Il gioco – Editoriale

Il gioco – Editoriale
Immagine creata da Maia Evangelisti per il numero del gioco, 2024
[Tempo di lettura: 5 pignalenti]

Quando ho proposto un pezzo sul dinamismo alfabetico, i miei compagni di rivista hanno avuto troppa paura e mi hanno messa a fare l’editoriale. Che sciocchi. Poi mi sono incartata da sola: come avrei potuto spiegare a parole il significato del tema del mese? Io che ho sempre odiato giocare, perché la realtà era così limitante rispetto al gioco che sarebbe stata una fatica inutile impersonare situazioni e personaggi astratti che mai avrei avuto l’occasione di essere nel mondo reale.

Riflettendo sul tema, il gioco non è altro che la performatività che tutti noi esibiamo in ogni azione che facciamo. Siamo al bar e dobbiamo bere sembrando disinvolti, aspettiamo il treno alla fermata e dobbiamo far finta di non odiare il vicino che parla insistentemente al telefono. Guardiamo lo schermo dei nostri cellulari e osserviamo le presunte vite degli altri che giocano a condividere i migliori momenti della loro esistenza, anche quando sono una merda.

Se il gioco fosse solo finzione, e se la finzione fosse semplicemente impersonare un adulto che da grande vuole scrivere di mestiere, allora noi nove non siamo mai cresciuti e ci siamo ritrovati, bambini intrappolati in un corpo over 25, a giocare a “fare la rivista”. L’abbiamo reso un gioco talmente complicato che ci abbiamo inserito tutte le difficoltà di un sistema reale: le competenze approfondite che nessuno vuole sfruttare, l’affitto troppo alto per gli standard igienico sanitari, le paturnie del pranzo comunitario e i viaggi affollati vittime di sonnambuli o di musica non richiesta da telefoni altrui. È un impegno a lungo, lunghissimo termine che richiede una memoria considerevole. Ecco perché ho deciso di impegnarmi nel fortificare anche quella dei lettori.

Dato che siamo all’interno di un gioco, ecco le istruzioni. Come recita Ravensburger nella pagina dedicata, memory è “basato su regole semplici, ma intriganti”. Ogni volta che si trova una coppia di carte uguali, si accumula punteggio. Vince chi accumula più coppie. Forse è il gioco che, nella mia solitudine di figlia unica, ho apprezzato di più in estate: calmo, tranquillo, bassa competitività iniziale, finché non entrava in gioco, appunto, l’attenzione quindi la memoria, allora tutte quelle ore passate a osservare in silenzio senza farmi notare diventavano utilissime. “Chi non ricorda con un sorriso i momenti passati a giocare a memory® insieme agli amici o in famiglia?”, ma sappiamo che si può giocare anche da soli.

Ho deciso, però, di introdurre una piccola variante che proviene dalla teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein: così come il linguaggio è un processo simbolico in cui il significato è una forma di vita in continuo mutamento che funziona con regole diverse a seconda delle circostanze e delle intenzioni del parlante, non un dato univoco che si riferisce alle cose, anche le carte della memory stanca funzionano similmente: le carte possono essere raggruppate per famiglie, ogni criterio di raggruppamento può essere molteplice e vario, dunque, non esiste una gerarchia o un ordine con cui poter pescare la coppia di carte che non sia creato pubblicamente, tramite l’intersoggettività.

Il primo step del memory è forse quello più complicato: alzare due carte e sperare che siano una coppia di uguali con cui poter accumulare punteggio e continuare il proprio turno. Forse, più come cartomante che come giocatrice alzo la prima carta del mazzo, disposto a griglia in mezzo al tavolo: ce ne sono almeno 24, la prima parte da Platone. Sono molti gli elementi da tenere in considerazione nel pezzo di Marcello Conti, Gioco vs realismo capitalista. Una rilettura di Homo ludens, in cui l’autore analizza l’opera di Johan Huizinga del 1938. Partendo dall’analisi del filosofo sul significato del gioco nelle società umane, Conti evidenzia che la natura dell’uomo, ancor prima di essere razionalità, è puro gioco: “Il gioco è qualcosa che in tempi remoti si è inserito nel patrimonio di “cose” create dall’homo sapiens per sé stesso, alla stregua di, chessò, la scrittura, i riti funebri, lo stato o il marketing? Probabilmente no. A tutti sarà capitato di vedere dei gattini che fanno la lotta: si stava assistendo alla prova che il giocare non in sé è un fatto culturale.” Dunque, il gioco viene prima di tutto, prima della cultura e della razionalità, prima del bisogno di organizzazione che è proprio, ahimè, di quella gabbia in cui l’economia capitalista ci imprigiona. Il gioco è un atto di libertà non sconsiderato, che contiene un senso ben preciso deciso al di là delle logiche d’interesse. 

