Guardare il presente del cinema

Guardare il presente del cinema
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“Baby, baby, you’re out of time”, cantano i Rolling Stones in uno snodo cruciale di C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino, quello che prelude alla notte fatidica dell’addio al cinema del fittizio protagonista Rick Dalton e dell’omicidio della vera Sharon Tate, per mano dei seguaci di Charles Manson. La fine di un’epoca, sembrerebbe dirci la canzone; e invece il regista si inventa un altro finale per la sua fiaba, sfruttando tutto il potere del suo universo nostalgico. I satanisti sbagliano casa e vengono tarantinescamente fatti fuori da Rick e dal suo factotum Cliff; così, mentre Sharon sopravvive, l’attore in declino vede spalancarsi davanti a sé il cancello della villa di Roman Polanski (che si può forse leggere come lo spalancarsi delle porte di un nuovo cinema, quella  “New Hollywood” della riscossa degli autori nei confronti delle grandi case di produzione e dei dettami dell’industria). 

Un po’ meno fantasiosi di Tarantino, periodicamente critici cinematografici e commentatori si cimentano in profonde speculazioni sullo stato di salute di quella che un tempo era definita “la settima arte”, finendo quasi sempre per decretarne la crisi, o addirittura vaticinarne la morte; tra i principali responsabili, di solito, si indica il mutamento delle abitudini sociali, oppure le nuove tecnologie, o ancora un percepito declino culturale del nostro tempo. Altrettanto foschi gli scenari tratteggiati per la critica cinematografica, che si presume ormai inutile e inascoltata nelle sue forme più complesse, soppiantata dai forum o dalle sezioni “Commenti” di siti e piattaforme. 

Spesso, però, a non essere nemmeno chiamato in causa da questi discorsi è proprio il cinema stesso, nella sua peculiare maniera di rispondere ad un bisogno di immagini che non sembra facilmente archiviabile. Il film d’altronde è un medium con caratteristiche definite, che lo differenziano da altre forme d’arte o di comunicazione visiva o non visiva. Un prodotto cinematografico non può esistere o essere tradotto in altra forma senza lasciare indietro alcune componenti del suo potere espressivo: in senso proprio, un film non ha un “contenuto” che possa darsi indipendentemente dal suo medium. 

Invece di procedere a ipotizzare cause, implicazioni e prospettive di un supposto tramonto del cinema “di una volta”, sarebbe perciò forse più sensato andare a guardare, per poi cercare di descrivere, come il cinema entra nei contesti mutevoli dell’esperienza contemporanea, e come si relaziona con gli altri media. Un contesto che si propone di portare avanti questo tipo di analisi è FilmTv, rivista indipendente che resiste in edicola come pubblicazione cartacea, oltre ad essere presente online con il proprio sito e anche in abbinamento a un forum e a un portale informativo sulla programmazione di canali tv e piattaforme. Abbiamo raggiunto il suo direttore Giulio Sangiorgio, critico cinematografico, insegnante e selezionatore in vari festival, per domandargli che cosa può rivelare il cinema di oggi ad uno sguardo capace di leggerne le immagini e come dovrebbe muoversi un simile sguardo.

Comincerei con una domanda proprio sull’andare al cinema, in senso letterale. Sembra innegabile che negli ultimi anni la tendenza, accelerata dalla pandemia, sia quella di recarsi molto meno in sala a vedere i film. Si tratta di un cambiamento che investe anche il nostro rapporto con il cinema in generale, e il modo che il cinema ha di pensare e rappresentare se stesso?

In generale, mi sembra che l’andare al cinema stia acquisendo una dimensione festiva e non più feriale, qualcosa di simile a un rito sociale o a un’occasione di incontro fuori casa. In quest’ottica, stanno funzionando abbastanza le proiezioni organizzate come veri e propri eventi, magari in presenza di attori o autori, o le uscite annunciate per una finestra temporale limitata, ad esempio di pochi giorni, oltre la quale il film non è più in circolazione. Anche ad un livello macroscopico, l’industria cinematografica stessa tende ad autorappresentarsi nella forma dell’evento, a comunicare come tali i propri prodotti: un esempio recente è stata l’uscita concomitante negli Stati Uniti di Barbie e Oppenheimer. Questo ci dice di un panorama industriale conscio del fatto che il cinema non ha più la stessa centralità che aveva nel secolo passato, sia per le nostre abitudini quotidiane che per la costruzione del nostro immaginario. La dimensione dell’evento si inscrive poi anche nella forma del testo filmico stesso. Sempre più spesso i film hanno una durata forte, e richiedono un’attenzione e una partecipazione che a casa risulta scomoda da mantenere; i blockbuster lavorano sul raggiungimento di un’accentuata immersività estetica, visiva e sonora, che indica implicitamente nella sala la loro giusta fruizione. In questo senso, Avatar è un prodotto emblematico: sembra muoversi allo stato dell’arte delle nuove tecnologie, ma al tempo stesso, nell’epoca delle piattaforme e della visione in streaming, chiede di essere visto al cinema, come fosse una sorta di avamposto a cui l’industria si affida per riportare le persone nelle sale. Non è d’altronde un caso che oggi molti film raccontino il progresso tecnologico con un fare moralistico, come a voler lanciare un monito verso i supposti pericoli del cambiamento. 

Le piattaforme di streaming che hai citato sono proprio una delle innovazioni che sembrano avere un ruolo nello svuotamento delle sale: oggi, in molti casi, non abbiamo più bisogno di uscire per avere accesso anche alle ultime novità cinematografiche. Al di là delle evidenti limitazioni tecniche, qual è la differenza tra l’esperienza di vedere un film a casa, su piattaforma, e quella di vederlo al cinema?

Quello della visione casalinga dei film resta un discorso imprendibile, che richiederebbe di approfondire la dimensione sociologica del nostro rapporto con la tecnologia. Con lo streaming, si può benissimo scegliere di guardare a casa anche quei film spettacolari di tre ore che sarebbero pensati per la sala, magari interrompendoli e vedendoli a più riprese come se fossero serie tv. Probabilmente si tratta di una visione più spezzettata e distratta, nel senso di un’esperienza in cui la visione non è centrale, ma è una sorta di “visione lounge”, di sottofondo. È forse anche una visione più pigra, che ti “arriva”, specialmente rispetto alla scelta di che cosa guardare. Nel contesto delle piattaforme ogni contenuto vale l’altro, perché le proposte sono gerarchizzate sulla base di criteri che hanno a che fare con le logiche della piattaforma stessa, piuttosto che con la qualità o l’autorialità dei film in sé. In quest’ottica, quello che guardiamo è essenzialmente mediato dalla piattaforma, e, se concordiamo sull’idea che il medium essenzialmente determina il messaggio, questa mediazione è un fatto tutt’altro che irrilevante: in qualche modo abbonarsi a Netflix è proprio guardare Netflix, non semplicemente guardare dei film.

Credi che l’influenza degli algoritmi e delle piattaforme sulla distribuzione dei film ci porterà, o ci sta già portando, verso un cinema sempre più conformista?

Io qui però allargherei il discorso oltre le piattaforme. Il cinema contemporaneo è in generale un cinema profondamente conformista, e non solo a causa dei meccanismi delle piattaforme, ma soprattutto in virtù di un paradosso: oggi il cinema è un’arte residuale, che però continua a muovere molti soldi. È rimasta un’industria pesante, ma senza più la centralità che aveva un tempo. Di conseguenza, quando un prodotto cinematografico di qualche tipo ha successo, subito genera ondate di omologazione. Se si considerano i maggiori incassi al botteghino americano degli ultimi anni, si nota subito come si tratti per la maggior parte di saghe, sequel o reboot. Da una prospettiva industriale, la moda del revival ha una logica molto precisa, che è quella del fan service: se un brand è andato bene nel passato, lo si ripropone per tutte quelle persone che lo hanno seguito al tempo o lo hanno scoperto successivamente. È un cinema che va a cercarsi un pubblico che c’è già, invece di inventarsi un pubblico nuovo. Un film reboot degli anni Ottanta, ad esempio, si rivolge ad un pubblico di quarantenni nostalgici degli anni Ottanta, proponendo una sorta di museo del tempo passato, ma in una versione edulcorata ed infantilizzata per attrarre anche i più giovani. D’altronde, la feticizzazione della nostalgia e la museificazione sono anche i tratti filosofici della cultura contemporanea.

Puoi spiegare meglio quest’ultimo pensiero?

Il contemporaneo, nelle sue diverse manifestazioni culturali, pensa sé stesso come se fosse la fine della Storia, e di conseguenza come se non ci fosse alternativa ad un continuo rimestare indietro nel tempo. Invece di cercare nuovi mondi e nuove esperienze, in uno slancio verso il differente, si propongono copie, riletture e ricombinazioni del passato. Si tratta di un’attitudine che può toccare vertici molto alti, come nel cinema di Tarantino, ma anche limitarsi a sfornare in serie prodotti di puro consumo, come i vari revival di cui parlavamo prima. Anche qui, è il cinema contemporaneo stesso a rivelarci questa museificazione. Il finale dell’ultimo film di Scream, saga horror finita nei primi anni duemila e riattivata recentemente come reboot, è ambientato proprio in un museo dove sono collezionati gli abiti degli episodi più vecchi. Ma anche Matrix Resurrections è pensato come revisione di Matrix, quasi una visita ad un museo di Matrix. Oppure pensiamo a tutte le riscritture dell’Overlook Hotel di Shining. In Ready Player One di Spielberg c’è un videogioco ambientato nell’Overlook Hotel; in Doctor Sleep, sequel di Shining, si ritorna all’Overlook Hotel; Spencer di Pablo Larraìn è un biopic che trasporta Lady Diana in una sorta di Overlook Hotel. Ancora una volta, vediamo come il messaggio è già nel medium stesso. 

Un’altra tecnologia che ha un po’ scalzato il primato del cinema nella produzione del nostro immaginario sono i social network. Con Instagram e TikTok siamo quotidianamente immersi in un flusso continuo di immagini, in mezzo al quale il cinema fatica a catturare l’attenzione del pubblico. Secondo te, per restare al passo con la contemporaneità e ritrovarvi un suo spazio, il cinema dovrebbe cercare di dialogare o interagire con le nuove immagini dei social? Se sì, come può farlo senza finire per snaturarsi o inseguire forme comunicative che non gli sono proprie? Penso ad esempio a quella che pare una recente tendenza di inserire nei film brevi scene di balletto (in un articolo del Post si citano come esempi il campione di incassi M3gan, oppure Mercoledì, una serie tv diretta però da un regista cinematografico come Tim Burton). Queste scene sembrano girate al solo scopo di essere estratte così come sono e diventare virali come TikTok o Instagram Reels. L’impressione, in certi casi, è quella che i film si limitino a cercare di scimmiottare il mondo dei social per fini esclusivamente commerciali o promozionali…

Su questo tema io non sono un apocalittico. Non credo che il tentativo del cinema di relazionarsi con altri tipi di immagini o altri mezzi di comunicazione, come i social network, debba essere visto in negativo; piuttosto, secondo me significa cercare di parlare la lingua del proprio tempo. Quello che fa la differenza tra adeguarsi e confrontarsi è una questione di sguardo, cioè il modo in cui il cinema fa proprie le immagini della contemporaneità. Ad esempio, un film come Spring Breakers, del regista statunitense Harmony Korine, fa sue alcune di queste immagini (si veda la recensione scritta da Ilaria Feole per FilmTv, ndr), ma nel farlo si pone come un oggetto perturbante, che non prende posizioni rassicuranti per lo spettatore; al contrario, non offrendo nessun genere di catarsi, infastidisce sia il buon gusto del cinefilo che quello del moralista. Il fatto è che nel mondo di oggi il cinema è diventato un’arte di reazione, nel senso che si trova a dover reagire alla pervasività di immagini molto più influenti di lui. E però, un cinema che si propone come una visione continuativa e non distratta, in cui l’esperienza della visione è importante, può anche usare le forme della contemporaneità per renderle cinema. È vero, espedienti come i balletti di M3gan o Mercoledì sono furbizie: servono a far vedere il prodotto a persone che altrimenti non l’avrebbero fatto senza la visibilità data dai social. Ma è vero anche che già per loro stessa natura il cinema e le serie televisive pensano il mondo in maniera diversa dalle immagini social. Mi spiego: cinema e serie costruiscono un mondo che per forza di cose ti porta a riflettere sulle immagini, perché ti ci espone davanti per tanto tempo; TikTok e Instagram invece sono basati sulla velocità di consumo, e i contenuti che propongono sono frammenti usa e getta. Intendiamoci, anche sui social è possibile trovare immagini che in qualche modo parlano una lingua affine a quella del cinema; ma proprio per questo, a maggior ragione, il cinema può essere uno strumento per capire e rielaborare quelle immagini che vediamo ogni giorno online. Quando decide di guardarsi intorno, di andare oltre se stesso, il medium cinematografico può creare una distanza critica rispetto alle immagini non cinematografiche, rendendo lo spettatore cosciente del fatto che sta guardando una certa immagine.

Che cosa significa essere un cinefilo oggi, in un panorama mediatico fatto di piattaforme streaming come Mubi e di pagine social e community online dedicate al cinema d’essai?

Si potrebbe dire che grazie alle nuove tecnologie la cinefilia non è mai stata diffusa come oggi, e mai come oggi ha avuto a disposizione così tanti mezzi e così tante possibilità; si tratta però di una cinefilia diversa rispetto al passato. La forma della cinefilia contemporanea è segnata dal medium oggi privilegiato per la fruizione dei film, e cioè la piattaforma di streaming; di conseguenza, è una cinefilia bulimica, più comoda rispetto al passato, che si fa arrivare i film sul feed invece di andarli a cercare, ma che al tempo stesso fa più fatica a gerarchizzare e a fare storia. Basti pensare a come oggi uno dei momenti cruciali per il cinefilo è la scelta di che cosa guardare in mezzo all’abbondanza dell’offerta, mentre anni fa quello che muoveva la cinefilia era un obiettivo preciso di vedere certi film, e l’impresa era trovare il modo di farlo. Anche nella pirateria c’era una componente di ricerca, quasi di avventura nel caso dello scambio o della duplicazione su supporti come il VHS import o i DVX: si doveva andare letteralmente a caccia di film anche molto rari o difficilmente reperibili. Dicendo questo, non intendo fare il passatista; il cambiamento di per sé non è ovviamente un male, è solo un rinnovamento, che non va guardato con occhio moralistico ma va comunque analizzato per comprendere la contemporaneità. D’altronde, il mito della disponibilità illimitata è soltanto un’illusione: avere tutto a portata di mano ottunde la spinta alla ricerca, di modo che quello che sta lì in piena vista spesso finisce per passare inosservato.

Qual è la tua idea sul tipo di lavoro che spetterebbe alla critica cinematografica?

Quella della critica è una questione centrale, che mi sta molto a cuore. Per come la vedo io, fare critica significa soppesare e capire le immagini, dare loro spazio e margine. Mi sembra essenziale quel che sosteneva Adorno, cioè che quando si valuta un’opera d’arte bisogna sempre fare quattro passi indietro rispetto ad essa. Il critico non deve essere nulla di più di una cassa di risonanza del testo, il luogo in cui il testo si riformula e si traduce, trovando una lingua che lo renda comprensibile agli altri. Questo modo di operare però è il contrario della logica del gusto soggettivo e dell’individualismo, che trovano espressione in pareri superficiali o provocazioni lanciate in 140 battute. Di fronte a questa logica oggi molto diffusa, anche la critica, come il cinema, deve in qualche modo essere reazionaria, deve cioè fare l’opposto: far parlare il testo, invece di far parlare soltanto l’io di chi scrive. Beninteso, si può anche pensare la critica in un modo diverso dal mio e attribuirle una funzione di guida, fondata sulla capacità persuasiva di un certo modello o di una certa opinione. Da questo punto di vista, la critica di oggi non è molto distante dal tempo in cui grandi pensatori stroncavano film a destra e a manca poiché mettevano il loro misurino su ciò di cui scrivevano. Se però non vuole limitarsi unicamente al giudizio personale, chi fa critica deve possedere strumenti ampi che permettano di dar conto di cos’è un certo testo filmico e di che cosa può dire: non limitarsi alla conoscenza della storia del cinema, ma muoversi tra filosofia, estetica, sociologia, e avere familiarità con i meccanismi della produzione e dell’industria cinematografica. Quando nei corsi cerco di formare delle persone, dico loro che la sfida più grande è riconoscere e descrivere che cos’è il testo che hanno di fronte; il guizzo critico, se ci sta, lo si mette dopo. Spesso, infatti, mi sembra che la valutazione soggettiva soverchi persino il riconoscimento del testo, mentre per orientarsi in mezzo a tutte le immagini della contemporaneità ci sarebbe bisogno di una critica che sia in grado di guardarle, queste immagini, invece di guardare solo se stessa.

Credi che in passato la critica funzionasse meglio o avesse più spazio rispetto al presente? Che differenze vedi tra ieri e oggi?

La critica è sempre stata una nicchia, e un tempo aveva probabilmente anche meno lettori di oggi, ma riusciva a fare discorso perché i creatori di immagini erano interessati a riflettere e a discutere su di esse. Oggi il nesso che manca non è tra la critica e il pubblico, perché il pubblico dei cinefili esiste ancora ed è sempre interessato a leggere buone recensioni; a mancare è il dialogo tra la critica e chi fa le immagini, da regista o da sceneggiatore. Questo però accade anche perché la critica oggi si trova dispersa in mezzo a tante altre forme di opinione che non arrivano ad essere delle vere e proprie riflessioni sulle immagini. Mi sembra che oggi ci sia poca critica a fronte di moltissime recensioni e classifiche che puntano sulla visibilità, sull’immediatezza e sulla polarizzazione. Anche in questo caso è una questione di medium e di capitale: queste forme di scrittura funzionano perché si lasciano consumare velocemente, attirano molti click, e perciò si continua a proporle. Quando erano sostenibili forme più colte e più lente, la critica aveva più spazio di manovra. Detto questo, però, non bisogna fossilizzarsi sul passato, ma è necessario essere dentro al proprio tempo. Una critica che si prenda la responsabilità della storia del cinema deve non solo conoscere i film e il pensiero di un tempo, ma anche la contemporaneità e il suo cinema, per poter gerarchizzare e canonizzare i nuovi prodotti in base a quanto muovono quella storia, a quanto fanno progresso. Deve chiedersi se un film inventa nuove forme espressive, se sposa le forme del proprio tempo o se invece ripropone forme non più attuali. 

Questo significa anche valutare i film in base alle categorie ideologiche, morali o culturali che strutturano molti dibattiti contemporanei, ad esempio nella rappresentazione che danno di certi gruppi di persone o certe minoranze, o della loro inclusività rispetto ad essi?

Non proprio, perché la morale o l’ideologia hanno in sé una certa misura di ottusità, di chiusura apodittica. Chi fa critica, al contrario, deve essere una persona il più possibile aperta: non può capire l’evoluzione delle forme espressive, se cerca di cristallizzarle. È sicuramente vero che quando si agisce per cambiare le cose bisogna essere un po’ ottusi in questo senso. Il movimento MeToo ha alcune derive di ottusità, ma per modificare la realtà esistente bisogna essere violenti. La critica però deve fare una cosa diversa: valutare il testo, non gli effetti che ha sui dibattiti in corso al di là del suo valore in quanto testo. Una buona recensione critica di un film deve rispondere unicamente al film stesso, che a sua volta deve confermare quello che si è scritto. Giustamente, c’è tutta una serie di dibattiti culturali che prende forma nei prodotti cinematografici di oggi, ad esempio in quelli dove si cerca di dare a determinate minoranze una loro rappresentanza. Quando si critica questi film, però, bisogna cercare di distinguere i diversi piani, mettere in luce la complessità del testo.

Mi puoi fare un esempio di come si dovrebbe valutare un film con una tematica considerata “difficile”? Ad esempio, tempo fa nel tuo editoriale di apertura su FilmTv proponevi una lettura particolare del film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, partendo dall’analisi che ne fa D. A. Miller nel suo libro Bellissimo

Le questioni che Miller pone nella sua lettura hanno indubbiamente un riscontro nel testo del film di Guadagnino: perché vengono mostrati solo i rapporti eterosessuali, e non quelli omosessuali? Perché gli omosessuali sono rappresentati soltanto attraverso figure vicarie? Perché, al momento di mettere in scena il rapporto tra uomini, la macchina da presa si sposta e inquadra il panorama alla finestra? Il testo sembra confermare l’idea di Miller che siamo di fronte ad un film “bellissimo” e curato in ogni dettaglio, venduto come una storia d’amore universale in cui però, di fatto, la particolarità dell’esperienza queer è cancellata. Quello che io volevo aggiungere nel mio intervento è che non per forza questi aspetti devono essere visti come difetti: mentre infatti quella di Miller è a tutti gli effetti una stroncatura, la mia non lo è. In qualche modo, e qui concordo con Miller, Guadagnino fa un film in cui il desiderio del protagonista è gestito dai genitori, che creano un’ambiente asettico e controllato dove fargli provare l’ebbrezza dell’omosessualità, salvo poi alla fine negargli questo desiderio, perché nel mondo là fuori esso non ha diritto di esistere. In quest’ottica, Chiamami col tuo nome è un film terrificante sulla famiglia italiana e sul neoliberalismo progressista, un vero e proprio horror; non lo avevo mai inteso così, prima di leggere Bellissimo. Ma chi ci dice che, nel discorso vuoto e retorico pronunciato dal padre e nel successivo pianto finale del protagonista, Guadagnino non ci stia consapevolmente proponendo questa chiave di lettura? Che non stia lavorando su più piani? Bisogna saper riconoscere che un testo può esprimere cose contraddittorie. Con la sua ricercatezza estetica, Chiamami col tuo nome aiuta di fatto la rappresentazione dell’omosessualità nel mainstream? Sì. É un incubo sul progressismo ipocrita dell’alta borghesia? Anche. È un film molto più complesso di quanto non sia stato venduto, e una buona critica deve dar senso a questa complessità prendendo in esame tutte le sue dimensioni. Limitarsi a dire che per questa o quella ragione il contenuto di un film è brutto o bello, oppure giusto o sbagliato, secondo me non ha molto senso. 

Ci puoi raccontare qualcosa sul progetto editoriale dietro alla tua rivista FilmTv e al sito che le è collegato?

FilmTv è nata nel 1993 come guida televisiva per cinefili, sul modello della rivista tedesca Tv Spielfilm.  Era strutturata in una parte informativa e in una parte con le schede approfondite dei film trasmessi in televisione. Nel tempo l’editoria e il cinema sono molto cambiati, ed è cambiato di conseguenza anche il senso di fare una rivista cartacea. Oggi sarebbe assurdo fare FilmTv come la si faceva al tempo: sarebbe una rivista inutile, perché le informazioni che si trovano sulle sue pagine sono già state ricevute con altri mezzi. Quello che cerco di fare, perciò, è usare la rivista per fare critica e storia del cinema, raccontare storie, ampliare l’agenda delle notizie già date in altri luoghi. Da un lato, FilmTv mantiene un obiettivo di guida, perché offre una mappatura dell’esistente, proponendo recensioni di tutti i film presenti al cinema, in televisione e sulle piattaforme. Dall’altro, l’ambizione è anche quella di fare gerarchia in questo panorama: quando affrontiamo qualcosa in un certo modo, quando le dedichiamo più o meno o spazio, o la includiamo tra le nostre scelte, stiamo implicitamente suggerendo ai lettori che cosa secondo noi vale la pena scegliere. Credo che mai come oggi ci sia bisogno di intermediari, per orientarsi in una produzione velocissima in cui le immagini si bruciano velocemente. Quindi fare una rivista di carta oggi per me significa chiedere alle persone di spendere tre euro in edicola, e in cambio far trovare loro un oggetto biforcuto, guida e giornale di critica insieme, che ospita firme qualificate e di diversa formazione. Sul sito filmtv.it, invece, è attiva una community vasta di cinefili che hanno voglia di scrivere e confrontarsi fuori dalla logica un po’ aggressiva del social network. É una sorta di luogo a sé, che fa da controcanto alla rivista: se là ci sono critici di professione, qua c’è un laboratorio di idee valevoli aperto al contributo dei non professionisti.

Per chiudere, c’è un film, recente o meno, che consiglieresti di vedere per continuare a riflettere sulle questioni di cui abbiamo parlato in questa intervista?

“Bussano alla porta” di M. Night Shyamalan. Cito lui perché è un regista che fa cinema per il grande pubblico, ma è anche indubbiamente un autore che porta avanti un discorso sull’immagine e sulla sua percezione. Tutti i suoi film chiedono una verifica del modo in cui si leggono le immagini, mettendo costantemente alla prova lo spettatore. “Bussano alla porta” dice tantissimo sul contemporaneo e, in generale, sulla complessità che chiunque voglia fare critica deve imparare a maneggiare.

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