Chi decide sui corpi?

Chi decide sui corpi?
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L’ecografia, la pillola anticoncezionale, il test di gravidanza e le app di period tracking sono tecnologie che in epoca moderna si interfacciano quotidianamente con i corpi femminili,  spesso in modo più invasivo di quanto comunemente è percepito. Laura Tripaldi ne parla in Gender Tech, uscito nel 2023 per Laterza. Racconta le storie e descrive la natura di questi dispositivi, con delle aperture sulla propria esperienza personale che non diventano autobiografia né racconto egoriferito, permettono anzi un’empatia e una rabbia più vivide in una visione collettivista. E già questo basterebbe, è già più di quello che mediamente è conosciuto dalle utilizzatrici o destinatarie di quei trattamenti.

Ho letto il libro in un pomeriggio e mi ha lasciato una grande frustrazione, quella che di solito mi anima quando ascolto storie sulla negazione della libertà sessuale, riproduttiva e di cura delle donne. Ma non solo: mi è rimasto un senso di insoddisfazione e perplessità. Parlandone con un’amica, come una sorta di autocoscienza, realizzo che Tripaldi mi ha lasciato una consapevolezza più grande, che arriva solo dopo aver registrato tutte le nozioni specifiche che racconta, e che va oltre anche alla scoperta degli abusi razziali e di genere che spesso hanno accompagnato le conquiste della tecnologia; una consapevolezza che mi spiazza. Mi rendo conto che leggere Gender Tech ha contribuito a picconare il muro delle grandi certezze dell’educazione borghese, ha minato alla base il monolite della scienza e della medicina che già durante gli anni di pandemia si era rafforzato e allo stesso tempo aveva vacillato. La prevedibilità di una reazione chimica e la misurabilità di componenti, procedimenti e risultati non rendono la scienza un sapere oggettivo, non lo rendono insuscettibile a volontà, indirizzi ed esercizi di potere. 

Intanto, delle tecnologie prodotte dalla scienza facciamo esperienza anche e prima di tutto attraverso la loro narrazione, che è politica: l’esempio della pillola anticoncezionale è illuminante. Un dispositivo medico viene promosso come strumento di emancipazione, autodeterminazione e indipendenza sulle scelte riproduttive. Indubbiamente lo è e l’intento di Tripaldi non è certo demonizzarlo. Ma i contrasti sono stridenti: a partire dalle pubblicità statunitensi degli anni Sessanta che vendevano il prodotto come l’antidoto in grado di spezzare le catene delle donne, l’autrice spiega che per mettere a punto quello strumento di emancipazione per le donne bianche -cioè il target principale a cui era destinato- tra 1956 e 1959, in fase di testaggio, erano state sfruttate invece molte donne portoricane . 

La prospettiva da cui si guarda a questa tecnologia ne può cambiare radicalmente il significato: l’oppressione razziale non era solo relegata alla sperimentazione ed esercitata dai brevettatori, ma si manifestava anche nel fatto che chi temeva la “sostituzione etnica” incentivasse l’uso della pillola tra le donne nere per frenare la crescita della popolazione non bianca, mentre sulle donne bianche si esercitava una forte pressione riproduttiva. 

Si tratta della stessa politica che ha guidato l’oppressione delle donne inuit della Groenlandia, di cui qualche mese fa alcune testate italiane hanno iniziato a parlare. Sessantasette donne inuit, in rappresentanza di alcune migliaia di donne, hanno intentato una causa contro la Danimarca per aver ricevuto l’impianto della spirale contraccettiva senza consenso, al fine di controllare le nascite di quella popolazione, tra anni ‘60 e ‘70.

Oltre all’utilizzo politico della pillola, di controllo e fortemente legato alla storia e alla cultura dominante, Tripaldi sottolinea le contraddizioni più strettamente organiche e fisiologiche: tra i benefici viene ancora oggi venduto il potere regolatore che l’assunzione della pillola ha sul ciclo mestruale, istruendo le utilizzatrici (a cui nella quasi totalità manca un’adeguata educazione sessuale -riproduttiva- affettiva) a una nozione addirittura falsa sulla regolarizzazione del ciclo mestruale. L’assunzione della pillola infatti non regolarizza il ciclo, lo interrompe introducendo una mestruazione fittizia, per permettere alla donna di riconoscersi in una manifestazione organica regolare che valida l’essere donna in salute ma che sembra essere, dagli studi citati, sostanzialmente inutile a livello fisiologico. Aggiungerei alle riflessioni di Tripaldi che questa vera e propria strategia di marketing esplica il proprio successo nell’identificazione di questo dispositivo medico, la pillola anticoncezionale, con il sostantivo generico pillola. Di per sé, può essere pillola qualsiasi medicina in forma di pastiglia ingeribile per via orale, eppure se dici prendo la pillola, si sa che il farmaco è quello, l’anticoncezionale. Nella miriade di contraddizioni in cui questo dispositivo è inserito, definirlo pillola anticoncezionale sposta il focus su quella sua funzione, come se non intervenisse in nessun modo sull’organismo se non rendendoci libere da gravidanze indesiderate, con il risultato che chi lo assume rimane senza strumenti per comprendere cosa accade al proprio corpo. Dall’altra parte però, viene spesso offerto come regolatore ormonale e panacea di tutti i mali, come lifestyle drug che interviene su molti aspetti della vita della donna. 

