Io sono come la mia casa

Io sono come la mia casa
Edward Hopper, Morning Sun (1952), c. Edward Hopper
[Tempo di lettura: 5 pignalenti]

Sulla sinistra c’è una minuscola mensola bianca, malamente aggrappata alla parete. Si nota sin dalla soglia di casa. Dalla mensola scivola verso il basso, senza mai cadere, un vecchio proiettore impolverato. Nei pochi altri centimetri di superficie libera, la mensola sostiene anche un rametto di pothos, infilato dentro a una beuta da laboratorio piena d’acqua. La beuta ha il collo molto lungo e stretto, non ha alcuna gradazione, solo i segni del tempo sul vetro lattiginoso. 

Il proiettore è uno dei tanti reperti archeologici di una convivenza dai contorni sbiaditi nella mia memoria. Col suo occhio tondo e scuro, quel fantasmagorico arnese sta lì a confondersi con la mensola. Come tutti gli altri reperti, anche il proiettore si trova esattamente dove è stato lasciato. La beuta che ospita il rametto, invece, tintinna ancora su quella piccola mensola affollata. Sapevo che sarebbe diventata un cimelio ed è diventata subito uno dei miei oggetti preferiti. Quando attira il mio sguardo, osservo pulsare nella mia mente quel ricordo di vetro velato di bianco. Qualche volta, mentre la osservo, mi ritrovo ancora a sorridere perché la chimica non la comprendo, non ne so niente, ma sapevo cosa fosse una beuta prima ancora che mi venisse regalata. 

Il rametto dentro la beuta proviene da un altro bilocale come quello in cui vivo. È una talea arrivata in questa casa dentro a una bottiglia di birra, il giorno del mio compleanno. Il rametto si radica alla vita succhiando acqua da filamenti sottili sul fondo della sua nuova casa e sembra che stia soffrendo. Le poche foglie rade tentano di non sfaldarsi, accartocciandosi in bozzoli verdi rattrappiti. Non sono sicura che sopravviverà.

Le piante in questo appartamento non durano più di tanto, mentre le formiche si trovano abbastanza bene. Hanno costruito il formicaio dentro al terrario, quando vivevano nell’appartamento del mio ex vicino. Lui adorava le formiche ma per via del lavoro, della carriera, dei soldi e delle occasioni da non perdere ha dovuto lasciare Milano all’improvviso e senza il suo terrario. Prima di partire, è entrato nel mio appartamento e ha indicato con lo sguardo uno degli ultimi ripiani del massiccio scaffale metallico in cucina. Subito dopo, con movimenti accorti, ci ha sistemato il terrario. Mi ha raccomandato di non spostarlo da lì perché sapeva essere la posizione ottimale: né all’ombra, né al sole e soprattutto fuori dalla portata della gatta che vive con me.  

Da quando le formiche sono qui, sembra che si stiano moltiplicando. Devo capire, prima o poi, se devo trasferirle in un altro terrario. A quel punto dovrò scoprire come convincerle ad abbandonare il loro vecchio mondo per uno nuovo, senza uccidere la formica regina. Lei è gigantesca, ha la pancia gonfia piena di uova e se ne sta immobile in una cella in fondo al formicaio. Attorno circolano le altre formiche, per nutrirla e proteggerla. Non so se qualcuna di loro è destinata a sviluppare le ali e non so nemmeno se preferiscono cibarsi di insetti morti o di semenze. So solo che quando sarò io a lasciare Milano queste formiche avranno bisogno di un’altra casa dove stare. 

Il terrario sullo scaffale della cucina rappresenta una delle tante scuse, sparse qua e là, che mi tengono legata al bilocale dove vivo da molto tempo. Ci sono troppe cose delle quali non riesco a liberarmi nemmeno nei miei ragionamenti e che ingombrano il salotto, la cucina a vista, il balconcino grigio, la camera da letto, il bagno blu e perfino la cantina. La maggior parte di queste cose sparse non sono nemmeno mie. Oltre ai mobili e a qualche quadro dei proprietari di casa, quasi tutto il resto è stato portato qui dentro da persone che non sono io, nel corso di questi lunghi anni. Dagli oggetti più piccoli agli elettrodomestici, la casa è cosparsa di tracce altrui, di ogni genere. Dal letto di camera mia si può vedere addirittura un calco in gesso bianco di un culo che appartiene ad un amore lontano.

