Recentemente, nella puntata 226 del podcast Tintoria, ho sentito Giorgio Montanini raccontare il suo rapporto con Daniele Luttazzi. Il primo è un comico marchigiano, classe 1977, tra i primi a fare standup in Italia e a chiamarla con questo nome. Il secondo, del ‘61, non appare pubblicamente da molto tempo e oggi ha una rubrica su Il Fatto Quotidiano, ma tra gli anni ’90 e i primi ‘00 è stato un comico molto amato in Italia, considerato un precursore del genere standup comedy, nel 2002 allontanato dalla tv pubblica per la sua satira contro il governo Berlusconi.
Rispondendo alla domanda ormai ricorrente che Rapone, uno dei due host del podcast, rivolge agli ospiti comici, a cui chiede quale sia stato il loro rapporto con Luttazzi, Montanini disegna un rapporto univoco: stima assoluta per il suo idolo, ispirazione e venerazione. Finché un giorno venne a conoscenza del video, pubblicato anonimamente in rete, Il meglio (non è) di Luttazzi, dove si dimostrava come molti monologhi del comico copiassero battute da diversi standup comedians americani poco conosciuti in Italia. Montanini racconta di aver vissuto quella rivelazione come un tradimento lacerante, una delusione assoluta a cui era seguita la rabbia per colui che ai suoi occhi era diventato “un criminale artistico”. Da qui in poi la storia diventa rocambolesca, a quel punto Luttazzi era sparito dai riflettori, Montanini aveva iniziato a colmare quel vuoto nella scena comica e a un certo punto era addirittura comparso in rete un “anonimo” dossier vendicativo di sessanta pagine proprio contro Montanini, a difesa di Luttazzi. Da lì è tutto talmente paradossale che quella iniziale venerazione si spegne in una risata amara.
Ogni volta che Rapone fa la domanda e poi prega pubblicamente, e con tenerezza, Luttazzi di andare ospite al podcast, mi suona come l’invito di un fan, prima che di un collega, che chiede alla sua star di riferimento di non deluderlo, di spiegare, di ricucire, di ritornare a quel mestiere che gli aveva dato la sua celebrità.
Questa storia mi fa pensare a quanto sia semplice passare da un lato all’altro del sottile filo che separa la fama dall’infamia e mi ricorda quando da piccola, nel mio mondo manicheo, conducevo personalmente un dossieraggio sui miei cantanti o attori preferiti per capire se fossero di destra o di sinistra, per sapere se potevo effettivamente stimarli o dovevano subire una violenta iconoclastia dal panteon dei miei poster.
Per quanto truce, la ferocia con cui certe immagini vengono distrutte è il contrappasso per la religiosità con cui vengono venerate. La necessità umana di avere degli eroi che assurgano alla fama per le loro gesta ha spesso deluso l’umanità stessa che vi aveva creduto, quando non l’ha animata con veri e propri moti e rivoluzioni, allo scoprire di questo o quel vizio dell’eroe nazionale, all’alzarsi di voce delle persone fino a quel momento oppresse proprio dalla personalità in questione. La celebrità sembra essere una condizione che corre su un dirupo pericoloso.In questo numero di Stanca parleremo proprio di celebrità: chi la vive, chi la concede, chi la incoraggia, chi ci lucra e chi ne fa le spese.
Scrivendo dello status contemporaneo di celebrità, abbiamo realizzato quanto fosse inevitabile parlare dei social network, governati da un algoritmo appositamente creato perché la fama cresca e la celebrità si plasmi. Ne parla Federica Ranocchia, che riflette su come l’informazione e la sensibilizzazione degli influ-attivisti e content creators abbia ridotto la manifestazione dei movimenti pro-Palestina del 5 ottobre a uno strumento come un altro per accrescere la propria celebrità. La riduzione della politica a una sorta di personal branding mortifica la complessità dei temi, uniforma le voci diverse dei movimenti che concretamente si dedicano alle cause e, in ultimo, individualizza le lotte collettive.
Giulia Cerrone propone invece un racconto dove la dipendenza da social della protagonista si manifesta in un climax ascendente di azioni che le danno fama, aumentano interazioni e followers, a costo di rinunciare ad autodeterminarsi e, in ultimo, a vivere.
Assumendo che le comunicazioni di massa sono il terreno più fertile per la creazione di miti, Giovanni Padua parla della rappresentazione pubblica della morte come strumento mitopoietico, di controllo, processo creatore di narrazioni e di celebrità. La morte mediatica trasmessa dalla televisione occidentale mostra e censura, cercando di muoversi nel sottile confine tra l’ammansire e il proteggere il pubblico, comunque non mirando mai a sovvertire un ordine, bensì a mantenere uno status quo. Diversamente, ma con uno stesso risultato, la spettacolarizzazione quasi cinematografica delle esecuzioni dell’Isis vuole arrivare senza censure a un pubblico quanto più vasto possibile, cercando di attribuire alla morte una forte funzione comunicativa.
Una comunicazione artefatta come legittimazione per la celebrità è il tema del pezzo di Vittoria Brachi. Brachi entra nel mondo delle mostre d’arte e demolisce il linguaggio artificiale dei curatori, che associano la costruzione della propria fama a un modo di esprimersi criptico e intellettualistico, assecondando una pulsione narcisistica che li fa venir meno al proprio dovere comunicativo verso il pubblico.
La creazione di celebrità come paradigma della società capitalista è quanto Francesca Martelli trae dalla sua riflessione sul KPOP. Martelli parla dei BTS e analizza il rapporto di adorazione tra le fanbases e gli idols della musica pop coreana. In un sistema di sfruttamento che somiglia molto a una moderna schiavitù capitalistica, i cantanti sono le vittime spinte a lavorare per un pubblico che diventa il loro stesso carnefice avanzando una domanda costante, a cui il “prodotto” dell’artista kpop deve rispondere.
In una dimensione più intima e personale sulle aspirazioni professionali, Franco Cimei intervista Leonardo Cococcia, musicista italiano e studente di Songwriting and Production al Berklee College di New York. Dalla conversazione vediamo sgretolarsi la ricerca della celebrità come status symbol, veniamo riportati in una dimensione artistica e di mestiere molto più reale rispetto a un astratto culto della fama. Nella sua dimensione concreta di musicista e studente tirocinante, Cococcia si riferisce a una costellazione di nomi, sale di registrazione e locali dove l’obiettivo non è riuscire a farcela, ma fare.
Fabio Ciancone si occupa di come possono essere raccontate le celebrità e confronta la biografia letteraria del poeta russo Eduard Limonov scritta da Emmanuel Carrère (Adelphi 2011) con il recente biopic cinematografico di Kirill Serebrennikov dedicato allo stesso personaggio. Ciancone propone una riflessione sulla fama dell’eroe, che cerca la fortuna intellettuale in compenetrazione con le proprie convinzioni politiche, in confronto con la ricerca di una celebrità sterile, fine a se stessa, che non cerca compromessi con l’identità politica perché semplicemente la cancella.
Alice Sibilio spiega come la fama delle donne sia figlia del sistema patriarcale e si trovi in balia principalmente delle aspettative culturali e sociali legate ai generi.
Loris Magro affronta il tema della fama e della mitomania nell’intervista a Roberto Mandracchia, autore dei romanzi L’implosivo (minimum fax, 2024), Don Chisciotte in Sicilia (minimum fax 2022) e Vita, morte e miracoli (Baldini e Castoldi 2014).