La casa della nebbia

La casa della nebbia
Luigi Ghirri, Formigine, Ingresso casa colonica, 1988.
[Tempo di lettura: 7 pignalenti]

Aristotele è seduto di fronte alla sua scrivania. Pensa, ripensa, e poi per essere sicuro ci pensa una terza volta. Infine, decide di mettere tutto per iscritto. Dopo averci sbattuto la testa un numero considerevole di volte, giunge alla conclusione che il motivo per cui un sacco di cose, tra cui lui, sono testardamente incollate al suolo è perché sono composte per la maggior parte di terra, il cui luogo naturale è il punto più in basso possibile del mondo fisico. Con l’aria, invece, è tutta un’altra storia: Aristotele ricordava di quel bel pomeriggio passato al porto del Pireo, da bambino, quando durante una nuotata nell’Egeo si era chiesto perché le bolle d’aria non andassero a fondo nel mare come lui. Il motivo gli era finalmente balzato agli occhi come una tigre sulla preda: il luogo naturale dell’aria, la sua casa, è più in alto di quello della terra, e anche più in alto di quello dell’acqua, a quanto pareva, che si poneva in mezzo fra i due. Infine, c’era il fuoco, il cui luogo naturale doveva essere nel posto più alto, verso il cielo, se le fiamme del camino vi tendevano sempre con violenza inaudita. Per ogni elemento, secondo Aristotele, trovare la strada di casa era la cosa più naturale del mondo.

La sua teoria divenne familiare persino agli elementi stessi, i quali iniziarono purtroppo a guardarsi dall’alto in basso, in base alla posizione che occupavano in questa sorta di piramide elementale. Questo creò non pochi problemi ad alcune creature del regno dell’esistente, che solo con gran fatica si potrebbero assegnare ad un regno piuttosto che ad un altro. Il caso più famoso è certo quello della nebbia che, come tutti sanno, è formata da piccolissime gocce d’acqua, sospese però nell’aria. È impossibile capire se si tratti del tipico caso di un piede in due staffe o di quello di due piedi in una scarpa sola; fatto sta che gli elementi non riuscivano a sopportare questa sua quiete irriverente, la sua incapacità e la sua riluttanza nel decidere cosa volesse essere: aria o acqua, bianco o nero.

Si capisce bene perciò il suo disagio quando, dopo una dura giornata di lavoro, la nebbia doveva tornare a casa. I suoi genitori erano separati, tanto per cominciare, e pur abitando contigui, acqua e aria mal si sopportavano. Ad esempio, litigavano ogni giorno su chi tra i due fosse la causa delle broncopolmoniti: l’aria sosteneva che, se non ci si bagnasse, ogni brezza sarebbe solo piacevole; l’acqua replicava di non aver mai visto nessuno prendersi malanni dopo le necessarie abluzioni in casa, al riparo dalle correnti.

Per non scontentare nessuna delle due, la nebbia trascorreva il suo tempo visitandole a giorni alterni: ora stava in casa dell’aria, ora in quella dell’acqua, ma il clima non era mai sereno. In casa dell’aria si parlava da tempo di chiamare lo zio Scirocco, che con una ventata d’aria calda avrebbe potuto finalmente restituire la nebbia alla sua forma naturale, anche lei se non riusciva a capire cosa volesse dire ritornare a uno stato naturale. Nella sua atipicità, la nebbia ricordava d’essere stata sempre così, e mai un’altra, anche se non riusciva a definire bene cosa fosse questo “così”. Avrebbe voluto però capirlo, in modo tale da poterlo spiegare anche ai suoi parenti aeriformi ed essere lasciata in pace.

In casa dell’acqua le cose non andavano però meglio: qui si tentava un approccio più filosofico alla questione, poiché i suoi affini cercavano di persuaderla del fatto che se lei era formata da gocce, per quanto minuscole, allora voleva dire che il suo elemento era l’acqua, fine della questione. La nebbia non riusciva a raccapezzarsi in questo discorso, piuttosto incolore, come a dir la verità c’era proprio da aspettarsi dall’acqua, che solo per un inganno sembra essere blu.

