Fuori dagli uffici: lo sfruttamento è smart

Fuori dagli uffici: lo sfruttamento è smart
[Tempo di lettura: 7 pignalenti]

Nello stretto quartiere gotico di Barcellona, l’appartamento triangolare Carrer Avinyó si staglia come un manifesto dell’evoluzione domestica dell’ultimo decennio. Realizzata dallo studio David Kohn Architects, l’abitazione incarna la transizione che ha trasformato la casa da rifugio del quotidiano a epicentro di intensa attività lavorativa, retribuita nell’ambito dello smart-working, gratuita come nel lavoro di cura familiare e nel prosuming – sempre più una forma contemporanea di corvée.

Il passaggio dalla Domus all’Officium si rivela nell’assenza dei corridoi e nella prevalenza di spazi aperti, dove pareti trasparenti o tende delineano confini fluidi e traslucidi, metafora della nostra privacy inesistente – anche in casa! In una tendenza che porta l’individuo a subire un obbligo alla visibilità, la stessa che viene imposta agli operai, costantemente sotto l’occhio vigile dei loro supervisori negli open space delle fabbriche.

Lo studio, un tempo il sancta sanctorum del padre-marito-lavoratore, è oggi diffuso in tutto l’ambiente domestico sovrapponendosi ad esso quasi integralmente. Le manager o le responsabili della comunicazione di una grande azienda si trovano sempre più spesso a dover presiedere all’ennesima riunione online e, allo stesso tempo, preparare la cena e badare ad un figlio piccolo.

È la situazione vissuta e raccontata su Real Life Mag dalla scrittrice statunitense Lydia Kiesling ma è la stessa dinamica vissuta da un decennio circa da molte madri e donne con una carriera lavorativa, costrette a ritornare tra le mura di casa per portare avanti il lavoro di cura.

“Ho iniziato a lavorare da casa come editor e scrittrice freelance”, scrive Kingsley, “perché mi sono resa conto di quanto fosse insostenibile l’equilibrio precario tra il lavorare in un ufficio, crescere un neonato e scrivere su internet”. L’articolo di Kiesling è del 2016 ed è la prova che la casa ha iniziato a cambiare ben prima dell’arrivo del covid-19.

La pandemia ha solo accelerato la flessibilità dell’attività lavorativa, dove con ‘flessibilità’ si deve intendere l’erosione inarrestabile degli spazi di socializzazione fino alla virtualizzazione completa dell’esperienza a partire dai luoghi fisici in cui essa era prima contenuta, l’ufficio come la piazza, la parrocchia come il vicinato.

Ogni centimetro dello spazio pubblico rischia di diventare ‘casa’ di qualcun altro.“Mi sono accorta che la mia agenda lavorativa e la lista delle cose da fare in casa coincidono: ho fissato un appuntamento dal medico, una scadenza, un colloquio online, c’è una “x” nel periodo in cui avrei dovuto ovulare”.

Un tempo dimensione di privacy e comfort, l’abitazione è oggi un nuovo luogo di isolamento ma non si tratta di uno di quegli eremi in cui staccarsi dal mondo. Al contrario in essa lo sfruttamento, il consumo, la registrazione e l’estrazione di dati tendono al loro apice. “Ora che non mi reco più in un ufficio ho come l’impressione che i miei conoscenti pensino che io non lavori davvero; a volte capita di pensarlo pure a me”.

Dentro la casa contemporanea l’essere umano non rientra più in una categoria ma è semplicemente un essere spersonalizzato, la casa che vive è diventata la sua postazione di lavoro, così il lavoratore diventa casalinga, subentra cioè a quel ruolo di cura domestica, non retribuito, che è trappola, a cui storicamente i ruoli di genere hanno condannato la donna.

La fusione di casa e ufficio che porta le dinamiche di oppressione ad un livello ancora maggiore di pervasività, in particolare per le donne, dà una nuova forma all’abitare, creando un’entità spaziale che annulla il tempo personale, confondendo i confini tra lavoro e vita privata.

La sperata libertà che avrebbe garantito il lavoro “intelligente” a distanza, si è oggi rivelata una trappola benefica. In questo ossimoro si condensa l’assurdità di un sistema che propone soluzioni per problemi che esso stesso genera. Affitti proibitivi lievitati a colpi di speculazione e crowdsourcing, sono il risultato dell’invasione predatoria di AirBnb.

A ciò si aggiunga il sapiente smantellamento del welfare pubblico, servizi un tempo scontati sono stati depotenziati favorendo come sempre la gestione del privato. Gli asili pubblici sono in costante diminuzione e in costante difficoltà, chi ha figli deve necessariamente fare i conti con tutto ciò.

Andare a vivere nel cuore del centro finanziario di una città che dia un minimo di chance di carriera è impossibile, non resta che il sacrificio laico della vita pendolare oppure scegliere lo smart working. ‘Scegliere’ è forse un verbo inappropriato: se non puoi permettertelo deciderai di rimanere a casa tua, nei confini liminari della provincia o nella brulla inurbanità di un borgo cittadino.

Lo smart working a ben guardare non è una scelta del lavoratore, si tratta di una tendenza centrifuga del capitale, non la soluzione ma la facciata latu humanitatis del problema. Lo smart worker non guadagna nulla ma perde tutto: gli viene strappata la possibilità del conflitto e della sindacalizzazione.

La precarizzazione del lavoro non ha infatti liberato il tempo libero degli esseri umani, al contrario essa si accompagna a un intenso dispendio di energia in nome di una produttività che, così immagina il precario, un giorno ripagherà gli sforzi profusi. Storditi dal workaholism, gli smart workers sono sempre più simili a batterie in funzione 18 ore al giorno.

La casa diventa così ufficio e in conseguenza di ciò lo spazio si complica, perché se prima si faceva in modo che la propria casa fosse quel locus amoenus in cui fuggire e spogliarsi dalle pressioni del dovere, ora è necessario fuggire anche tra gli spazi di casa propria, dagli altri componenti del nucleo familiare, dai coinquilini o da se stessi se si vive da soli.

È per questo che l’architettura interna ha preso il sopravvento, con camere da letto impilate come scatole cinesi, creando l’effetto di un’architettura dentro l’architettura. Questo raddoppiamento dello spazio domestico, alla ricerca di nascondigli e nicchie, riflette un’estetica barocca che addobba l’interiorità e non più le facciate esteriori del potere.

È un barocco massimalista che trasforma le pareti di casa in dispositivi di narrazione visiva della personalità di chi abita il luogo, l’identità personale deve fluire dalle pareti domestiche e ciò ha la funzione di preservare l’integrità di chi la abita: modellini, piante, i colori delle pareti e le fotografie fungono da segnatori di umanità, la loro funzione è quella di ricordare a chi visita o abita lo spazio che quella è una casa e non altro.

Il corridoio, un tempo arteria vitale della casa, passaggio verso i multiversi delle stanze viene oggi sacrificato per fare spazio ai due ambienti domestici che dominano la contemporaneità: il soggiorno e soprattutto la cucina, due poli che tendono a confondersi. Entrare in questi spazi fino a qualche decennio fa significava immergersi nei regni della convivialità e della gastronomia ma ora che hanno assorbito e ridisegnato le funzioni delle altre stanze anche la loro funzione è mutata.

Il bagno e la camera da letto hanno visto diminuire le loro superfici. Nel primo la doccia modello walk-in ha sostituito la vasca da bagno mentre la camera da letto assume i contorni di una stanza dormitorio, non più lo spazio sacro dove viene custodito il talamo nuziale di Odisseo e Penelope ma luogo di temporaneo riposo dal lavoro, più simile ad una cabina armadio, solo un po’ più grande del normale per fare spazio al letto. Dormire e provvedere alla propria igiene personale evidentemente valgono meno di mangiare e trascorrere ore sul divano.

È un riflesso dello spazio esterno, in cui i centri storici diventano sale ristoranti e le città d’arte vedono i propri edifici e la propria popolazione trasformata in opere mediatiche che diventano la materia grezza per produrre gli spettacoli che intrattengono i futuri turisti accomodati sui loro divani ad isola, sempre più simili a letti di morte, ognuno davanti al proprio laptop.

La diminuzione della superficie dei bagni e delle camere da letto corrisponde all’assenza di dormitori, docce pubbliche e alla ormai cronica emergenza abitativa che si manifesta nel paradosso di una massa di clochard e svariati invisibili a cui corrisponde una sterminata presenza di edifici privati e pubblici disabitati.

Il soggiorno e la cucina, però, non sono più gli stessi di un tempo. La società telematica ha impresso una trasformazione radicale: il divano si trasforma in un’isola di comfort individuale, una postazione per lo spettatore piuttosto che un luogo di dialogo e zona franca per gli ospiti.

La cucina come si è anticipato è la chiave della trasformazione contemporanea dello spazio domestico. Un tempo nascosta agli occhi indiscreti degli ospiti, ora emerge come il cuore pulsante della casa, tempio della società gastrointestinale del consumo, perché l’appartamento Carrer Avinyó è il riflesso della città che gli fa da cornice, Barcellona.

Casa e città si corrispondono sempre di più, il mondo interiore entra in un continuum omogeneo con il modo esterno, l’inconscio del focolare illumina a giorno la coscienza ai fornelli.

La cucina – un tempo cuore nascosto dell’abitazione – era stata trasformata in un terreno di battaglia dalla rivoluzionaria cucina modello Francoforte, ideata da Margarete Schütte-Lihotzky. Il design proto-femminista aveva capito che la funzionalità era la chiave per liberare la donna-madre-del-focolare, quindi ridefinendo gli spazi abitativi e gli oggetti d’uso casalingo era possibile avviare l’emancipazione femminile.

Se il lavoro casalingo veniva razionalizzato con il cronometro del taylorismo poteva iniziare il suo riconoscimento come professione a tutti gli effetti, il cui carico di lavoro necessitava di una regolamentazione che la prima architetta austriaca, Schütte-Lihotzky, fece iniziare dallo spazio in sé e dagli strumenti a disposizione della donna nelle sue mansioni domestiche.

Si tratta chiaramente di una battaglia emancipativa che deve essere letta alla luce della condizione di serva che caratterizzava le donne delle classi meno abbienti agli inizi del Novecento. La cucina progettata da Schütte-Lihotzky era tesa a massimizzare l’efficienza e razionalizzare l’estetica, liberando così il tempo libero delle donne, permettendo loro di poter evadere dalla prigione del focolare e del letto nuziale.

Dall’occultamento da cui l’aveva tirata fuori il design femminista, oggi la cucina domestica è persino luogo di performance pubblica, la scenografia per i contenuti digitali della food-sfera dell’intrattenimento online.

Nel 1979 Tania Modleski, della University of Southern California, nel suo saggio “The Search for Tomorrow in Today’s Soap Operas” (La ricerca del domani nelle soap opera di oggi) evidenzia come la soap opera televisiva fosse un sito ricco di informazioni sia sulle pratiche narrative che sulla vita delle donne.

La soap ha una forma femminile, nel senso che è stata modellata sulla donna che vive e lavora in casa. in questa forma, per Modleski si tratta di “un piacere narrativo unico”, come sottolinea Lydia Kingsley, una forma di intrattenimento che si accorda “strettamente con i ritmi della vita delle donne in casa”.

Le donne erano sì asservite alla “storia senza progressione” delle soap, ma per Modleski le casalinghe essendo immerse nella ripetizione dei lavori domestici non potevano interrompere il flusso economico – letteralmente governo della casa – per concentrarsi su una trama complessa e progressiva.

Le casalinghe trovavano nelle le soap opera un modo per aggirare la logorante routine senza nel frattempo pregiudicare la comprensione degli sviluppi della trama, con luoghi comuni costantemente ripetuti come le azioni della casalinga. “Come la madre (ideale) in casa”, scrive Modleski, anche noi abitanti della casa contemporanea “siamo tenuti incollati a una serie di eventi contemporaneamente e ci viene negato il lusso di un assorbimento totale e prolungato”.

“La cosa peggiore dei lavori domestici” scrive Lydia Kiesling, “è che non finiscono mai”. L’entropia che fa sì che “Non appena si mette tutto in ordine”, subito dopo “si sporca un piatto, o si lascia cadere il bucato in un angolo, o si lascia un bicchiere su un tavolo”, è ora condivisa dal lavoro che abbiamo portato tra le mura domestiche. C’è sempre una call da preparare, una presentazione da sistemare, una domanda da compilare, un articolo da finire.

Se le soap opera erano la forma adatta ai ritmi del lavoro domestico della casalinga, il binge watching e lo streaming delle piattaforme sono l’oppio della bestia oppressa dallo smart working. Anche il senso di colpa che sentiamo per la morbosità con cui divoriamo ore ed ore di serie tv che abbiamo già visto mille volte è radicato nella condizione della donna e dei lavori svolti in casa. È il senso di colpa di chi sente di non aver svolto pienamente il proprio dovere e in un’attività virtualmente infinita non può che esservi un senso di colpa infinito.

Condividi: