Gioco vs. realismo capitalista. Una rilettura di Homo ludens

Gioco vs. realismo capitalista. Una rilettura di Homo ludens
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Partiamo da Platone. Scrive il filosofo nelle Leggi: «L’uomo è fatto per essere un giocattolo, strumento di Dio, e ciò è veramente la miglior cosa in lui. Egli deve, dunque, seguendo quella natura e giocando i più bei giochi, vivere la sua vita, proprio all’inverso di come fa ora». Secondo il nostro Platone, quindi, quando gioca l’essere umano sta compiendo il suo dovere.

Anzi no. Partiamo da prima ancora. Proviamo a chiederci: “quand’è che l’uomo ha iniziato a giocare?”. Domanda mal posta, perché implica che il gioco sia un fenomeno culturale tra tanti altri che, a un certo punto, abbiamo inventato. È così? Il gioco è qualcosa che in tempi remoti si è inserito nel patrimonio di “cose” create dall’homo sapiens per sé stesso, alla stregua di, chessò, la scrittura, i riti funebri, lo stato o il marketing? Probabilmente no. E a dimostrarlo è un argomento sempre valido quando si vuole verificare che qualcosa non ce la siamo inventata noi: lo fanno anche gli animali. A tutti sarà capitato di vedere dei gattini che fanno la lotta: si stava assistendo alla prova che il giocare non in sé è un fatto culturale.

Il gioco, dunque, viene prima della cultura. Il gioco, forse, nella storia dell’umanità viene prima di quasi tutto. È questa la tesi che si fa spazio tra le pagine di Homo ludens, un saggio del 1938 dello storico della cultura Johan Huizinga. E il titolo dovrebbe già suggerircelo: ancora prima di essere sapiens o faber l’uomo è ludens, un giocatore, un essere che sopra il gioco ha edificato intere civiltà. Solo che poi se ne è dimenticato.

Perché secondo Huizinga si può dire, riassumendo, che “il gioco viene prima della cultura” non soltanto nel senso che nasce cronologicamente prima (ancora prima della comparsa dell’uomo), ma anche in quello che la cultura deriva dal gioco. La caratteristica distintiva del gioco umano, infatti, è il suo immenso potenziale creativo. Il gioco non ce lo siamo inventati noi, però giocando abbiamo inventato tantissime cose.

Ma se il gioco è così importante, anzi così letteralmente fondamentale per la nostra civiltà, allora viene da domandarsi: cosa succede quando il legame primordiale tra gioco e società viene reciso? Cosa resta quando la dimensione ludica di una cultura viene meno e con essa le sue potenzialità creative? La risposta ce l’ha data forse Mark Fisher. La tesi che voglio sostenere qui, infatti, è che il realismo capitalista, così come il concetto viene definito da Fisher, sia un’ottima descrizione di una società privata della forza vitale del gioco. E che, viceversa, rimettere una certa attitudine ludica al centro della cultura potrebbe rappresentare un antidoto al realismo capitalista. Ma prima è necessario riprendere in mano Huizinga, rileggerlo per capire meglio cosa intendesse per gioco e come mai per lui avesse tanta importanza.

Homo ludens viene pubblicato nel 1938. All’epoca l’olandese Huizinga ha 66 anni ed è uno storico della cultura già piuttosto famoso in tutta Europa, soprattutto per i suoi studi sul tardo medioevo che circa due decenni prima erano confluiti nel libro Autunno del Medioevo. Ma Homo ludens non è solo il libro di uno storico. Fin dall’introduzione l’autore avverte che per scrivere un’opera simile è necessario «doversi arrischiare su diversi terreni […] Supplire prima a tutte le mancanze del mio sapere era escluso […] Per me si trattava di scrivere o non scrivere. E di una cosa che mi stava molto a cuore. Perciò ho scritto». Un azzardo, insomma, un modo di procedere che è – guarda un po’ – più del giocatore che dell’accademico.

