La letteratura come campo di forze

La letteratura come campo di forze
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Un campo di forze, in fisica, è un campo vettoriale che descrive la forza presente in ogni punto di uno spazio dato, ovvero una funzione che associa ad ogni posizione di esso un vettore che ha l’intensità e la direzione della forza. Pensiamo, ad esempio, alle frecce che indicano la direzione e l’intensità del vento sui grafici delle previsioni meteo. Creare in letteratura un campo di forze significa indagare l’interazione tra due o più soggetti – o tra un soggetto e alcuni oggetti – aggiungendo necessariamente la funzione t, che sta per tempo, cioè indagare quelle variabili, reali o metaforiche, che descrivono il modo in cui le relazioni agiscono sui protagonisti della storia stessa. La morte di un padre, lo studio dei suoi appunti, abitare una casa piena dei suoi oggetti, entrare in relazione con alcune figure del passato oppure avere una relazione con persone vive e vegete che scompigliano e frammentano la regolarità del quotidiano, tutte queste azioni esprimono una forza vettoriale che agisce dal passato e nel presente sul protagonista con una certa forza. Nell’ultimo romanzo di Emanuele Trevi La casa del Mago (Ponte alle Grazie, 2023), il campo all’interno del quale agiscono queste forze è, per l’appunto, la casa di suo padre, che il protagonista decide di abitare dopo che non aveva trovato acquirenti disposti a comprarla. Trevi porta sulla pagina un campo di forze al confine tra la magia e la realtà, procedendo per disaggregazione e riaggregazione della percezione del mondo.

Il Prologo è una delle pochissime parti del tuo libro che si svolge in un luogo diverso dalla casa, all’esterno. È stato pubblicato anche come racconto a parte, in una forma diversa, nel 2020. Racconti di due viaggi a Venezia con tuo padre avvenuti in due momenti della tua vita molto lontani fra loro: quando eri bambino e quando eri un adulto, con tuo padre anziano. Mi sembra che cerchi di raccontare una sensazione di smarrimento (tu che ti perdi a Venezia da bambino, il furto dei vostri bagagli per colpa tua da grande) per poi andare alla ricerca, per tutto il libro, di un sentimento di riconquista dell’ordine. Che rapporto c’è tra questo nucleo originale e il resto del romanzo?

La tua domanda è interessante perché per me la scrittura consiste proprio in questo lavoro di rimaneggiamento e ampliamento. Io sono fondamentalmente un giornalista e credo che ogni buon articolo debba potenzialmente contenere il tema di un libro, lavorando per allargamenti: ad esempio il prologo del libro, rispetto al racconto originale, è lungo il doppio. Il racconto a cui fai riferimento è stato pubblicato nel catalogo di una mostra [poi confluito nella raccolta di racconti Editoriale, edita da Humboldt nel 2020], ed è stata l’ultima occasione di fare un esperimento del genere prima della pubblicazione del libro, anche perché non ho molta familiarità con la scrittura per il web, scrivo soprattutto per la carta. Quando esistevano le riviste come Nuovi Argomenti o Paragone era naturale che i romanzi avessero un presupposto, un nucleo originale su cui lavorare, erano dei veri e propri laboratori. Quando ho scritto quel racconto avevo già l’idea di fare il libro, pubblicarlo mi serviva anche a tastare se questa cosa sarebbe andata bene col pubblico: già solo dieci persone che ti dicono di aver notato una cosa sono un fattore psicologico importante per uno scrittore. Credo fortemente in questo metodo, è la mia maniera di costruire i libri. 

Il tuo libro si fonda sulla creazione di quello che tu definisci nella seconda parte del libro un “sistema planetario”. Ci sono forze caotiche e forze in qualche modo neutralizzanti. Partirei dalle prime. Queste si distinguono ulteriormente in forze magiche, come la Visitatrice o Miss Miller, e forze invece reali, le “irruzioni di realtà”, come le hai già definite tu, ovvero la Degenerata e la Gatta Morta. Entrambe generano una costante rottura dell’equilibrio sospeso che il protagonista prova a creare nel rapporto tra sé e la casa. 

Le definirei centrifughe e centripete. La casa stessa è un elemento centrifugo, è un elemento in cui entro e che non riesco a governare. Come nelle fiabe, nel mio libro ci sono degli elementi magici, ad esempio il fantasma di Miss Miller e la Visitatrice, e degli elementi reali, come le due peruviane. La realtà di per sé non esiste secondo me, ci sono differenti gradi di condensazione e di rarefazione degli stessi fenomeni, è così che abitiamo il mondo: un momento dubitiamo della sua realtà, un altro ci affidiamo e procediamo così, tra elementi aggreganti e disgreganti. Il mio problema, nel caso specifico di questo romanzo, era non sentirmi a mio agio nella casa in cui ho scelto di vivere, ma in tutti i miei libri c’è questo doppio movimento di fondo: in Qualcosa di scritto, ad esempio, Laura Betti distrugge il mio atteggiamento da ragazzetto arrogante e mi fa sospettare dei miei limiti, mentre ci sono altri elementi che mi ricostruiscono la personalità. Questa per me è la trama fondamentale della vita: realtà e irrealtà, disgregazione e riaggregazione e questo dualismo fondamentale si incarna in dei personaggi. Poi lascia perdere che io scrivo rifacendomi a personaggi reali della mia vita, questo dipende solo dal fatto che non ho fantasia.

Al contrario, la memoria fa da agente di distanziamento, appiana la narrazione. Anche la scrittura stessa crea sempre una forma di distanziamento tra il lettore e la storia, quasi al limite del saggismo. Come agisce la scrittura nella tua relazione con le cose che vivi?

In questa storia c’è un io che racconta una cosa del passato, e che quindi in qualche modo è sopravvissuto alla propria storia. Ogni storia è una prospettiva umana, è ciò che rimane dopo il trascorrere del tempo, il midollo dei fatti stessi. Uno dei rimpianti della mia vita, avendone anche una molto interessante, è non prendere appunti su quello che mi succede, non avere una forma di diarismo intermedio tra i fatti e le storie che racconto. Evocando cose lontane puoi trovarti nella situazione interessante di chiederti perché ricordi alcune cose invece di altre. Se cominci a pensare a una cosa in maniera approfondita, poi, capisci di ricordati anche di più di quello che credevi.

Per te raccontare può essere anche una forma di analisi? 

Sì. Quando si è molto giovani si può pensare in modo equivoco che la scrittura sia un processo lineare, che prima si ha un’idea e poi la si scrive; invece, io credo che scrivere è pensare e quindi ti può portare anche molto lontano da dove credevi. Io, però, non sono un grande fautore dell’abbandono, so quasi sempre dove vado a parare. La mia amica Elena Stancanelli inizia sempre le sue lezioni di scrittura intimando ai suoi allievi di non fare scalette; io invece ne faccio sempre tante. Ho bisogno di sapere dove finiranno i miei racconti, per compensare un elemento essenziale di casualità che hanno le mie storie. Nonostante le apparenze, dietro il caos i fili delle mie trame si tengono molto bene. In assenza di una trama solida, una scrittura autobiografica molto fondata sulla realtà rischia di non tenere. In questo libro volevo raccontare otto mesi di vita, che di per sé è un po’ poco, allora dovevo creare legami interni molto forti, perciò ogni tanto smetto di scrivere e appunto le cose che devono succedere, cerco di osservare il disegno. 

La quasi totalità delle forze del racconto sono forze femminili, alcune dal presente, altre dal passato, in opposizione agli elementi maschili presenti solo sullo sfondo della storia. Come mai hai deciso di includere nel romanzo solo queste?

Per me questo è un libro su quattro donne: la prima è Miss Miller [una paziente di Jung di cui il protagonista del romanzo legge la storia attraverso gli appunti del proprio padre], un fantasma positivo, enigmatico, qualcuno che non riesco a capire se nel seguito della sua vita sia stata o meno felice, nonostante io abbia fatto molte ricerche su di lei; la seconda è la Visitatrice, una donna a cui non voglio dare un’identità precisa, una paziente di mio padre: quando a un certo punto della storia cambio la serratura di casa mia convinto di averla chiusa fuori, invece la chiudo dentro, come nei classici film horror; e poi le due peruviane, Rocio e Paradisa. Per me è come se queste quattro donne rimandassero a un’ulteriore presenza, quella che gli etruschi chiamavano la dea velata, che è un’immagine metaforica del destino. Ci sto tornando sopra, sto scrivendo un libro su mia nonna, che identifico come una divinità tirrenica. La mia fantasia è molto orientata verso le figure di carattere magico, è un tema che in questo periodo mi torna spesso in mente. Mi chiedo se dietro la varietà delle persone ci possa essere l’unità di un messaggio, e questo ha a che fare con la necessità di creare un racconto estremamente coerente, che si tiene insieme a fronte di una scrittura che può sembrare svagata e casuale. È come se queste donne avessero un annuncio per me e rimandassero a un’ulteriore presenza: su questo volevo lavorare fin dall’inizio.

