La casa-trincea di Martha Rosler: House Beautiful. Bringing the war home.

La casa-trincea di Martha Rosler: House Beautiful. Bringing the war home.
Martha Rosler, Cleaning the Drapes, dalla serie House Beautiful. Bringing the war Home (1967-1972), Arti Institute of Chicago (Through prior gift of Adeline Yates)
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Immagina di essere a casa, stai guardando la televisione e all’improvviso la trasmissione si interrompe e trasmettono l’edizione straordinaria del telegiornale. La scatola magica mostra a distanza di sicurezza l’orrore del mondo, ti senti coinvolto e indignato per quello che accade, anche se non sai ancora di preciso chi abbia ragione e chi no, ma senti già che c’è qualcuno che subisce e qualcuno che attacca. Immagina che quella finestra elettronica da cui stai guardando comodamente un massacro sia la finestra di casa tua. Tutto è illibato all’interno dell’edificio, mentre fuori sta avvenendo il putiferio. A un certo punto decidi che per te è troppo e lasci perdere, tornando alle tue faccende. Martha Rosler ha condensato questo sentimento di distaccamento nella serie House Beautiful. Bringing the war home (1967-1972). Casa e conflitto sono intimamente legati: ciò che consideriamo un luogo protetto, il familiare e la prevedibilità di quello che abbiamo intorno a noi, si connette a un esterno imprevedibile, pericoloso e che dovrebbe stare quanto più possibile al di fuori di questo spazio. Quando ciò non è possibile e le case bruciano, gli oggetti prevedibili a cui teniamo vengono confiscati o distrutti, allora tutto diventa esterno, senza possibilità di ritorno. 

In House Beautiful. Bringing the war home Martha Rosler, artista e attivista americana i cui lavori intrecciano le tematiche della lotta pacifista e del femminismo con le questioni legate alla casa, l’urbanizzazione e la gentrificazione, decide di fratturare la perfetta prevedibilità della dimora statunitense altolocata inserendo combattimenti, feriti e morte. La tecnica utilizzata per questa serie è il collage con cui si uniscono fotografie di interni di casa ben arredati, provenienti da riviste di design e arredamento, con personaggi o scene di esterni che rappresentano l’orrore della guerra epicamente patinato dai fotoreporter. L’effetto ottenuto è inquietante e poco rassicurante: le immagini belliche possono entrare dalla finestra, piangere e disperarsi sul tappeto persiano appena importato o disturbare una cena tra amici. In certi casi le scene sono mostrate dalla stessa signora, perfettamente agghindata con l’occasione di farsi trionfalmente fotografare negli spazi che ha curato con tanta dedizione, spostando caso mai un tendaggio mentre lo pulisce con l’aspirapolvere di ultima generazione (Cleaning the Drapes) che ci mostra da una finestra soldati trincerati. In altri casi, i feriti o i cadaveri mutilati dal conflitto fanno parte dell’arredamento di casa più che del nucleo familiare e umano, come nel fotomontaggio Balloons, e il loro sguardo disorientato – quando non hanno fasce sugli occhi – esplora la stanza in cui sono approdati per un misterioso gioco del destino. Eppure, quando è presente , il volto della perfetta housewife anni ‘70, è pacato e accogliente pur restando cieco a quello che ha davanti, fissando lo sguardo sull’obiettivo fotografico davanti a sé.

Questo accostamento ci spinge a una rottura con la quotidianità domestica: l’offensiva del Vietnam è detta “the living-room war” poiché è stato il primo conflitto a essere trasmesso in televisione. La potenza delle immagini frammentate di Rosler, che lavora con l’elemento figurativo come strumento di riflessione e ribellione – sia esso fotografia o video, porta realmente dentro le case statunitensi l’orrore della guerra, al di là dei mezzi di comunicazione tradizionali che fungono da deterrente e confine di sicurezza tra esterno e interno. I mass media  creano una barriera che tiene fuori dal nido ogni cosa possa arrecare danno o disturbo. È il “pubblico da casa” che decide quanta dose di guerra e attualità far entrare nei propri spazi: le pagine di una rivista, il notiziario del giorno, il quotidiano, la puntata di aggiornamento alla radio. Tutto è telecomandato: ognuno può decidere di entrare e uscire da queste finestre. Per Martha Rosler non è abbastanza, per questo decide di portare la visione dei fatti a un livello superiore: dentro le vostre comode e sicure case, sembra dirci, io ho fatto entrare davvero l’orrore della morte e dei combattimenti che, proprio perché lontani, non sono percepiti per la loro portata e gravità. La casa diventa il campo di battaglia e lo spettatore è costretto a considerare la complessità del conflitto senza barriere di sorta. 