Ma, dunque, esattamente cosa è il gioco secondo Huizinga? «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero». Il gioco sfugge da qualunque determinismo. È un fenomeno sovrabiologico, pertanto è qualcosa di non puramente naturale, né cultura né natura. Nel gioco c’è sempre qualcosa che va oltre al mero istinto: «è una funzione che contiene un senso». O, detto altrimenti, «ogni gioco significa qualche cosa». Per questo il giocare degli animali non solo dimostra l’essenza pre-culturale del gioco stesso, ma è anche un argomento efficace per confutare – se ce ne fosse bisogno – la teoria di Cartesio degli animali come macchine.

Come non è spiegabile da un determinismo biologico, il gioco non lo è neppure dalla razionalità o dalla logica dell’interesse. Il gioco è irrazionale e superfluo, una attività letteralmente fine a sé stessa. Ma se non risponde a necessità né biologiche né pratiche, allora perché si gioca? La risposta più semplice è “per il gusto del gioco”, che però è un concetto che, a sua volta, «resiste ad ogni analisi o interpretazione logica». Restiamo quindi nel campo dell’irrazionalità. Allo stesso modo in cui prova che gli altri animali non sono “meccanismi” agiti dalla natura, il gioco dimostra anche che noi non siamo esseri puramente raziocinanti.

Nel suo essere disinteressato il gioco si pone al di fuori della vita comune («Gioco non è la vita “ordinaria” o “vera”»). È come se giocare significasse mettere in pausa il resto dell’esistenza, staccarsi da essa. Proprio perché il gioco è isolato dal resto della vita un’altra delle sue caratteristiche fondamentali è il fatto che risulta sempre limitato nello spazio e nel tempo. «Il gioco comincia e a un certo momento è finito»; è una esperienza conclusa in sé. I giochi sono come isole dentro le nostre vite, all’interno delle quali le preoccupazioni materiali e pragmatiche quotidiane sono sospese per essere sostituite da fini che hanno senso solo all’interno del gioco.

All’interno dello spazio del gioco vigono regole precise, «esse determinano ciò che varrà dentro quel mondo temporaneo delimitato dal gioco stesso. Le regole del gioco sono assolutamente obbligatorie e inconfutabili». Il gioco è definito dalle sue regole, al punto che la loro palese violazione o messa in discussione comportano la sua fine. Per dirla con Paul Valery, «riguardo alle regole del gioco non è possibile lo scetticismo». Ciò che rende qualitativamente speciale lo spazio creato dal gioco, dunque, non è solo il fatto di essere separato dalla vita normale, ma anche dal suo essere precisamente regolato. Tra le caratteristiche del gioco si può quindi aggiungere che «esso crea un ordine, è ordine».

L’opposto del concetto di gioco è quello di serietà. Ma gioco-serietà non è una coppia antinomica perfettamente simmetrica. Tra i due termini, soltanto “gioco” ha un contenuto semantico positivo: perché, se è vero che serietà può essere definita negativamente come “non-gioco”, al contrario non si può considerare “non-serietà” una definizione esauriente di gioco, il quale peraltro non esclude necessariamente elementi di serietà.

Ma, definite le caratteristiche fondamentali del gioco secondo Huizinga, arriviamo a parlare del perché lo considera un elemento così importante per l’umanità. «Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme soprabiologiche che le conferiscono maggior valore. Con quei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo». È come se attraverso il gioco la vita sociale possa acquisire livelli ulteriori che altrimenti non esisterebbero; in quanto spazio speciale, separato dalla realtà comune, che contiene sempre un senso, può essere il laboratorio dove si aggiungono nuovi significati alle cose. Detto in altre parole, il gioco genera cultura. E, attenzione, per Huizinga questo non significa che il gioco può essere tra le possibili origini di un fenomeno culturale: per lui il gioco è il fatto primario da cui tutti i fatti culturali derivano. La tesi fondamentale di Homo ludens è questa: «la cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata».

