Un gioco pericoloso

Un gioco pericoloso
[Tempo di lettura: 6 pignalenti]

Quella sera mi trovavo in una bellissima casa nel centro storico di Roma. Piuttosto fuori perimetro, mi sentivo pervaso dalla classica sensazione di smarrimento. Per fortuna ero con Giorgio, detto “Giorgione” per via della sua stazza da giocatore di rugby e non, come verrebbe subito da pensare, per via del suo pene gigante che meticolosamente si annoda attorno al ginocchio prima di uscire di casa. Dopo aver superato il corridoio dalle pareti color panna, io e Giorgione ci ritrovammo nell’immenso terrazzo. Un modesto complesso suonava la tipica musica che senti come colonna sonora dei film porno soft. C’era persino un barista molto chic che preparava cocktail e versava whisky in bicchieri dal design ambizioso ma sobrio. Le persone conversavano tra loro stringendo in mano un flute, ridendo e divertendosi come se fosse il compleanno loro. Giorgione puntò col suo sguardo aquilino un gruppetto di persone che conosceva, posizionate accanto al bancone. Pezzi più o meno grossi della società di produzione per cui lavorava. Insisteva col dire che era la mia possibilità di ottenere un lavoro, se avessi giocato bene le mie carte.

– E’ tutta questione di pubbliche relazioni. – disse, scolandosi la prima di una lunga serie di
cedrate. Decidemmo di avvicinarci.
Salutammo tutti e io mi presentai con l’ausilio di serafiche strette di mano. Erano tre giovani adulti romani, eleganti ma non troppo, tutti con il collo pulito e la barba medio-folta. Iniziammo a conversare, cominciando col parlare del tempo e poi con qualche battutina facile sul catering. Proprio quando stavo per inserirmi all’interno del gruppetto dei “vincenti”, ecco che subentrò il primo ostacolo: la magica A.S.Roma e la partita disputata proprio il giorno prima.
C’è da fare una premessa: Io non seguo il calcio. Non ho detto che non mi piace, ho detto che non lo seguo, che è molto diverso. Lo specifico perché altrimenti potrei essere scambiato per uno snob, uno di quelli che chiama la figlia Zea o Morfea, che si fa i ghiaccioli da solo con il brodo congelato della nonna. Quella gente lì, ci siamo capiti.
Ad ogni modo, di solito cerco sempre di sviare l’argomento oppure piazzare lì quelle due
frasi che non mi fanno apparire come un esperto, beninteso, ma quel tanto che basta per
non fare la figura dell’insicuro. Giorgione, invece, in quanto registrato all’elenco ufficiale dei veri uomini, discuteva della vittoria della A.S. Roma senza risparmiarsi frecciatine sul nuovo allenatore, commenti a me incomprensibili ma che per gli altri suonavano esilaranti quanto veritieri. Pensai che ormai avevo assunto la stessa espressione fintamente presente per troppo tempo, quindi decisi di lanciarmi con un’opinione personale sull’ex allenatore.

– …Però Mourinho ha fatto il miracolo col Porto… se non ricordo male.. –
Puntuale, internazionale ed evasivo. Anche gli altri si trovavano d’accordo con me. Ti credo, avevo sentito questa frase in fila per il bagno al bar Calisto. Non potevo sbagliare.
Giorgione, però, non annuí, anzi, interruppe per qualche secondo la sua sciolta parlantina per fissarmi negli occhi. Quello sguardo aveva tutta l’aria di essere un ammonimento, un cartellino giallo.

– Scusatemi, ragazzuoli, io vado a far commuovere il brontosauro. Torno subito.
Prima di andarsene, Giorgione mi lanciò l’ultima fugace occhiata. Non ci volle molto per capire quello che stava a significare, e cioè: stai attento, amico mio. Ma, in quel momento, non me ne curai più di tanto fino a che uno dei giovani dalla barba fatta col goniometro mi rivolse la parola.

– Quindi, anche tu sei romanista.
Ora, io so benissimo che qua avrei potuto svagheggiare. Mettere le mani avanti: “Ma guarda, io non seguo il calcio, però la mia famiglia tifa Roma, i miei amici tifano Roma, sono un romanista adottato, diciamo.”
Alibi perfetto senonché dignitosissimo.
Ma io no.
Ho voluto rischiare.
– Mi chiedi se sono romanista? Beh, palese. – risposi io, con una sfacciataggine da terza elementare. Ma il mio atteggiamento così smargiasso attirò soltanto il loro scetticismo. Snasavano che c’era qualcosa di strano, qualcosa ben peggiore della iella del tifoso occasionale. Bensì, qualcuno che si stava prendendo gioco della loro squadra del cuore.
– Strano, – apostrofa il romanista. – non t’ho mai visto allo stadio.
Un’ottima osservazione, puntuale e affilata. Provvidenzialmente, mi venne incontro il ricordo di mio cugino al pranzo di Natale.
– Beh, da ragazzino ci andavo spesso, ma ora me la vedo sempre a casa con mio padre e mio nonno. E’ una sorta di nostra piccola tradizione, anche perché nonno ormai ha 97 anni…
Seppure un po’ troppo sdolcinata, era comunque una buona risposta. Ma quella sviolinata su mio nonno lo aveva innervosito e, da quel momento, cominciò ad incalzare.