La Gatta Morta, Paradisa, è un personaggio che sta sempre comodo, a suo agio, che al contrario del protagonista della storia non è mai in difficoltà. Tu che rapporto hai con le case degli altri? Quando entri in una casa nuova ti metti comodo o stai composto?

Non me lo avevano mai chiesto, però posso dirti che come tutti gli scrittori sto molto in giro: se c’è una cosa che mi può mettere in un disagio estremo è essere ospitato a casa di una persona, è una cosa che mi uccide. Invece amo l’albergo, potrei viverci. 

Gli oggetti hanno un valore simbolico fortissimo nel romanzo. Trovi ispirazione nel modo in cui altre persone si relazionano alle proprie case e agli oggetti che ci sono dentro? E tu sei una persona particolarmente legata agli oggetti?

Io sono un accumulatore seriale, eppure non tengo a niente in particolare. Se una cosa ti piace te la regalo, però ogni giorno se trovo qualcosa di interessante lo porto a casa. Ho una casa che piace molto ai bambini, perché è pienissima di roba, ai limiti delle botteghe dell’antiquario, però fatta dei pupazzetti che trovo al mercato di Porta Portese, niente di valore. Fin da giovane sono stato molto determinato dal pensiero di non dovermi affezionare alle cose, perché le cose non ci appartengono, la vita stessa è un prestito e presto me ne dovrò andare. Per me è questa la tonalità fondamentale del mio rapporto con le cose: le posseggo, le custodisco, ma nulla di tutto questo mi appartiene veramente. Giovanni Giudici racconta in un suo libro di un trasloco che aveva fatto intorno ai settant’anni: il titolo era Quanto spera di campare Giovanni, credo che sia il titolo più bello di un libro di poesie che io abbia mai letto. È un elemento che mi affascina molto dalla vita: capisco perché una persona anziana voglia cambiare casa e credo che, in un caso del genere, bisogna orientare la testa verso il nulla. Il rapporto con gli oggetti è un continuo esercizio spirituale: mi devo sempre ricordare che quello che vedo ogni singolo giorno non tornerà più e non è mio. Il distacco buddista per me è la virtù suprema. Dico tutto questo essendo una persona affezionatissima alle cose: questi esercizi spirituali mi servono a non annegare nel dolore. Mentre stiamo parlando sono in viaggio per Venezia, tutto sfuma un poco e se ci penso è doloroso, perché sono uno che vorrebbe campare diecimila anni, che le persone a cui voglio bene non morissero mai e mi rendo conto che il peso della mia volontà è molto occidentale. Pensare che nulla è mio, nemmeno i vestiti che indosso in questo momento o il braccialetto d’oro che mi ha regalato mia madre, mi orienta. Non credo che il mondo sia un’illusione, non ho molta simpatia per il Nirvana, è proprio il possesso che è un’illusione, fin da quando i sovrani antichi riempivano le proprie tombe di oro e oggetti.

Torniamo allora al prologo iniziale: in quel racconto tu e tuo padre subite un furto e tu trasmetti molto forte nel lettore un senso di smarrimento, di perdita e anche di arrabbiatura per aver perso i vostri bagagli. Anche quando il te bambino si perde traspare un senso di smarrimento, una tensione e un attaccamento molto forti con le cose presenti. 

Certo, è vero, ma pensa che brutto libro sarebbe se partissi dal punto di vista della saggezza. I miei personaggi sono fondamentalmente comici, quindi mi interessa rappresentarmi per quello che sono, non per ciò che vorrei essere.

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