Chiedersi “che cos’è per me casa?” può assumere una serie di significati diversi: essa è un riparo contro predatori e intemperie oppure luogo intimo perché “casa è ovunque mi trovi a mio agio”. Gli stoici avevano sviluppato il concetto di oikeiosis, la cui radice è la parola oikos, casa, con cui si indicava la capacità di un essere di realizzare il suo fine ultimo. Due erano i passaggi per perseguire questo obiettivo: il raggiungimento di una conoscenza interna e, la sua applicazione all’esterno, tramite socializzazione. Conoscere il proprio io internamente fa sì che l’oikeiosis si sviluppi in parte come senso di compiacimento per quello che si è, consentendoci di poter fare azioni quotidiane e inconsapevoli che ci permettano di vivere. L’oikeiosis è a questo livello la capacità di comprendere che qualcosa dentro di noi ci appartiene e, compiacendoci di questo, di proteggerla e di utilizzare le nostre capacità per fare qualcosa nella vita che ne consenta la conservazione. Tradotto a un livello collettivo: il senso di appartenenza e la familiarità con qualcosa che abbiamo intorno. 

Martha Rosler, Balloons, dalla serie House Beautiful. Bringing the war Home (1967-1972), Arti Institute of Chicago (Through prior gift of Adeline Yates)
Martha Rosler, Balloons, dalla serie House Beautiful. Bringing the war Home (1967-1972), Arti Institute of Chicago (Through prior gift of Adeline Yates)

Di questo concetto si parla nell’intervista di Sara Marzullo a Emanuele Coccia sul Tascabile a proposito del suo libro Filosofia della casa. La casa è per l’autore un atto di felicità «indipendentemente dalla forma che prende». Gli elementi che provocano questo senso di felicità nei frammenti di riviste di arredamento utilizzati da Martha Rosler, e il senso di soddisfazione e appartenenza che scaturisce da questo scenario, riducono l’oikeiosis a mero compiacimento dettato dal possesso materiale: il senso di appartenenza si fonda su un tappeto, una cucina accessoriata, un quadro appeso alla parete o un tendaggio di lino che sfuma la luce proveniente dalle finestre. L’individuo che abita questi spazi, e che possiede tra le varie cose una televisione o un giornale, ritiene di possedere l’esterno tramite le notizie, come se i media gli dessero l’autorizzazione a essere il proprietario di un’intera nazione comodamente seduto in poltrona. La casa è uno spazio di certezza, le mura dell’edificio sono necessarie per poter garantire la stabilità familiare e la dovuta protezione di ciò che in essa è contenuto. 

Coccia racconta che un comportamento simile è stata un’arma di difesa nella storia degli Stati Uniti, rispetto a un passato in cui gli avvenimenti esterni erano difficili da gestire: è a causa del propagarsi dell’epidemia di spagnola che si è resa necessaria un’evoluzione nel modo di abitare, portando la propaganda politica a denigrare i soggiorni prolungati negli alberghi, l’affitto di stanze singole (non suona poi così lontano come passato) a estranei che ne richiedevano l’utilizzo, in una caccia alla promiscuità abitativa che doveva impedire il contagio di massa. A partire dal XX secolo, la casa di proprietà diventa un bene necessario che identifica lo status dell’individuo e della famiglia di appartenenza non solo a livello economico e sociale, ma soprattutto a livello sanitario. L’evoluzione di questo modello è mostrata nelle riviste di arredamento: dopo che tutti (quelli che contano) hanno almeno una casa di proprietà, non resta che portare avanti l’economia cercando di rendere quell’abitazione più simile possibile ai tanti modelli proposti per immagini. L’utilizzo delle ultime tecnologie, poi, è il simbolo della legittimazione finale: avere una radio, una televisione, oppure l’ultimo modello di telefono cellulare rende il cittadino ufficialmente parte di una cerchia la cui oikeiosis è felicità come pura realizzazione materiale. 

Molte riviste sulla casa si sviluppano negli Stati Uniti intorno agli anni 40-50, durante e dopo il conflitto mondiale. La donna era colei che aspettava il ritorno del marito e doveva avere la possibilità di offrire un’abitazione quanto più confortevole e sicura, un vero e proprio nido lontano dalla sofferenza e dalla brutalità. Questo concetto di casa, unito all’ancella che ne fa da guardiana e da amministratrice, è rimasto intatto nel tempo ed è giunto fino ai giorni nostri. House Beautiful è una delle riviste più note nel campo del design dell’abitare. Questo tipo di prodotto non mira a far desiderare qualcosa che ancora non si ha, quanto a cercare di migliorare quanto già possediamo attraverso la decorazione d’interni. Tramite queste riviste si alimenta il mito sociale di un ambiente che mette al riparo da tutti i traumi della vita, che ci accoglie e ci spinge a pensare: una volta che chiudo la porta di casa alle mie spalle, il mondo fuori cessa di esistere, così come le mie preoccupazioni. La guerra del Vietnam è fuori dalla porta e può entrare solo da vie di accesso sistematicamente controllate dai padroni dell’abitazione. Il fatto che le fotografie di House Beautiful siano considerate l’emblema di una mitologia che fa capo alla casa ideale, “bellissima”, porta a riflettere sulla funzione tout court che la fotografia ha nella comunicazione di massa statunitense: nel procurare le basi per la costruzione di un mito, infatti, è la fotografia a garantire che quanto accade all’interno dell’abitazione è completamente frutto dell’oikeiosis di chi la abita della sua capacità di compiacimento e protezione di quanto ha scoperto di avere; per quanto riguarda il livello esterno – soprattutto per avvenimenti negativi come una guerra – la mitologia degli eventi porta sulla scena forze superiori quali il Fato, il Caso o il Destino, essenze vaghe e incontrollabili che provocano situazioni fuori dal nostro controllo, rispetto a cui non possiamo farci niente. 

La fotografia documentaristica si fa forte di questi presupposti e illude lo spettatore di poter controllare l’informazione offerta, concependola come veritiera e inconfutabile. Tuttavia, queste immagini sia da un punto di vista tecnico che contenutistico sono il risultato di scelte ben precise. La fotografia crea un surrogato della cosa reale che vuole, principalmente, far emergere quanto di estetico e gradevole si può trovare anche in un reportage di guerra. La controparte di House Beautiful nel lavoro di Rosler è, infatti, LIFE, trionfo del fotogiornalismo. Rosler sceglie da questa rivista tutta una serie di immagini che ne testimoniano il cambiamento di rotta durante gli anni del conflitto: se all’inizio i soldati erano rappresentati in fotografie a colori che rispecchiavano l’avanguardia dei loro equipaggiamenti, successivamente si passa al bianco e nero per mostrare l’altra faccia della guerra, quella in cui c’è il rischio che anche l’esercito statunitense sia vulnerabile agli attacchi. Larry Burrows è uno dei primi fotografi a mostrare questo lato del contingente americano. È anche colui che ha fotografato Tron, ragazzina vietnamita simbolo di speranza: durante una passeggiata, Tron era finita su una mina e aveva perso una gamba. Burrows la ritrae mentre aspetta che le venga finita di preparare la protesi che le sarà donata per poter camminare di nuovo. Martha Rosler utilizza l’immagine di Tron in Tron (Amputee) decontestualizzandola in un salotto moderno, arredato con moquette e mobili anni 70: il suo sguardo è concentrato su qualcosa che noi non possiamo vedere – nell’immagine originale la sua futura protesi – e vive in questo nuovo spazio come se non le importasse granché, rendendolo semplicemente una stanza vuota, priva di significato. 

Non solo: ciò che è esterno alla casa, vi entra con la televisione: questa interconnessione, ormai profondamente radicata, non è più percepita e provoca una perdita di orientamento e un’anestetizzazione agli eventi trasmessi. Per questo motivo Rosler opera una rottura tra reale e ideale, abbattendo i confini artificiali tra la casa e l’esterno-estero, un luogo lontano in cui si consuma il sacrificio dell’uomo americano che combatte per la libertà dai regimi totalitari pronti a sommergere i meno fortunati, coloro che non vivono nella terra della democrazia. 

Martha Rosler, Tron (Amputee), dalla serie House Beautiful. Bringing the war Home (1967-1972), Arti Institute of Chicago (Through prior gift of Adeline Yates)

Se la Guerra del Vietnam è la guerra da salotto, dopo le immagini trasmesse in diretta per la prima volta con la Guerra del Golfo, quanto accaduto l’11 settembre 2001 a New York, a livello mediatico, non dovrebbe sembrare niente di nuovo. Tuttavia, la televisione, finestra privilegiata di collegamento con l’esterno, ha raccolto attorno a sé quel giorno milioni di persone allarmate dall’edizione straordinaria del telegiornale. La stessa cadenza e regolarità dei programmi televisivi se spezzata nel tran tran quotidiano, invia automaticamente il messaggio che c’è qualcosa che non va e che quel qualcosa non è niente di buono se siamo invitati a prestarvi attenzione in modo così poco democratico da impedirci la visione del film o del programma del pomeriggio. Proprio perché dopo gli avvenimenti di quel giorno si è scatenata una guerra su suolo estero di uguale intensità in una nazione diversa – stavolta l’Iraq e l’Afghanistan – Martha Rosler ha deciso di continuare House Beautiful. Bringing the war home. New series (2004-2008) aggiornandola al XXI secolo. Questa seconda serie ci dimostra che l’oikeiosis intesa come nella seconda metà del Novecento è cosa ancora viva, ma va oltre la quotidianità domestica e sfonda le passerelle delle sfilate, porta alla ribalta il conflitto evidenziandone gli sviluppi tecnologici in campo bellico, comparandoli con quelli in campo domestico e sociale. La dolce ancella di casa è una donna in carriera sicura di sé che riesce a tenere a bada famiglia e lavoro. Non basta più avere una casa di proprietà e arredarla con quello che è di moda: serve visibilità, la casa si trasforma in un set, la vita personale inizia a essere non così timidamente condivisa, complice la presenza sempre più capillare dei telefoni cellulari. Ed è così che in Photo op la doppia figura di una modella, mentre gode del lusso di una videochiamata, è incasellata dentro una raffinata veranda con caminetto. Questa madre moderna ha due figlie che ha lasciato a dormire sulle poltrone: i cadaveri di due bambine morte durante dei bombardamenti. Fuori dalla veranda, l’inferno.

Che sia lo schermo di un telefono, un televisore, o una rivista, è la finestra albertiana sul mondo quella a cui tutti facciamo riferimento quando parliamo di prospettiva. Tradizionalmente, in Europa, la prospettiva è il prolungamento di uno sguardo che crea un pensiero e che, nel presente, si trasforma spesso in opinione. Avere una prospettiva su qualcosa significa vedere un orizzonte, poterlo scrutare e decidere se vogliamo intraprendere quel percorso o meno. Che prospettive mi dà questa posizione? Quali sono le tue prospettive future? Qual è la finestra a cui decidiamo di affacciarci? Martha Rosler decise già dagli anni 70 di sganciare il trauma dell’inferno bellico del Vietnam nelle case da sogno dei suoi concittadini, in una diramazione di prospettive diverse che hanno sbilanciato lo sguardo,  messo soqquadro la casa e neutralizzato la tradizionale visione pantofolaia degli avvenimenti. Non si tratta del Caso o del Destino incontrollabile ed etereo che ci racconta una favola mitologica: è una donna in carne e ossa che scende nelle piazze e fa volantinaggio con le sue fotocopie colme di collage. House Beautiful. Bringing the War Home, serie 1 e 2, è un’opera incollezionabile, frammentata e frantumante. Quale individuo riuscirebbe a tenere appesa in casa la macabra testimonianza di ciò che è e fa ogni giorno, dopo che chiudendo la porta dietro di sé, ha chiuso fuori il mondo? La guerra porta esattamente questo: la distruzione delle certezze, lo sconvolgimento della quotidianità anche laddove sembra non poter arrivare. Un’immagine può portare nuova luce su un fatto che crediamo di conoscere ormai fin troppo bene, tante sono le notizie e le opinioni che sentiamo ogni giorno sull’argomento. Non parliamo dell’arredamento di una casa che salva il veterano dal mondo che gli ricorda cose troppo brutte per essere vissute senza un nido di supporto. Martha Rosler ha frantumato due mondi apparentemente lontani e ha ricomposto lo scenario in modo diverso e inclusivo, costringendo chi segue lo svolgersi del conflitto a fare i conti con un cambiamento di prospettiva: l’unilateralità della visione, un punto fisso che ci consente di tracciare delle linee rette e di iniziare a disegnare un quadro completo della situazione, è solo uno dei tanti metodi che abbiamo per poter scavare nelle cose, e non è nemmeno il più attendibile.

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