In Giocare è un’arte del filosofo american C. Thi Nguyen, un libro recente che raccoglie molto di quanto si è scritto e pensato sul gioco da Huizinga ai giorni nostri, si legge, tra le altre cose, che l’attività ludica può essere un allenamento per la nostra agency personale. Giocando sperimentiamo nuovi modi di agire che magari non avremmo occasione di provare nella vita ordinaria e in questo modo arricchiamo il bagaglio personale di modalità agenziali conosciute e le nostre possibilità di azione aumentano. È come se entrando nel cerchio magico del gioco la nostra agency acquisisse una fluidità tale per cui possiamo plasmarla liberamente, farle prendere forme che difficilmente riusciremmo a darle fuori.

Ora immaginiamo quando a compiere questo processo non sono dei singoli individui, ma intere comunità. Pensiamo a un gruppo coeso che si ritrova nella possibilità di plasmare liberamente il proprio modo di agire e di dare significato alle cose senza limiti di “serietà” o di “realismo”; messa così non ci sembrano esagerate le potenzialità generative che Huizinga attribuisce al gioco. Né appare inverosimile che nei campi di gioco, reali o simbolici, affondino le loro radici tutti i fenomeni culturali, dai più elementari ai più complessi, come gli ordinamenti giuridici, le religioni, i sistemi filosofici.

Con questo non bisogna pensare che i giochi siano una sorta di fucina da cui sono emersi i fenomeni culturali come prodotti indipendenti, né che essi rappresentino un “salto evolutivo” dei giochi. Semplicemente, sostiene Huizinga, con l’evoluzione della cultura quelle che originariamente erano forme di gioco si cristallizzano in fatti culturali e l’elemento ludico è spinto in secondo piano o viene dimenticato. Nella fase arcaica delle culture la componente ludica è più evidente; quando la società si fa più complessa e stratificata la cultura tende a farsi più rigida e seria e la dimensione giocosa in genere finisce per restare sepolta.

Per questo nella lunga trattazione, che occupa buona parte del libro, in cui Huizinga illustra le radici ludiche dei diversi fenomeni culturali (diritto, guerra, sapere, poesia, mito, filosofia, arte: a ciascuno di questi ambiti è dedicato un capitolo), sono prese in considerazione soprattutto i costumi di società arcaiche, dove il legame gioco-cultura è più vitale e meno mediato.

Ma non manca di segnalare anche momenti storici in cui, pure in contesti più complessi, forme ancora riconoscibili come ludiche assumono una centralità determinante nel panorama culturale. Cosa era, ad esempio, il medievale amor cortese se non una sorta di grande gioco di ruolo a cui i nobili di corte erano chiamati a partecipare? Oppure, spostandoci avanti di qualche secolo, pensiamo all’Umanesimo, a questo gruppo di intellettuali che si vuole differenziare dalla ordinarietà del proprio tempo assumendo uno stile di vita rigorosamente formulato e che prova a imitare (cioè, gioca a rifare) l’antichità classica. O, ancora, al romanticismo, alla vita curata come una forma d’arte, non senza un certo grado di finzione e distacco ironico. Tutti contesti e periodi culturalmente molto fecondi, a dimostrare che, anche se le origini sono lontane, l’elemento ludico continua ad essere una linfa vitale per la cultura.

Ma nella rapida ricognizione con cui Huizinga ripercorre «culture e periodi sub specie ludi» la produttiva dialettica gioco-serietà nella cultura sembra incepparsi nell’Ottocento, epoca che «sembra lasciare poco posto alla funzione ludica come fattore nel processo culturale». La «fredda e prosaica nozione utilitaria», l’«ideale borghese di prosperità» la «crescente effettività tecnica» portata dalla rivoluzione industriale, sono tutte dominanti che spostano la cultura verso una rigida serietà, mentre «lavoro e produzione assurgono a ideale, anzi quasi a idolo». La razionalità economicista è, come qualunque forma di determinismo, antitetica al gioco, che infatti viene confinato ai margini e al privato, perde influenza. La cultura inizia a essere guidata da forze tutt’altro che ludiche e quindi non creative. Il che ci porta verso la nostra contemporaneità, dove «la cultura moderna non viene quasi più “giocata”, e là dove sembra giocare, il gioco è falso».