Per questo giocare è estremamente pericoloso: quando non siamo quelli che dovremmo essere nel mondo reale, ma ricopriamo un altro ruolo, dobbiamo essere sicuri della concatenazione di mosse che noi e i nostri avversari potremmo fare. Il protagonista del racconto di Francesco Logrippo si insinua in una conversazione scomoda sulla magica Roma in Un gioco pericoloso per diventare più disinvolto di fronte a quei ragazzoni romani “con il collo pulito e la barba medio-folta.” Dopo aver tentato il tutto per tutto puntando l’hype della conversazione sul calcio (sport che il nostro autore non segue), trovandosi di fronte alla stretta manovra a tenaglia di uno di questi abbronzatissimi signori, è costretto ad ammetterlo: non lo sa come si chiama il Capitano. Eppure, laddove il gioco stesso della memory stanca non ha un ordine con cui pescare e accoppiare le carte, anche qui un tatuaggio sul bicipite e il ricordo di un pomeriggio in libreria con uno sconosciuto, salvano il protagonista e lo portano addirittura verso il trionfo. È la coppia ideale del pezzo precedente, posso quindi proseguire con il mio turno e pescare un’altra carta. 

Eppure, alzando la memory successiva, noto un cortocircuito: Fabio Ciancone parla di calcio popolare. Attraverso la narrazione della finale di coppa Italia giocata dal Centro Storico Lebowski, l’autore ci accompagna verso il dietro le quinte di una partita, quando la passione, il talento e tutte le romanticherie del ragazzo prodigio di strada che porta la sua squadra verso la serie A svaniscono e lasciano il posto alle questioni di mercato. Affiancano la riflessione da una parte Il calcio è il popolo di Davide Ravan e dall’altra Storia popolare del calcio di Mikael Correia. Quali sono le regole del gioco, quando si scoprono le carte e si va a mettere mano su ciò che crudamente regge il mercato calcistico?

Antonio Bernardini viene in aiuto a questo dilemma e, come nei migliori plot twist di UNO!, cambia le regole del gioco, analizzandone il significato a partire da tre film del regista Giapponese Takeshi Kitano: Sonatine, Hana Bi e L’estate di Kikujiro. L’intento di Kitano è quello di dissacrare la malavita attraverso la comicità e il ridicolo, motivo per cui la yakuza diventa medium narrativo e ha un destino distruttivo in cui si rappresentano realtà e sogni dell’uomo, in cui il vero gioco è un insieme di regole invincibili. Il gioco è un rimedio universale che esorcizza il male di vivere. C’è sempre una scelta dettata dalla presa di libertà del personaggio che non ha più niente da perdere e “regredisce” all’infanzia per giocare con la morte o salvarsi momentaneamente dalla tragedia.

Rimangono due carte da scoprire, per cui, per l’ultimo giro, ci è concessa l’audacia di scoprirle contemporaneamente. Questa sembra far coppia con il dinamismo alfabetico: Alice Sagrati ci parla dell’eredità di Gianni Rodari a partire dall’ultimo libro di Vanessa Roghi, Un libro d’oro e d’argento. Sagrati ci parla di un’opera che Rodari decide di mettere per iscritto solo dopo anni: una grammatica come arte per inventare le storie. Due parole si scontrano, formando un binomio. Assistiamo a un atto di creazione genuino che, commenta l’autrice, forse non è stato ancora studiato a fondo perché i protagonisti sociali di quest’azione sono i bambini e le bambine che hanno un ruolo, nella società, subalterno, come quello del gioco, non ancora cultura, ma comunque non abbastanza trascendentale per essere metafisica.

Ed è proprio un concetto culturale a concludere questa partita e a intrecciarsi con il mezzo della recensione: Maria Giardina analizza nel suo pezzo il libro di James C. Ballard Un gioco da bambini, in cui si racconta di un massacro avvenuto in una residenza di campagna che ha come vittime i genitori di tredici ragazzi, scomparsi. Giardina trova in quest’opera l’occasione di riflettere contemporaneamente su due questioni che si rivelano legate tra loro: l’iperprotettività dei genitori e l’alienazione della società contemporanea.

Ecco, ci siamo: io ho giocato a fare il Calvino del Castello dei destini incrociati; non ci sono più carte da accoppiare, la maggior parte sono disposte in fila sul mio lato del tavolo. Che dire… ho vinto!

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