– Prima partita vista allo stadio?
– Roma-Udinese.
– Di che anno?
– 1999/2000.
– Chi ha segnato?
– Nakata con uno stupendo pallonetto che, a onor del vero, mi sono perso perché proprio in
quel momento dovetti andare al bagno.
– Cosa ne pensi dello stemma?
– Era più bello prima, ma ora è più comprensibile ad un mercato internazionale.
Tutti muti.
Ero una cazzo di furia.
Dinanzi a me, immagini accavallate di parenti alticci, anziani ai tavolini del bar, amici commossi o infuriati, costruivano un mosaico perfetto di quello che era partito come uno squallido siparietto.
Il più barbuto e pacifico dei ragazzi romanisti, per frenare l’incontenibile serie di domande, cercò di riappacificare gli animi e interruppe l’amico.
– Vabbè, mo basta col terzo grado che mi sembrate mi madre!
Da tutti quanti si alzò una risatina di sollievo.

– A proposito. – disse un altro. – Non sapete che è successo a mia madre l’altro giorno: stava al ristorante con mia zia e accanto a lei s’è seduto niente popò di meno che il CAPITANO!
Il romanista finì la frase con la tipica “mano a cucchiara”, che consiste nell’appoggiare il palmo della mano destra alla bocca e serve appunto per enfatizzare il tuo enunciato.
Tutti si mostrarono eccitati, piacevolmente sorpresi.
Tutti, tranne io.
Essendomi montato la testa e avendo di conseguenza abbassato la guardia, abbozzai un timido sorriso spalancando un poco gli occhi.
E così mi tradii.
Il romanista che prima mi aveva interrogato senza successo colse al volo l’occasione.
– Dicci il nome del Capitano.
Tutti si misero a ridere e così feci anche io, malcelando il rivolo di sudore freddo che mi scendeva lungo la schiena. Ma lui, imperterrito, insistette.
– Non sto scherzando. Devi dire il nome del Capitano. Semplice.
Il mio castello di carte stava crollando e cominciai a farfugliare.
– Vabbè… l’hanno chiamato in mille modi… er Pupone… er Lupacchiotto…
Gli altri romanisti smisero di ridere e iniziarono a fissarmi sempre più incupiti.
– Non voglio i soprannomi. Ti ho chiesto il nome e il cognome. Allora?
Scacco matto.
– Non lo so -, risposi io, sommessamente, impressionando talmente tanto i romanisti che,
per reazione, sputarono tutto il moscow mule che stavano bevendo.
Si susseguirono fischi, cori ed espressioni indignate.
C’hai preso per il culo. A te non te ne frega un cazzo della “maggica”, non sai manco chi è Totti! – sbraitò il romanista più barbuto, ferito nell’orgoglio, per poi strapparsi di dosso la camicia mostrando il ritratto del fantomatico Capitano tatuato sull’intero petto.
– Tiè! Questo è Totti! Solo. Un. Capitano!
Ma ecco che in quel momento realizzai e riconobbi quei lineamenti di antica bellezza romana. “Adesso mi ricordo. Lo conosco… cioè, l’ho conosciuto…”
I romanisti si calmarono, curiosi di sentire la mia storia.

Conobbi Francesco in una piccola libreria del centro, frequentata da pochissime persone e anche un po’ difficile da trovare. Eravamo entrambi al reparto di letteratura russa ed è lì che mi venne incontro. Mi raccontò che era un atleta e nella vita non aveva letto molto, ecco perché voleva a tutti i costi recuperare i grandi classici. Mi chiese se, per iniziare, era meglio partire con Dostojevskij oppure Bulgakov. Ci innamorammo al primo sguardo. Restammo insieme tutto il pomeriggio nella sala da tè a parlare di noi. Cenammo insieme ed alzammo un po’ il gomito, così lui mi riportò a casa e, una volta arrivati, salì da me. Passammo la notte insieme, regalandoci momenti belli, buffi e anche romantici. Poi, mi rivelò che era sposato e che la nostra relazione non poteva avere futuro. Da quel giorno non lo rividi più, fino a stasera, tatuato sul seno di un giovane uomo di novanta chili.
I romanisti ascoltarono fino alla fine, ammutoliti.
Non solo loro, ma tutti i partecipanti alla festa erano senza parole, completamente rapiti da quel mio racconto. Anche la musica, di colpo, si era fermata.
Il più scettico di loro mi si avvicinò, fissandomi negli occhi.
D’un tratto, si girò verso il capolino di gente che oramai si era formato attorno a me. “Quest’uomo… si è scopato Totti”. Parole forti. Io avrei detto “ha fatto all’amore”. Però alla fine anche così rende il concetto. Subito dopo aver pronunciato quella frase, il romanista fece partire un contagioso applauso così partecipato da tramutarsi in una scrosciante standing ovation.
Mi portarono in trionfo. I romanisti barbuti mi alzarono in cielo, tra gli applausi e la commozione generale. Pervasi da un febbrile entusiasmo, tutti quanti scendemmo per strada, devastando, saccheggiando e appiccando piccoli incendi controllati.
Quando Giorgione uscì dal bagno, non c’era più nessuno.

Epilogo.
Adesso, io e i miei nuovi amici romanisti andiamo sempre allo stadio insieme, a volte persino
in curva sud. Quando esce fuori la mia liaison con Francesco Totti, mi offrono sempre il caffè borghetti e la cocaina. A proposito, questo fine settimana mi vedo con lui. Ci siamo sentiti e mi ha raccontato del suo divorzio. Penso che sia un po’ giù di morale.
Non ti preoccupare, tesoro.
Ora ci pensa mamma.

Condividi:
Leave a Comment

Comments

No comments yet. Why don’t you start the discussion?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *