Il futuro della ginecologia è punk – intervista a Giulia Tomasello

Il futuro della ginecologia è punk – intervista a Giulia Tomasello
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Il 6 dicembre del 2022 il collettivo transfemminista Witches Are Back pubblica un post che titola in un violetto rassicurante: Porta i tuoi fluidi intimi! – poi continua in caps-lock – istruzioni per la raccolta e conserva. Le Witches Are Back sono un collettivo di artistɜ streghe che una volta all’anno si riunisce al Forte Prenestino – il famoso centro sociale romano che ha sede nel quartiere di Centocelle – per un grande evento collettivo, ma non è di loro che parla questo articolo. Quel martedì il post era stato pubblicato in collaborazione con un altro collettivo: Bruixes-Lab. L’infografica continuava nella sua palette pastellata a dare informazioni su come raccogliere e conservare sperma e fluidi vaginali così da portarli a un workshop (che si terrà al Forte il 9 dicembre di quell’anno, durante l’evento delle W.A.B.) che – cito dalla descrizione del post – prometteva: imparerai a crescere cristalli di sangue mestruale, bio-tessuti di alginato sensibili al cambiamento di pH dei fluidi e ad osservare ad occhio nudo le microflore intime. Avevano la mia completa attenzione. Per me che sono a Roma da poco il Forte è ancora un posto totalmente esoterico, immaginavo le Witches Are Back come le sue streghe officianti ed ero sicuro che tra di loro le Bruixes-Lab sarebbero state quelle che stavano lì a girare il calderone delle fatture. Vado sulla pagina Instagram del loro collettivo e tra un mosaico di immagini di piastre Petri e coltivazioni organiche che formano strane simbologie carnose leggo nella loro bio: nomadic lab of biohacking, s3xtech and witchcraft rituals. Il collettivo è composto da Cristina Dezi, designer, costumista e regista sperimentale, e Giulia Tomasello, interaction designer ed educatrice che si occupa di innovazione nel campo della salute femminile. Nel 2024 c’è stata una seconda edizione del workshop, questa volta incentrato sull’uso dello speculum – rivendicato come strumento erotico e di autoconoscenza – e la produzione di lubrificanti DIY (Do It Yourself: con metodi non professionali, rivendicando l’autonomia di produrre ciò di cui abbiamo bisogno) con ingredienti naturali e facilmente reperibili. Ho preso al volo l’occasione per intervistare una delle due metà di Bruixes-Lab: Giulia Tomasello, che attraverso un caleidoscopio di collettivi in costante mutamento – e contaminazione – porta avanti la sua ricerca sul futuro della salute intima femminile e sull’eliminazione dei tabù che intorno a questa ruotano. È anche la fondatrice di ALMA, un progetto che lavora con sensori e dispositivi indossabili e unendo design, tecnologia ed antropologia ha l’obiettivo di portare un radicale cambiamento culturale nella salute intima femminile. Da anni Giulia vive come ricercatrice nomade creando laboratori aperti di educazione e sperimentazione che toccano spesso il rapporto sfaccettato, conflittuale, cruciale tra la tecnologia e il corpo femminile. 

Vorrei partire da Biofilie, la mostra internazionale che hai tenuto nel 2022 ad Ancona. Ho scoperto grazie al suo nome il concetto di biofilia che potremmo definire come “l’amore incondizionato provato nei confronti degli esseri viventi”. Correggimi se sbaglio la definizione. Quindi ti chiedo perché hai scelto questo nome per la mostra e se e come il concetto di biofilia ha guidato la tua ricerca.

Il termine biofilia è legato alla mia prima ricerca, che si chiama Future Flora, da dove è nato tutto il mio lavoro. È il progetto con cui mi sono laureata alla Central Saint Martins di Londra nel 2016. Future Flora è un kit fai da te, pensato per persone con vulva, che permette di coltivare in casa dei batteri utili alla tua flora vaginale in un assorbente di agar agar. La sua funzione è quella di prevenire infezioni vaginali e nello stesso tempo conoscere qual è la tua flora vaginale e di che cosa è fatta. Nel 2016, ho anche coniato questo termine: female biofilia. Il mio interesse era concentrato su questa affinità che esiste tra i microrganismi e noi come esseri umani. Tutti noi in realtà siamo in costante simbiosi con loro, fanno parte del nostro corpo e di chi siamo. Basta pensare al microbioma della pelle: è presente in tutta la nostra pelle, però è invisibile, è lì ma noi non lo vediamo. Eppure il nostro corpo è formato per metà di microrganismi e per metà di cellule umane. Addirittura quando studiavo si parlava di un 10% di cellule umane e di un 90% di microrganismi. I primi studi sul microbioma umano sono stati pubblicati nel 2008 dal Human Microbiome Project e ora piano piano stanno diventando sempre più riconosciuti a livello globale. Dopo il Covid abbiamo conosciuto ancora di più questo mondo invisibile che fa parte e non fa parte di noi. Il concetto di biofilia sta quindi proprio a testimoniare la loro presenza e la costante relazione che abbiamo con loro. Poi nel 2022 con il primo solo show che ho fatto ad Ancona si è trasformata in Biofilie, un sostantivo plurale, perché di affinità credo che ce ne siano tante e la tecnologia può arrivare a far parte di queste affinità, che abbiamo noi come creature umane, con animali, con organismi, con la natura.

Nel progetto di Future Flora e poi in ALMA Toolkit hai messo il corpo femminile al centro della tua ricerca. Grazie alla coltivazione di batteri benèfici o l’uso di sensori indossabili sembri esplorare nuove forme di alleanza tra la scienza e il corpo della donna che troppo spesso è stato sepolto sotto il velo dei tabù sociali. Puoi parlarci di questi progetti e del perché il corpo femminile ne è protagonista?

Future Flora è nato nel 2016 da una domanda speculativa, il progetto in sé si rifà al design speculativo, che guarda quindi al futuro ma si basa su concetti e scoperte scientifiche del presente. Nel 2016 avevamo già delle persone che si definivano biohackers, inserivano microchip sotto pelle e iniziavano a manovrare la tecnologia nei modi più bizzarri insieme al proprio corpo. Io ho pensato: come potrebbe essere un futuro in cui siamo in grado di coltivare i nostri batteri in casa, in modo sterile, di avere un nostro incubatore, e quindi poter prevenire le nostre infezioni vaginali creando un assorbente con questi batteri vivi? Naturalmente l’idea era speculativa perché incontriamo delle difficoltà nel coltivare dei batteri in casa: la nostra cucina non è certo un ambiente sterile ed è facile che avvengano delle contaminazioni. Io ho usato questo metodo di incubazione DIY, da biohacker, per comprendere la morfologia dei batteri, ma tutt’ora il kit di Future Flora è puramente speculativo, neanche io l’ho mai provato.  Questo non lo rende però meno reale: dal 2019 è esposto in modo permanente al MAK, il museo di arti applicate di Vienna. Nel 2018 invece il kit ha vinto il S+T+ARTS Grand Prize for Artistic Exploration, che l’ha portato oltre la sua forma di pura provocazione. Se prima era percepito soltanto come il progetto provocatorio di una studentessa, oggi è sicuramente sulla strada per diventare una pratica reale. Nel frattempo, in parallelo, avevo già sviluppato ALMA, un progetto multidisciplinare, fondato da me, Isabel Farina che è una medica-antropologa, Tommaso Busolo che è uno scienziato di materiali, e Ryo Mizuta scienziato di nanotecnologia. Dato che la crescita di batteri non è oggi una tecnologia alla portata di tutti, con ALMA ci siamo chiesti se fosse possibile partire da una tecnologia già esistente. Abbiamo pensato quindi ad una tecnologia indossabile e molto diffusa come uno smartwatch e ci siamo domandati cosa succederebbe se lo portassimo inserito nel tessuto delle mutande? È una tecnologia a cui siamo già abituati, si tratta solo di indossarla in modo diverso. Io da designer posso pensare alla tecnologia del futuro ma il mio progetto, per poter essere realizzato oggi, dovrà necessariamente confrontarsi con la situazione presente. La realtà oggi è che il 75% delle persone con vulva a livello mondiale soffre almeno una volta nella vita di infezioni come la candida, e di queste il 10% è ricorrente, il che vuol dire che può ripetersi più volte durante lo stesso anno. È così un tabù parlare di infezioni vaginali perché c’è ancora tanta confusione anche tra noi persone con vulva nel capire se i sintomi che abbiamo derivano ad esempio da infezioni urinarie, vaginali o di trasmissione sessuale. La confusione è così ampia semplicemente perché non c’è mai stata educazione. Molto spesso non ci curiamo o, se andiamo in farmacia, prendiamo la tipica crema vista nella pubblicità. Se abbiamo l’accesso alle visite ginecologiche spesso non ci andiamo, o se ci andiamo poi siamo costrette a prendere antibiotici che danneggiano tutti i batteri, sia buoni che cattivi, costringendoci così a prendere poi dei probiotici. Quindi mentre l’obiettivo con Future Flora era capire come creare una flora vaginale sana in casa, senza l’uso degli antibiotici, l’ALMA Toolkit dà una risposta differente: la tecnologia un giorno potrà aiutarci a capire, grazie a dei sensori, che se hai questi sintomi è perché il tuo pH sta cambiando o perché hai meno lactobacilli e quindi sicuramente hai questa determinata infezione. Abbiamo potuto lavorare su ALMA Toolkit a partire dal 2018 soprattutto grazie ai diversi premi europei e inglesi che abbiamo ricevuto e che hanno supportato l’avanzamento del progetto, sviluppato in collaborazione con l’Università di Cambridge e il Fraunhofer-Gesellschaft di Berlino. Lo sviluppo del sensore è arrivato al punto da renderlo teoricamente funzionante, ma per produrlo servirebbero ancora nuovi studi e ulteriori fondi. Sappiamo poi fin troppo bene che oggi la maggior parte delle persone con vulva non è pronta a mettersi una tecnologia nelle mutande, come ai tempi non era pronta, con Future Flora, a metterci dei batteri. E questo l’ho scoperto in prima persona: con Future Flora avevamo prodotto un documentario in cui intervistavo diverse persone, ma con ALMA, dal 2019 ad adesso, abbiamo condotto diversi laboratori proprio per investigare attraverso metodologie partecipative se le persone fossero pronte a indossarlo. Abbiamo cercato di capire cosa mancasse nella loro comprensione dell’igiene intima, quali fossero i gap educativi sul tema. È una ricerca che abbiamo fatto dal Brasile alla Malesia, ma anche in Europa dove abbiamo girato un po’ ovunque con questi laboratori, raccogliendo dati, esperienze, storie. Ne è emerso che, rispetto al 2019, oggi c’è più apertura ad accettare il sensore, ma la verità è che se una persona può acconsentire a una tecnologia inserita nelle mutande, si rifiuta di toccare la propria vulva e utilizzare uno speculum per guardarsi la cervice. Questo secondo noi è un problema ancora più grosso. Così abbiamo deciso di spostare il focus dall’high tech al low tech. Okay, un giorno il sensore potrà arrivare, ma non adesso. Nel frattempo concentriamoci su qualcosa di più basilare. Siamo ripartiti dai metodi di autoesplorazione sviluppati negli anni ’70, cercando di riportarli in auge. Il progetto sta mutando, ALMA sta diventando ALMA Futura. Io e Isabel stiamo sviluppando dei toolkit di autoesplorazione, sia dal punto di vista ginecologico, quindi per rivendicare lo strumento dello speculum, ma anche di autoconoscenza e ultimamente anche da un punto di vista erotico (ma questo con un’altro collettivo ancora: ALMA de Bruixes). Abbiamo sviluppato un toolkit per l’autocoscienza, per andare quindi ad esplorarsi e per capire che non siamo lɜ unicɜ ad avere certe esperienze dal punto di vista intimo e ginecologico. Poi c’è il progetto Biofilie Lab, in cui unendo Solo Show e Future Flora, stiamo sviluppando un protocollo per crescere la flora vaginale in casa, osservarla al microscopio, riconoscere o no la presenza di Lactobacilli, di Escherichia Coli. Andare proprio come degli scienziati a leggersi dal punto di vista microscopico e passare quindi nelle forme di conoscenza da un macro a un micro.

Oggi non è più possibile ignorare che il corpo della donna (nella sua accezione inclusiva) è stato ed è il campo di battaglia delle rivendicazioni contro una società patriarcale che ha fatto della scienza uno (forse il principale) dei suoi strumenti di dominio. L’attivismo trans-femminista tenta da anni di decostruire i bias all’interno del pensiero scientifico, penso ai libri di Donna Haraway o a un libro importante uscito lo scorso anno in Italia come Gender Tech di Laura Tripaldi. Definiresti il tuo lavoro di ricerca come trans-femminista? E quale posto ha l’attivismo all’interno delle tua attività?

Oggi so che il lavoro di ALMA, il mio lavoro, è totalmente politico. Ma questo l’ho scoperto con Future Flora in un modo molto più blando e ingenuo di ora. Non ero mai stata così attiva come adesso. Se ripenso a Future Flora oggi, so che quel lavoro nasceva proprio dalla necessità di esprimere la mia frustrazione a livello sociale, per come tutte le persone con vulva vengono percepite, trattate, per tutto il linguaggio che si muove intorno ai corpi. È una frustrazione che sento in me almeno fin dal 2011 ma che pian piano attraverso il design, che è il mio strumento, si è manifestata esplicitamente. Laura Tripaldi, Donna Haraway sono tutti riferimenti che, è ovvio, fanno parte del mio mondo. Loro lo fanno attraverso le parole e io lo faccio attraverso il design. E noi ci definiamo… in realtà non ci definiamo né transfemministe né femministe. Crediamo nel movimento transfemminista, ma non abbiamo all’interno del nostro team persone trans, per cui per ora non possiamo dire che lo siamo. Non abbiamo ancora fatto abbastanza laboratori per avere quella conoscenza, per dire che facciamo attività in quel campo specifico, ma vogliamo esplorare. Per ora noi ci siamo concentrate sui fluidi vaginali, quindi necessariamente ci siamo occupate di corpi con vulva e ne abbiamo esclusi altri. Ora quello che stiamo cercando di fare è proprio distinguere nei diversi laboratori quello che può riguardare tuttɜ e quello che invece ha il suo focus nei corpi con vulva.

Il dibattito trans-femminista sta riuscendo ad aprire nuove possibilità al progresso umano, rimodellando le antiche ideologie e generando nuove categorie di pensiero intorno al genere e all’identità, alle comunità e agli stili di vita, illuminando i rapporti di potere patriarcali che infestano in maniera trasversale l’arte e la politica, la scienza. Cosa possono imparare gli uomini da tutto questo? All’interno del dibattito trans-femminista il loro dovrebbe essere un ruolo subalterno o attivo? E – se c’è – quale è il ruolo degli uomini nelle tue ricerche e attività di divulgazione?

ALMA è un team formato anche da uomini quindi non c’è nessun problema per noi se una persona senza vulva ha la sensibilità di approcciarsi a questo tema, anzi lo riteniamo fondamentale. Il punto è sdoganare il tabù legato al corpo femminile, perché quello ci sembra il problema più diffuso in questo momento. Nonostante questo sappiamo che anche l’intimità di persone con pene è altamente tabuizzata. Vorremmo progettare anche un laboratorio solo per persone con pene, dove parlare con loro, capire cosa sanno o no del mondo intimo femminile. Parlare della vulva, di infezioni o fluidi vaginali, perché riteniamo che ogni persona con pene abbia spesso di fianco a sé una persona con vulva, sorella, partner, madre, nonna, zia. Quindi che tipo di sensibilità può avere nei confronti di infezioni vaginali e altri problemi di questo tipo? È sicuramente uno dei temi che ci ha sempre interessato. Riguardo al ruolo che le persone con pene possono avere, direi sicuramente di ascolto, di partecipazione, di presenza. Però io sono dell’idea che l’atteggiamento cis-etero-male, che non solo una persona con pene ma anche una con vulva può avere, sia da eliminare. Così ovviamente anche il sistema patriarcale. 

Il bio-hacking è un approccio alla biologia che potremmo definire un po’ punkDo It Yourself, che sembra riportare finalmente fuori dai laboratori la scienza, restituendola (senza mediazioni) nelle mani degli individui e delle comunità. Oggi le nostre vite sono interdipendenti dalla tecnologia, ma la scienza è vista come elitaria, un sapere per “addetti ai lavori” più che una risorsa dell’umanità. Questo crea terreno fertile alla proliferazione di teorie complottiste, post-verità o semplici truffe che abbiamo visto esplodere in tutta la loro forza durante la pandemia. Come ti poni rispetto a questa questione durante l’insegnamento e i tuoi workshop? Pensi che un cambiamento sia necessario o quanto meno possibile?

Il biohacking è totalmente un movimento punk. Vuole sdoganare l’elite della scienza chiusa nei laboratori e aprirla a tuttɜ. Il principio su cui si basa Future Flora infatti è lo stesso: tuttɜ dobbiamo essere delle citizen scientist [la citizen science è un ramo della scienza che cerca di coinvolgere gruppi di non professionisti così da promuovere un approccio più partecipativo alla ricerca scientifica, n.d.r.], dobbiamo essere dellɜ partecipanti attivɜ nel mondo della scienza e della tecnologia e questo proprio per aiutare noi stessɜ, facendoci i nostri batteri in casa per esempio. Trovo che il biohacking sia una pratica geniale, che fa parte del mondo dell’open source, della massima apertura della conoscenza e che (almeno in teoria) dovrebbe essere anche totalmente inclusiva. L’abbiamo visto con il Covid: durante il lockdown abbiamo tutti imparato a utilizzare dei test in casa per capire se eravamo positivi o no. Quello che abbiamo usato è un PCR [l’acronimo sta per Polymerase Chain Reaction o test molecolare, n.d.r.]. Un test che effettivamente si è portato fuori dal laboratorio e si è fatto in casa. Lo stesso può accadere per l’analisi del sangue, per l’urinocoltura esistono già delle striscette per farsela in casa. Tutto potrebbe diventare così ma ovviamente è uno svantaggio per le case farmaceutiche e quindi non si fa. Però sotto necessità data da una crisi mondiale, come è stato il Covid, guarda caso noi abbiamo avuto l’accesso a un test fai da te che ci ha risolto un sacco di cose. Quindi ben venga – non le crisi – ma ben venga l’apertura dei laboratori. Nel laboratorio si riescono a portare le nuove tecnologie solo fino a un certo punto. Da lì il mondo del design, che è il mio, e quello di Isabel che è antropologa, riescono a portare l’uso delle nuove tecnologie nelle mani delle persone. Per questo è favorevole una comunicazione tra laboratori e persone, una multidisciplinarità, che purtroppo non è sempre scontata perché manca la capacità di aprire il linguaggio, aprire le porte, essere aperti a… ma devo dire che abbiamo sempre trovato un sacco di persone disponibili a collaborare, e questo ci ha permesso di creare un network a livello mondiale.

Già Marx si interrogava su come “il capitalismo tenda ad incorporare la scienza per piegarla ai fini della produzione”, farne uno strumento di produzione di plusvalore, che abbiamo scoperto a nostre spese non corrispondere quasi mai al fine del benessere umano. Sempre di più il percorso della ricerca scientifica sembra dipendere dagli investimenti delle multinazionali e i capitali privati investiti superano di gran lunga gli investimenti statali, penso ad Elon Musk e agli ultimi traguardi raggiunti da Space X o Neuralink. A chi appartengono davvero questi saperi? E quanto e come di queste scoperte potrà giovare tutta l’umanità?

Purtroppo è una privatizzazione. Oggi le ricerche sul microbioma vaginale sono sempre più in auge e  sempre più privatizzate. Nascono così delle vere e proprie speculazioni: c’è questo test che costa sui duecento dollari in cui si chiede a donne di prendere un campione dalla loro cervice con un tampone per ricevere tutta la panoramica della loro flora vaginale. Questo in realtà è assurdo: un microbioma, soprattutto un microbioma vaginale, cambia in base allo stress, a quello che mangi, alle relazioni, ai rapporti sessuali. Non è come un DNA che tu analizzi con un kit ed è il tuo DNA. Per dire che anche in questo campo la privatizzazione esiste, anzi si sta già speculando senza che lo sappiamo. Poi ovviamente tutto questo non dovrebbe essere nelle mani di persone come Elon Musk o come Bayer. È ovvio per noi che la conoscenza dovrebbe essere aperta. Quello che facciamo tramite i laboratori è cercare di portare le nostre conoscenze per quanto possibile ovunque. Cerchiamo sempre di sviluppare i nostri progetti come open source per ridistribuire queste conoscenze, perché siano rimaneggiate. La realtà dei fatti è che queste cose sono più grosse di noi. E io so benissimo di essere una formica in un oceano, che forse col suo span di vita spera di fare un cambiamento, portare un nuovo punto di vista. Però nel nostro piccolo, con la nostra rete, cerchiamo di diffondere questo nuovo movimento e non siamo sole. È ovviamente tutto punk. Tutto il nostro lavoro nasce da un movimento che si chiama Gynepunk. Loro erano a Cala Fou, vicino a Barcellona, e sono nate proprio con la spinta di rivoluzionare tutto quello che il patriarcato ha sempre medicalizzato e che ha usato per ottenere potere sul corpo delle donne* (nella sua accezione inclusiva). Quindi, non siamo sole. Io vedo speranza nelle nuove generazioni. Loro sono molto più avvantaggiate dall’accesso alle tecnologie e da questo nuovo movimento transfemminista che stiamo ancora cavalcando. Per altre cose, soprattutto dal punto di vista politico, qua in Italia stiamo tornando super indietro. Ancora si combatte per i consultori che dovrebbero essere scontati e conosciuti e invece li vogliono chiudere, le nuove generazioni non li conoscono e non conoscono il loro potenziale, lo spazio di cura che offrono. Quindi, se proprio dobbiamo andare a investigare, non siamo messi benissimo ma io confido nel futuro, è per quello che sono nella parte dell’educazione. È l’unico modo, più che essere nel mercato, essere nell’educazione, è da lì che si riesce a portare il cambiamento.

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