La resistenza migrante dell’immagine

La resistenza migrante dell’immagine
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Due immagini di un volto femminile si susseguono nell’incipit di November (2004) opera della regista e studiosa Hito Steyerl: la prima, in bianco e nero, è stropicciata, probabilmente stampata su carta; la seconda mostra una breve clip a colori di una ragazza che si gira verso la telecamera, ha i capelli corti, un orecchino pendente a forma di croce, un giubbotto di pelle. Entrambe le immagini rappresentano la sociologa Andrea Wolf, amica di Steyerl morta nel 1998 per mano dell’esercito turco, in seguito a un attacco nella regione del Van contro il gruppo PKK (Parti Kerkerani Kurdistan), di cui faceva parte come combattente per la causa curda con il nome di Ronahi.

       
Clip da November, Hito Steyerl, 2004

Le circostanze che portano Hito Steyerl, che lavora con installazioni cinematografiche e comunicazione mediale, a produrre quest’opera hanno a che fare con la morte di Andrea Wolf. Nel film la finzione si mescola alla narrazione documentaria in prima persona: un’immagine tratta da una pellicola amatoriale può diventare racconto della realtà, così come un documentario televisivo può essere utilizzato per fini di finzione; è un gioco di rimandi e ribaltamenti di significato che riflette sul rapporto che abbiamo con le immagini. In particolare, l’opera ha come focus la morte dell’amica della regista e i tentativi di far emergere le verità affossate dal governo turco che per ragioni di propaganda, in assenza del corpo senza vita della combattente, nega la sua morte. Steyerl decide di raccontarcelo componendo varie immagini tra clip cinematografiche e documentaristiche provenienti dal suo repertorio personale, telegiornali in cui Andrea era intervistata, poster e cartelloni che evocano o riproducono volti noti e non noti dal cinema e dalla società. In questo modo, la regista prende in considerazione il rapporto che abbiamo con le immagini dopo la morte di chi vi è ritratto. Che la persona sia un caro amico, un personaggio famoso o uno sconosciuto di cui abbiamo sentito parlare al notiziario non ha importanza: ciò che conta è che si arrivi a capire che l’immagine – e chi la gestisce – esercita un controllo sullo spettatore, al di là delle sue caratteristiche estetiche. Un’immagine può nascondere un soggetto: pensiamo, ad esempio, alle notizie di guerra, quando la televisione mostra immagini dalla palette verde e nera che esplodono davanti ai nostri occhi; questa tipologia di artefatto visivo è un’immagine informazionale, proveniente dalla telecamera di un missile che ci mostra l’obiettivo prescelto per l’offensiva, solitamente un centro urbano deserto. Ma siamo davvero sicuri che sia così? Come le prime fotografie che non mostravano soggetti in movimento, così queste immagini non mostrano tutti gli elementi che compongono l’area urbana, portandoci a pensare che ogni obiettivo di guerra sia una zona già evacuata. In altri contesti, l’immagine, in quanto presenza di un’assenza, può iconizzare un soggetto, renderlo simbolico e oggetto di venerazione, punto di riferimento per un gruppo di persone che condividono gli stessi ideali. È il caso di Andrea Wolf, la cui immagine viene ritrovata casualmente come poster da Steyerl in un cinema tedesco. L’artista ritrova l’amica ritratta come un’icona, idealizzata come simbolo di resistenza. Così Andrea diventa per lei una unfamiliar kind of icon”, qualcosa che è distante dalla conoscenza che aveva dell’amica. L’immagine di Wolf  presentifica una persona il cui corpo non è stato ritrovato. Ci si può lecitamente chiedere se questo basti a far dubitare della morte di qualcuno. 