La nebbia navigava a vista attraverso questa situazione spinosa, cercando di evitare risentimenti nei suoi confronti, provando a farsi trasparente e trascorrendo molte ore in solitudine. Un giorno, però, non bastò neanche tutto questo per conservare un certo quieto vivere. Le celebrazioni umane delle Artemisie erano in procinto di iniziare, e l’aria convinse la nebbia a recarsi al tempio della dea Artemide. Assieme, avrebbero regalato ai sacerdoti uno spettacolo indimenticabile: nel momento in cui i sacerdoti fossero entrati nel tempio per venerare la dea, la nebbia avrebbe dovuto nascondere dentro di sé la statua di Artemide, fin quando l’aria non fosse intervenuta con una leggera brezza a disvelare nuovamente, come un sipario che si dischiude, la sua gloria levigata. Alla nebbia, sempre così malinconica e nostalgica, l’idea piacque molto: fu infatti al riparo della sua grigia melassa, lo ricordava bene, che la dea Latona partorì Apollo e Artemide, sull’isola di Delo. La dea non li diede alla luce, perché la maledizione di Era le aveva impedito di partorire ovunque brillasse il sole; li diede così alla nebbia, che da quel momento vi rimase sempre affezionata, e perciò accettò felicemente di poter regalare ad Artemide uno spettacolo degno della sua divinità.

Nel giorno prefissato, l’aria e la nebbia si incontrarono nei pressi del tempio. Dopo aver ripassato assieme un’ultima volta la loro scena teatrale, la nebbia entrò finalmente nel santuario e circonfuse con amore la statua di Artemide, simulacro di una passata tenerezza. Ad attenderla, però, non ci furono i sacerdoti. Poco dopo il suo arrivo le torce presenti nel tempio iniziarono infatti ad aumentare vertiginosamente la potenza della loro fiamma. La temperatura divenne presto insostenibile e la nebbia all’improvviso si sentì morire, e sotto quel calore una parte di lei svanì per sempre. Spaesata, stretta nel soffocamento, la nebbia aspettò invano che l’aria sopraggiungesse a salvarla, incanalandosi tra le strettoie del tempio per affievolire la fiamma delle torce. Quando capì di essere rimasta sola, e appena prima che fosse troppo tardi, la nebbia riuscì a fuggire dalla fornace in cui era stata condotta.

Trovò l’aria dove l’aveva lasciata poco prima, a poca distanza dal tempio. Con flebile impeto, la nebbia le chiese perché non fosse intervenuta per salvarla. Ma l’aria non avrebbe potuto, perché era stata lei ad aver chiesto al fuoco di intervenire per riportare la nebbia allo stato a cui lei doveva appartenere, ad aver organizzato la trappola, ad aver spinto la nebbia nel tempio consapevole di che cosa sarebbe accaduto. L’aria confessò alla nebbia il suo piano di cui il fuoco, in un delirio d’onnipotenza, aveva deciso di farsi esecutore. Il fuoco era il più puro dei quattro elementi, e la nebbia sapeva di essere stata spesso oggetto del suo odio, perché rappresentava per lui nient’altro che una degradazione, un essere inferiore.

L’aria e il fuoco avevano cercato di trasformarla con la violenza; avevano cercato di ucciderla. Non era più possibile per lei rimanere tra gli elementi, che ormai da tempo immemore la ospitavano. Tutti i tentativi di farsi più piccola possibile affinché potessero dimenticarsi di lei erano falliti. Per loro lei era la nebbia, un’infezione opaca e lattiginosa, un semplice ostacolo, nulla di più. Così, quando l’aria confessò il suo piano, la nebbia si allontanò dal tempio e da tutti i luoghi familiari, abbandonando così per sempre la sua casa (ma lo era mai stata?) per cercare, altrove, un angolo di mondo che sapesse accoglierla. Pianse un po’ durante i primi giorni della sua fuga ma fu terapeutico, perché riuscì così a recuperare un po’ dei liquidi persi nella trappola. Una volta aveva origliato alcuni uomini consolarsi tra di loro dicendo che piangere aiutasse ad attraversare le sofferenze; ora poteva confermarlo anche lei.

Gli esseri umani le parvero, in ragione di questa e tante altre cose che aveva visto e sentito, le creature più sagge del pianeta. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se il primo luogo dove scelse di provare ad abitare fu in mezzo a loro. Fu però un fallimento: gli esseri umani tengono in gran considerazione l’acqua, con cui si lavano e dissetano, e naturalmente anche l’aria che respirano, ma questo strambo miscuglio proprio non riescono a capirlo, ad accettarlo, tanto che laddove possono lo evitano, preferendo sempre luoghi privi di nebbia; e se proprio non possono farne a meno, lo attraversano sempre con circospezione, sempre pensando che da un momento all’altro possano incontrare qualche brutta sorpresa. Anche gli esseri umani stavano meglio senza di lei, perciò la nebbia proseguì il suo cammino.

Dopo questo incontro poco piacevole, nel tentativo di evitarne altri, la nebbia decise allora di interrogare l’etere, la quintessenza eterna e trasparente dell’universo, da cui tutti gli altri si erano generati per corruzione. Si recò così in uno dei numerosi templi che gli elementi avevano costruito in onore dell’etere (perché non esiste nessuno senza dei) al fine di chiedere udienza. L’etere, dopo aver accolto la nebbia a colloquio, la invitò a non scoraggiarsi: la purezza e la non contaminazione erano sempre state le vere stranezze dell’universo, e ogni crocevia di elementi avrebbe trovato nel tempo, seppur con gran fatica, il proprio posto tra le strade del mondo. “Pensa alle tue sorelle del cielo, le nuvole”, le disse l’etere, “o al tuo fratello della terra, l’arcobaleno”.

La nebbia fu assai rinfrancata da quella conversazione; non a caso l’etere è l’anima del mondo, pensò, se sa così tante cose ed è così avveduta. Come tutti i consigli e le osservazioni che si avvicinano pericolosamente ai vaticini, tuttavia, anche questo venne mal interpretato. La nebbia credette infatti di poter e dover diventare una nuvola, o un arcobaleno, a suo piacimento insomma, se voleva trovare il suo posticino nel mondo. Purtroppo, come racconta una favola ebraica, i corvi non possono camminare come le colombe, pur essendo entrambi uccelli. La nebbia provò infatti a sollevarsi sino alle altezze delle sue sorelle, ma non ci riuscì: le nuvole la guardavano comunque dall’alto in basso, e difficilmente l’avrebbero accettata fra di loro. Provò allora a guadagnare i colori dell’arcobaleno, ma le sue goccioline erano troppo piccole per ottenere la tanto agognata rifrazione della luce.

La nebbia era inconsolabile. Aveva cercato in lungo e in largo, e non si era trovata. Decise così di ritirarsi per sempre dal mondo, tra i boschi delle montagne, per vivere una vita di solitudine, lontana dal disprezzo e dalla pietà. Mentre però si apprestava alla vita eremitica, la nebbia iniziò ignara a disegnare accenni di sempreverdi timidi e orgogliosi, mettendo in mostra solo le punte ed i loro rami migliori, lasciando all’immaginazione la dolce missione di completare quello sfoggio di profili. Tra i faggeti, nei punti in cui era più rada, la nebbia dava ospitalità alla luce disegnandone con innata sapienza i canovacci. Le cime delle montagne si trasformarono in un premio nascosto per i viandanti, ai quali la nebbia conservava la cieca sensualità della salita nell’aprirsi e nel dischiudersi tra gli scorci, e l’innocente letizia del traguardo. A chi non cercava tutte queste cose, la nebbia consentì semplicemente di riuscire a perdersi. 

Anche tutti gli elementi, con il tempo, si riappacificarono con lei, arrendendosi alla meraviglia che inesauribile sgorgava ovunque attraverso la sua presenza. Quasi senza accorgersene, la nebbia trovò così il suo posto, la sua casa, che però non era il bosco ma, in fondo, lei stessa; perché casa non è mai un posto, ma una condizione, e la nebbia si sentì finalmente a casa nella sua possibilità di intrecciare tra i boschi paesaggi di miopi bellezze, che si mostrano quando gli occhi non possono andare lontano. 

Una donna, mentre vigilava per la via del bosco sul sentiero che i suoi piedi intraprendevano, notò delle primule che sbocciavano.

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