Non giocando più la collettività perde quella facoltà di arricchire la vita sociale di ulteriori livelli sovrabiologici e sovrarazionali. La visione condivisa del mondo si ritrova appiattita su un realismo “duro”, non plasmabile, senza sbocchi e senza possibilità di poter essere rielaborato o risignificato creativamente. Ed è qui che ci viene in aiuto la formula resa celebre da Mark Fisher: “realismo capitalista”. Per Fischer il realismo capitalista è «una atmosfera» che pervade la società occidentale contemporanea a tutti i livelli. La sua epitome è il motto thatcheriano “there is no alternative”. È una ideologia che pretende di non essere una ideologia, bensì una descrizione del mondo oggettiva e incontestabile, che impone l’esistente (il tardo capitalismo) come unica realtà possibile, escludendo qualunque alternativa dal novero delle possibilità praticabili o anche solo immaginabili. Insomma, è «una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione».

Il realismo capitalista è il mondo della serietà così come la intendeva Huizinga, cioè del non-gioco; è il grigio panorama che risulta quando il gioco viene escluso dalle forze che plasmano la società.

Perché il gioco è per l’appunto uno spazio creativo, dove le nuove possibilità possono essere effettivamente forgiate e testate; dove non c’è nessuna barriera dettata da un vero o presunto realismo a intralciarle. La serietà invece è sterile, è sempre un irrigidimento, una chiusura alle possibilità. Laddove il gioco viene confinato a puro hobby, cioè a frivolezza privata, mentre gli aspetti socialmente decisivi sono sempre ed esclusivamente ricondotti a una cornice di serietà ideologica, allora si perde qualunque apertura verso il nuovo.

Nelle prime pagine di Realismo capitalista Mark Fisher evoca proprio il senso di stagnazione mortale di un mondo in cui non si dà più il nuovo, in cui vige «l’idea che molto probabilmente il futuro non porterà altro che reiterazione e ripermutazione di quanto esiste già […] la tetra convinzione che niente di nuovo accadrà mai sul serio». Ma, si chiede Fisher, «senza il nuovo, quanto può durare una cultura?». Poco. Una cultura non irrorata da novità è come un arto a cui non giunge sangue, va in cancrena.

Per sopravvivere dovremo ricominciare a creare alternative. Il che significa ricominciare a giocare. Ricordarci che tutto ciò di cui è fatta la nostra società, anche ciò che si è irrigidito nella più asfissiante serietà è stato “dapprima giocato” e che dunque nuovi giochi possono rimettere tutto in discussione.

Il realismo capitalista è una visione del mondo insieme arrogante e rassegnata. È arrogante nella sua pretesa di poter comprendere e interpretare tutto, di poter appiattire tutto nella sua prospettiva di razionalità (o pseudo-razionalità) calcolante, di dare le risposte definitive su cosa sia possibile e cosa no. È rassegnato, anzi depresso, nel momento in cui «crede che qualsiasi stato positivo, qualsiasi speranza, non sia altro che un’illusione pericolosa».

L’idea di una cultura «fondata sulla nobiltà del gioco» come quella di cui ci parla Huizinga, invece, non solo apre alle possibilità e quindi alla speranza, ma induce anche a un’umiltà liberatoria. Se consideriamo la nostra limitatezza possiamo renderci conto che forse nulla ci giustifica a considerarci (sia come individui che come collettività) assolutamente seri. Nelle ultime pagine di Homo ludens si intravede l’abbozzo di un sentimento gioiosamente penitenziale, in cui al vecchio «tutto è vanità» si sostituisce un nuovo (e più sereno) «tutto è gioco». La vera serietà è fuori dalla nostra portata e quindi non ci resta che giocare. O, per riprendere Platone, vivere la nostra vita «giocando i più bei giochi».


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