Due anni fa, io e una donna, dalle gambe lunghissime e le sopracciglia tese sulla fronte rotonda, ridevamo di quel culo. Lei leggeva sempre prima di addormentarsi. Poi, dopo aver letto le ultime pagine, appoggiava il libro sull’unico comodino della camera, incastrato fra il letto e la porta a vetri. L’ultima notte che ha dormito con me ha lasciato sul comodino un libretto giallo dal titolo “Le cose” di Georges Perec, scritto in blu scuro. Non l’ho mai tolto da lì perché ancora non l’ho letto e temo che se dovessi infilarlo nella libreria non lo leggerò mai. Oltre al libretto giallo, per il resto, sul comodino ci sono molte cose mie, molte più tracce di me, che in tutto il resto della casa. In alcuni periodi, si accumulano svariati bicchieri, impilati ancora pieni. Di solito ci sono sempre i libri che sto leggendo, i libri che ho mollato, i libri che forse non leggerò mai, accendini scarichi, accendini carichi, un piccolo posacenere di ottone, una tazzina da caffè rubata dalla villa abbandonata di Monica Vitti e Michelangelo Antonioni. Quella tazzina è vecchissima. Ha la ceramica filata, scheggiata, sottile come vetro, ma non ha sfiorato le labbra di quei due mentre giravano Deserto Rosso, né è stata afferrata dalle mani di Tarkovskij o di altre divinità del cinema che frequentavano le coste al Nord della Sardegna, negli anni ‘70. Quella è solamente una tazzina qualsiasi, finita tra i rifiuti di chi ha occupato la villa per qualche avventura estiva.    

Fatta eccezione per il comodino, per il resto questa casa sta assumendo le sembianze di un memoriale. Cosa ci fa quella sciabola di plastica sotto il giradischi? Perché c’è ancora quella brocca rosa chiaro, piena di fiori secchi, sopra la libreria? Non mi piace nemmeno. Cosa devo farne dei poster con le illustrazioni di Buzzati, arrotolati dietro la scarpiera, senza che ci sia una parete libera dove appenderli? E quelle scarpe da lavoro di chi sono? Non lo ricordo più. Di mio, qui dentro, c’è la cenere delle sigarette, i capelli che perdo quando mangio troppo poco e i tappi delle Peroni con cui la gatta si diverte a giocare. 

Io sono come la mia casa, lascio che gli altri ci depositino dentro le loro cose. Così, le mensole si affollano, le sedie si nascondono, la casa cambia forma ed io con lei. Tutto il ciarpame, i ninnoli, gli orpelli, i memento, i cimeli e i tesori parlano in coro, come una sola coscienza, di un’esistenza abitata da altri. Sono io contaminata, snaturata, deformata e confusa con le vite delle persone e delle loro cose. Sono io che non riesco a lasciar andare, a trattenere solo l’essenziale e cambiare posto dove stare. Poi non saprei proprio dove trovarla un’altra casa del genere, con l’affitto bloccato a Pasteur, ora che è diventata NoLo, North of Loreto

C’è anche il problema della caparra. La gatta che condivide l’appartamento con me ha distrutto l’angolo in basso a sinistra della testata del letto, rivestita di un tessuto color panna super posh che io non ho mai tolto. Anche alcune parti del divano sono a brandelli, ma la gatta non ha fatto altri danni, mentre io, se guardi dentro al frigo, vedi che ho rotto l’ultimo ripiano in basso. Dietro al divano c’è un buco nel finto parquet, dal giorno che abbiamo testato il cemento a presa rapida, prima di una missione, fallita miseramente, nei pressi di Loreto, dal lato di Buenos Aires. 

Mi dicono che queste sono solo scuse, che tutto si aggiusta. Che ci vuole a tinteggiare le pareti, a rimpiazzare ciò che ho rotto, a buttare le cianfrusaglie e a regalare ciò che non mi serve più? Fare ordine, scegliere cosa tenere e cosa buttare, è catartico, mi dicono. Un antidoto superficiale per un’anima indolenzita. Come se bastasse levare via la polvere, fare spazio al nuovo, per interrompere il vortice che risucchia il cervello giù, verso lo sfintere. Alla fine, rispondo che preferisco scivolare senza cadere, come il vecchio proiettore sulla mensola. La pulizia è un concetto borghese, dico a chi propone di sostituire il caos con l’ordine. Ognuno sceglie la propria trappola e io ho scelto di restare ingarbugliata qui, in mezzo a questo cimitero di oggetti, insieme alla mia gatta e alla mia anima contaminata. 

Tanto, prima o poi me ne andrò via, sarò costretta a lasciare questo micro mondo, incastonano in quaranta metri quadri di superficie calpestabile. Qualcosa andrà perduto nel dimenticatoio per sempre, il resto verrà via con me, ma non oggi. Io sono come questa casa e ci resterò fino a che non vorrò diventare come gli altri, puliti e ordinati, tra mobili Ikea e stampe già incorniciate comprate su Amazon. Fuori c’è un tramonto al particolato, nell’aria odore di curcuma. Dal balconcino grigio entrano bagliori arancioni e viola. Forse dopo esco e, per il momento, mi sta bene così. 

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