Smettere di fumare

Smettere di fumare
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Sono stanca di smettere di fumare. Erano stanche anche le sigarette di me, di sentirmi raschiare con la gola e tossire stizzita che nemmeno la pubblicità dello sciroppo coi monaci benedettini con quell’attore sconosciuto che una volta Greta ha incontrato sul treno per Avezzano (era stato lui a dirgli che era proprio l’attore della pubblicità con i monaci benedettini).

Alla fine ho smesso? Insomma. Ora è il sapore del glicole propilene che mi infesta la bocca, quindi non si può dire che abbia smesso alla fine: svapo – ed è comunque una mistura chimica di liquidi più o meno densi che si fanno vettori della nicotina che entra in circolo e striscia fino ai precursori della dopamina ed ecco: posso tenere lo sguardo del tipo che ci sta provando con me all’aperitivo per almeno il doppio del tempo prima di trovare una scusa per andarmene in bagno.

Insomma non è che ho smesso: sono passata al digitale, mi sono evoluta, fumo con la batteria al litio. Ho smesso di smettere. Perché alla fine tutta questa storia dei polmoni spappolati sui pacchetti ha un po’ rotto i coglioni, lasciatemi morire. Possibile che preferiate il suicidio – It’s better to burn out than fade away – a questa roba del tenere lo sguardo della gente e poi dopo eventualmente – ma probabilmente di cancro – morire? È Freud lo so, sono stata allattata troppo a lungo e adesso ho sviluppato una compulsione orale enorme: è da quando sono piccola che trito le bic come un cazzo di castoro tossico e poi mi mangio l’interno delle guance e poi mi mordo le labbra e bruxo tutta la notte. Ma possibile che nessuno ha mai detto grazie alle sigarette?

Nemmeno un Buster Keaton – uno di quelli che non è che diceva alla vita no grazie questo giro lo passo. Le sigarette ci hanno dato la voglia di fare tardi per fumarsene un’altra, il dentro-fuori dai locali e tutte quelle chiacchiere strane da losco covo esoterico di circostanza, come lo sa un non fumatore di quello che si dicono i fumatori fuori dalla porta dei locali? Anche se sono lì proprio loro di persona non lo capiscono, o fanno finta di capire – annuiscono – ma vogliono rientrare, lo sanno tutti che vogliono solo rientrare o fumarsene una. Rezza ha detto in un’intervista: c’è qualcosa nella combustione, io alla combustione non so resistere – ma io posso fumare, voi no. L’ho preso in parola e ho provato a smettere tante volte, almeno da quando ho provato per la prima volta il brivido della dipendenza: quel senso lovecraftiano di abbandono cosmico, in cui tutti i corpi celesti e la tua casa e ogni singola persona che ti abbia mai amato è lontana anni luce – la distanza di una sigaretta. Autocombustione emotiva. Cenere che torna cenere.

Poi ricominciavo puntualmente ogni volta che mi sentivo un attimo più viva della media. Patologizzatemi, lo so: scalare la dose di nicotina, chewingum e bastoncini di liquirizia, lo so, ma se proprio non riesco a smettere aiutatemi a smettere di smettere. Ditemi soltanto: va tutto bene, ce ne fumiamo una io e te qua fuori, sono tua amica, ti voglio bene, abbracciami. Sono come il fumo che ti avvolge la faccia e un po’ ti fa male, contrae i bronchi e goccia dal naso ma è caldo, vivo e sinuoso come un serpente astrale traslucido, che ti sussurra parole di incomprensibile benessere, ti esce dalla bocca per morderti la faccia – Giotto lo sapeva in qualche modo come funziona quando ha disegnato l’avarizia – però sta sempre lì, cartina accendino filtro. E ti ama e tu ami lui.

Una volta un mio amico – eravamo fatti di funghi – mi ha detto: fumo, fù mo, FÙ MO. Poi si è guardato allo specchio e ha iniziato a piangere, il giorno dopo ha smesso. Tutta la sua vita di fumatore si era contratta in un solo momento, era troppo, la botta era ingestibile. L’ho rincontrato qualche mese dopo e aveva ricominciato. FÙ MO – mi ha detto -, fumo.

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