismo e celebrità che definisce la cultura statunitense e che Manson additò come responsabile del massacro, dopo essere stato accusato di essere il mandante “spettacolare” della strage della Columbine.
Gli atleti, in particolare, incarnano un’aristocrazia studentesca, simile a una casta guerriera che domina gli spazi sociali ed emotivi dei campus. Questa posizione, legata al talento fisico, riflette una dinamica di mercato che premia l’immagine e l’intrattenimento, creando micro-celebrità capaci di mobilitare attenzioni e risorse, anche economiche.
Il college, e in generale il sistema scolastico, diventa così un laboratorio in cui la popolarità si trasforma in celebrità. La gerarchia sociale nei campus riflette, così, una sorta di anticipazione delle dinamiche di esclusione e privilegio che caratterizzano la società americana più ampia. La figura dell’atleta-celebrità agisce come una divinità moderna, un’icona di successo che trascende i confini del college per diventare simbolo di realizzazione individuale e stratificazione sociale.
Nel sistema vedico ogni casta trovava il proprio senso nel dharma, un ordine cosmico che garantiva l’equilibrio tra i diversi ruoli; nel capitalismo questa struttura si capovolge: il dharma non guida più le azioni, ma viene sostituito dalla performance, che si misura in base a metriche come popolarità, utilità economica e capacità di attrarre desiderio. Gli atleti, celebrati come eroi locali, incarnano un falso dharma che non guarda al bene comune ma alla valorizzazione individuale in un contesto competitivo.
In questo contesto, il sistema di caste nei campus non è solo un riflesso della società capitalista, ma anche il suo strumento: attraverso la creazione di gerarchie apparentemente naturali, perpetua un modello in cui l’élite è visibile e venerata, mentre il resto rimane invisibile. La celebrità degli atleti diventa quindi un rituale sacrificale, dove il pubblico offre attenzione e risorse in cambio di sogni e intrattenimento, una parodia postmoderna del sacrificio vedico.
Harris e Klebold, che si scoprirono essere degli hater di Manson, incarnano la figura del Verme che il cantante, fin dai tempi di Antichrist Superstar, stava parodiando e attaccando. Essi erano lo spettro futuro di quell’humus culturale che con l’era di internet assumerà il volto dell’alt-right e della neo-reazione.
Sono i figli legittimi del sistema mediatico-sociale che traumatizzarono, esclusi e inclusi allo stesso tempo dal sistema che essi vollero sfigurare. È noto infatti che i due, non appena fatta incursione nella biblioteca dove si era rifugiata la maggior parte degli studenti, urlarono a “quelli con i berretti bianchi”, cioè agli atleti della scuola, di alzarsi in piedi per essere uccisi, svelando la loro azione terroristica come un perverso assalto all’elite che secondo loro li opprimeva.
Manson con Holy Wood cercò di vedere tutto da un’altra prospettiva, chiedendosi: “L’intrattenimento per adulti sta uccidendo i nostri bambini? Oppure uccidere i nostri bambini intrattiene gli adulti?”. Secondo il cantante, sia gli autori della strage che le loro vittime, sono la massa di un rito sacrificale più ampio che coinvolge tutte le nuove generazioni, il “Target Audience” dei media, nel doppio significato di “pubblico di riferimento” e di “bersaglio pubblico”. Attraverso l’epica della guerra di liberazione, oppure nella sregolatezza del divo e dell’artista musicale che rincorre “la bella morte” degli eroi achei, l’America desidera che i suoi frutti vadano al macero.
Hollywood e la società americana sono una fabbrica di martiri, alimentata dalla necrofilia culturale per la giovinezza. A questo pantheon appartiene l’icona morta di Kennedy, di Marilyn Monroe, John Dean, martiri che la società statunitense richiede come sacrificio eterno. La morte mediatica riempie un vuoto di significato che non può mai essere colmato, perché non può esservi salvezza in un culto della morte dato che lo sterminio che esso propaga all’esterno prima o poi si rivolge verso l’interno.
Con la Columbine, il culto della celebrità subisce un radicale spostamento: non più figure carismatiche e distanti, ma perfetti sconosciuti capaci di incarnare il sacrificio nella sua forma più devastante. Ma per comprendere questa mutazione, dobbiamo chiederci: che cos’è, davvero, la celebrità?