Tripaldi mette nero su bianco l’esperienza che molte persone che hanno utilizzato la pillola hanno vissuto individualmente, creando un orizzonte collettivo in cui identificarsi. Analizzandone la storia, la creazione, la promozione, gli utilizzi e gli effetti contemporanei, dimostra come ciò che nell’esperienza quotidiana percepiamo come univoco e certo, del tutto chiaro, come uno strumento che interviene su un problema e a cui segue una soluzione, in realtà sia orientato e orientabile, sia frutto di scelte, sia strumento anche di controllo sui corpi.  Dunque si lacera il velo di maya che ha aleggiato sulle decisioni che abbiamo preso per tutta una vita, affidando le nostre valutazioni a esperti limitandoci perlopiù a stabilire se di quell’esperto ci si potesse fidare. Non è un discorso antiscientifico né mirato a mettere in discussione il ruolo professionale di medici e ricercatori. Piuttosto, fa interrogare su che ruolo attribuiamo noi alla scienza e alla medicina, cosa ci aspettiamo, se tendiamo a delegare a questi saperi una funzione risolvente senza volerli concepire come fenomeni complessi che non hanno solo una natura esclusivamente chimica. Le tecnologie di cui parla Tripaldi non sono strumenti esterni, imparziali e ingenerati quando si interfacciano con i nostri corpi: spesso ne determinano l’autopercezione e la lettura, arrivano a essere determinanti per riconoscersi.

Tutte le tecnologie che si sono sviluppate attorno al genere e alla sessualità hanno un rapporto molto complesso, nient’affatto lineare, con i corpi su cui agiscono. Sono dispositivi normalmente ambigui, perché la loro capacità di pronunciare la verità sul corpo si traduce nella possibilità di esercitare su di esso anche una forma di sorveglianza e di dominio. 

Laura Tripaldi, Gender Tech

Un altro grande argomento su cui si sofferma Tripaldi è il feto, la sua rappresentazione, l’utilizzo politico che è stato fatto della sua immagine. Gli antiabortisti invitano a vedere la realtà così com’è: osservare il feto ci convince che quella è vita, e abortire significherebbe ucciderla, sarebbe sbagliato. In questo ragionamento non si considera, come invece fa Tripaldi, che le rappresentazioni del feto sono solitamente staccate dal corpo della donna che lo genera. Il feto è tanto un corpo quanto la sua rappresentazione: è stato estratto dalla donna a cui era legato, ripulito, inserito in una soluzione, eventualmente fotografato, la sua immagine è editata, non è per niente la realtà così com’è. La rappresentazione del feto però non è solo quella del corpo astronauta e fluttuante come spesso compare nell’immaginario comune, ma anche quella che vediamo attraverso l’ecografia. Questa sposta il focus dalla «gravidanza come esperienza incarnata» alla sua rappresentazione e ne diventa narrazione per immagini. E il potere di queste ultime è innegabile: gli stessi antiabortisti ritengono che mostrare l’ecografia a una donna intenzionata ad abortire, o costringerla ad ascoltare il battito cardiaco del feto, possa farle cambiare idea, arrivando quindi a esercitare un potere psicologico coercitivo.

Qui è la questione della realtà che Tripaldi tira in campo: se è facile opporsi a chi sostiene per esempio, in nome della realtà dei corpi, che il genere non possa che rispecchiare il sesso biologico, o a chi sostiene che abortire sia uccidere il bambino mostrato dell’ecografia, è invece più difficile accettare che certe immagini  siano state costruite attraverso dei mezzi tecnologici e che quindi non siano realtà date e oggettive, ma frutto di un’ideologia, potenzialmente di un’oppressione. Non vuol dire questo dover andare alla ricerca della realtà vera, perché non necessariamente ce n’è una, ma dover cercare gli strumenti per sapersi orientare. 

Da qui arriva la rassicurazione di cui avevo bisogno quando ho iniziato a riflettere insieme alla mia amica sul testo di Tripaldi. Niente è da demonizzare, non tutto è da distruggere, ma è ormai chiaro che gli esercizi di scelta e autodeterminazione che molte di noi hanno compiuto nell’utilizzo di queste tecnologie si sono basati  su una realtà che non era la sola da dover prendere in considerazione, ma l’unica che conoscevamo.

La confusione in cui molte persone che utilizzano la pillola sono spesso immerse non è, quindi, un semplice problema di negligenza, ma la testimonianza che, tanto sul piano soggettivo quanto sul piano collettivo, il consenso informato delle donne su un trattamento farmacologico invasivo non è ritenuto davvero necessario davanti all’autorità di un sapere istituzionale che vorrebbe – ma in ultima battuta non può- decidere al posto loro. 

Laura Tripaldi, Gender Tech

Come dice ancora Tripaldi, epistemologia [è] un termine che si riferisce non tanto al contenuto della domanda “che cos’è” ma alle condizioni, materiali e culturali, che rendono la nostra conoscenza possibile. Questo libro apre molte domande, alle quali verrebbe da rispondere con altre domande ancora. Si realizza di nuovo che nessun campo del nostro vivere è neutrale, che tutto è politico, che i saperi a cui ci affidiamo oggi sono la superficie di un sostrato di storia e orientamenti, di scelte politiche e di esercizio di poteri. Siamo costrette alla fatica di mettere tutto in discussione, anche le cose che ci sembrano più oggettive e inscalfibili. Leggere Gender Tech è stato difficile ma liberatorio. 

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