Dalla canonizzazione laica di J.F. Kennedy alla tragedia della Columbine, la religione laica americana ha portato alla luce una forma di “morte mediatica” che appare come uno strumento di potere e idolatria. Dove la morte biologica segna l’assenza, quella mediatica costruisce narrazioni, crea icone e stabilisce continui cicli di venerazione.
La celebrità del ‘900 fu la riemersione in tempi moderni della nascita della regalità, istituzione in cui sacro e profano sono stati sempre mescolati fino a non essere più distinguibili nell’idea stessa di spettacolarità. La figura del re sacro, lungi dall’avere un potere assoluto sui suoi sudditi era da essi controllato e venerato come una celebrità la cui gloria rappresentava la gloria del regno. Il concetto di regalità taumaturgica, studiato da Marc Bloch, offre un primo approccio alla figura del sovrano come entità dotata di poteri sacri e salvifici.
Nel Medioevo, il re era considerato capace di operare miracoli, come guarire dalla scrofola, grazie a un’aura divina che non apparteneva alla sua persona in senso stretto, ma alla funzione regale che non era più ereditaria e motivata da un ascendenza divina, bensì imposta dall’unzione del pontefice. Questo potere taumaturgico affermava il sovrano come mediatore tra umano e divino, tra realtà terrena e dimensione sacrale. La regalità taumaturgica non era dunque semplicemente un potere politico, ma una funzione sacrale che garantiva l’ordine e la salute del regno. Tale visione stabiliva il re come un “corpo sacro,” rendendolo una figura separata dai sudditi e dotata di una funzione sacerdotale, elevandolo al di sopra degli uomini comuni.
Questo ci porta alla teoria di Kantorowicz sui due corpi del re: corpo naturale e corpo politico. Se il re taumaturgo di Bloch incarnava già questa dimensione sacrale, il concetto dei due corpi formalizza tale dicotomia: il re, in quanto individuo, è mortale, ma in quanto re, incarna un “corpo politico” eterno e immutabile, un’istituzione che trascende la sua persona e che sopravvive alla sua morte fisica. Questa distinzione è necessaria per sostenere l’idea che la regalità, pur abitando un corpo umano, non sia limitata dai vincoli della mortalità. In questo modo, anche la morte del re non destabilizza il regno, poiché il “corpo politico” passa senza interruzioni al successore. La separazione tra il corpo fisico e quello istituzionale crea un paradosso: il re è allo stesso tempo sacro e sacrificabile, come il suo ruolo stesso richiede.
Questa logica si collega alla figura del re sacro di Nemi, descritta da Frazer, che illustra il ciclo rituale di morte e rinnovamento necessario per il potere. Nel culto di Diana a Nemi, il re-sacerdote doveva essere ucciso dal suo successore, rappresentando così una regalità fondata sul sacrificio. Il re sacro è il custode del potere, ma questo potere si rigenera solo attraverso la sua morte. L’istituzione sopravvive a condizione che il re sacrifichi la propria vita, riaffermando simbolicamente la continuità e la vitalità della comunità. La morte del re non è quindi una rottura dell’ordine, ma un elemento essenziale per la perpetuazione del ciclo del potere.
La celebrità, come il re sacro nelle antiche cosmologie, è definita dalla sua esposizione alla venerazione e al sacrificio. Questo ci conduce al cuore delle teorie della sovranità, dove il corpo del re – naturale e politico – diventa il fulcro del potere e della morte necessaria per la sua perpetuazione.
Analogamente al potere del re, quello della celebrità è inseparabile dalla sua esposizione al sacrificio. Nel mondo delle celebrità del Novecento, si ritrova questa dinamica nel culto dell’ascesa e della caduta pubblica. Attori, musicisti, politici — come Ronald Reagan, che confuse deliberatamente la linea tra attore e sovrano— erano venerati e sacrificati sull’altare della fama.
La figura del Presidente Kennedy può essere letta, dunque, come una modernizzazione di questi archetipi, specialmente nella cultura statunitense. Kennedy possedeva un’aura quasi messianica che ha segnato nella memoria collettiva. La sua morte in diretta televisiva – che ha colpito l’immaginario pubblico come un evento tragico e sacrificale – lo ha trasformato in un martire, un “re taumaturgo” la cui scomparsa, piuttosto che indebolire l’istituzione presidenziale, ne ha rafforzato il mito proprio nel momento di svuotamento di quel ruolo protettivo che gli Stati Uniti avevano ricoperto nella loro mitologia pubblica.
L’immagine del Presidente Kennedy si è scissa dopo l’assassinio: il corpo naturale è scomparso, ma il corpo politico, mitizzato e idealizzato, è rimasto eterno. Come il re taumaturgo, Kennedy si è trasformato in una figura sacrale, simbolo di speranza e rinnovamento per la nazione. Ma, come nel re di Nemi, questa sacralità si è nutrita del suo sacrificio: l’assassinio è diventato un momento fondativo, conferendo un’aura immortale e quasi redentrice alla sua figura e alla sua eredità politica.
In Kennedy ritroviamo la convergenza di questi paradigmi: taumaturgo, eroe sacrificale, re con due corpi. La sua morte non ha solo interrotto una vita umana, ma ha stabilito una frattura nella storia americana che ancora oggi plasma il culto della presidenza, generando una “morte mediatica” che ha ridefinito il concetto di potere. Come i re di cui parlano Bloch, Kantorowicz e Frazer, Kennedy è divenuto il simbolo di un potere che trascende il corpo fisico, rappresentando il sacrificio necessario per perpetuare il mito e garantire la continuità simbolica dell’autorità.
Nel moderno spettacolo mediatico, questa dimensione sacra si capovolge, e il sacrificio diventa non più rito di rinnovamento, ma produzione incessante di morte e consumo. L’era contemporanea segna un ritorno paradossale a un’epoca primitiva, in cui la distinzione tra uomo, animale e dio si sfuma, ricreando un animismo universale. La Columbine ha segnato l’inizio di quest’era, in cui il trauma collettivo è stato vissuto pubblicamente. Oggi, eventi come il COVID-19 o le guerre si intrecciano con storie personali condivise online, generando una “comunità del lutto” globale che ha sia potenziale catartico che rischi di saturazione emotiva e insensibilità.
La morte mediatica è più rapida, più intima e più frammentata rispetto ai tempi della Columbine. Le sue narrazioni oscillano tra l’empatia e il consumo voyeuristico, tra il sacro e il banale. Sebbene il paradigma della necrofilia culturale — il fascino per la morte come spettacolo — rimanga centrale, esso si è adattato a una società digitalizzata e iperconnessa, in cui ogni tragedia è al contempo evento globale e opportunità commerciale. Le vittime di tragedie violente e i loro carnefici sono trasformati in simboli culturali con una velocità prima impensabile. Tuttavia, l’iconizzazione è spesso effimera: nuove tragedie sovrascrivono rapidamente quelle passate, e il ciclo di attenzione pubblica si accorcia sempre più. La morte mediatica è diventata parte di una “economia dell’attenzione” sempre più frenetica. Un fenomeno inquietante che si è intensificato con la “gamificazione” della violenza, che premia l’esibizione della morte. Molti autori di stragi dichiarano esplicitamente di cercare fama mediatica o di superare il “record” di morti delle tragedie precedenti.
L’arrivo della società iperconnessa ha evidenziato ciò che i massacri mediatici avevano già mostrato, ossia le radici tanatologiche dello spettacolo, il suo spirito sanguinoso, che con i corpi e le immagini sacre delle celebrità ha contribuito a delineare una società gerarchizzata, una piramide di carne, in cui la base è formata da quella massa di anonimi, scissi in “apocalittici” e “integrati”, famosi e non famosi, cristiani e satanisti, fedeli e atei, progressisti e conservatori, tutti animali meccanici, forme secolari di quell’ultimo cristianesimo, il culto della celebrità mediatica, che Internet ha spazzato via con l’olimpo dei divi e delle dive dello star system.
Gorilla come Harambe, ippopotami pigmei, dittatori russi e nordcoreani, personaggi anime, comici-politici e comici-guerrieri, terroristi neri e fondamentalisti religiosi: tutti possono diventare icone mediatiche, venerati e sacrificati nel vortice della visibilità che assume sempre più i tratti di una macchina di morte. La morbosità moderna per la morte, provocata e subita, è la cifra dell’evoluzione dei media che presto saranno in grado di accogliere nella loro verosimiglianza la morte stessa, non come evento che può essere catturato casualmente dalla regia televisiva, ma come prodotto commerciale.