Clip da November, Hito Steyerl, 2004

November è un’opera autoriflessiva in cui l’artista vuole raccontare la scomparsa dell’amica e la sua resurrezione in immagine. Andrea Wolf nel 1996 decide di andare in Kurdistan per unirsi al PKK, partito monitorato e avversato non solo dal governo turco, ma anche da quello tedesco, cosa che ha comportato l’emissione di un mandato contro Wolf per attività terroristiche in Germania. Le circostanze per cui Steyerl decide di raccontarne la storia fanno il giro del mondo e ritornano in Germania: in una scena la regista ci racconta del ritrovamento del poster con l’immagine di Andrea. Wolf è diventata una martire, un’icona viaggiante. Nell’opera sono inserite scene tagliate da un film di kung-fu che le due avevano girato negli anni 80, in cui Steyerl e Wolf erano parte di un gruppo di eroine che lotta contro il male:  sono già delle combattenti, come nella futura realtà dei fatti,  ma ciò che in quella produzione era considerato finzione e intrattenimento, adesso è diventato un documento che porta a riflettere sulla funzione della memoria nell’ambito politico internazionale, quando la rivoluzione, avvenuta in un Ottobre lontano, sembra essersi conclusa e, ormai, continuano a girare solo i suoi gesti sui dispositivi elettronici.

Il titolo dell’opera richiama la Rivoluzione d’Ottobre, in particolare fa riferimento all’opera cinematografica October di Sergej Ėjzenštejn. Oggi siamo nel mese di novembre, secondo Steyerl, perché non esiste più un’armata internazionale, ma solo forze delocalizzate tacciate di terrorismo – come il PKK – in cui gli eroi sono visti come folli e muoiono in esecuzioni illegali. Le circostanze della morte di Wolf, per esempio, non sono chiare fin dall’inizio e non si è potuto sapere subito del suo decesso in quanto le notizie ufficiali, provenienti dalle autorità tedesche e turche, non l’hanno confermato dopo l’attacco. Wolf, come parte del PKK, è considerata una terrorista, per questo è strumento di propaganda nelle mani dei governi occupanti che continuano a considerarla viva, diffondendo questa notizia sui canali principali di informazione, in un gioco di potere in cui l’immagine (immateriale e politica) della donna è utilizzata per diffondere terrore, un fantasma che aleggia e su cui si è perso il controllo. La sua figura, tuttavia, è controllata proprio grazie a queste affermazioni che aiutano gli occupanti a mantenere uno stato di incertezza in cui l’unica via di fuga contro chi risulta evaporato, ma ancora in circolazione, è la difesa tramite l’attacco.

Del film delle due diciassettenni Steyerl e Wolf non è possibile ricostruire la storia, in quanto sono state girate solo le scene di combattimento. La narrazione finzionale e quella della vita nel Kurdistan di Andrea Wolf, però, coincidono sotto molti aspetti: le due protagoniste combattono per la giustizia. Solo i cattivi utilizzano armi, mentre i buoni combattono a mani nude. Di contro, nella storia è Steyerl a morire, mentre Andrea sopravvive, uccide gli antagonisti e con la sua motocicletta se ne va lontano sparendo all’orizzonte. Anche nella realtà, anni dopo, Andrea è sparita, perché il suo corpo non è mai tornato indietro. 


Clip da November, Hito Steyerl, 2004

La simbologia legata alla sparizione del corpo dopo la morte ha a che fare con il substrato culturale religioso, dotato di una duplice faccia: quella del mistero dell’incarnazione che deve essere venerato, quello incline all’iconoclastia, per cui ogni immagine di un soggetto fantasma è simbolo del ritorno del male che rappresenta e deve essere fermato a tutti i costi, anche attraverso la distruzione dell’immagine stessa, oltre che del corpo. Andrea Wolf vive come icona nei poster trovati da Steyerl nel cinema e in quelli utilizzati durante le manifestazioni a sostegno del Kurdistan. Spesso, queste immagini decorate dai colori della bandiera curda sono accompagnate da scritte che ne evidenziano il valore simbolico: Martire Ronahi, fatta prigioniera dalle forze di sicurezza turche come combattente nella Free Womens Army in Kurdistan e assassinata. I rivoluzionari caduti sono immortali


Poster raffigurante Sehit Ronahi

Il poster viene trovato accanto a quelli di pellicole erotiche, come se anche lei fosse una pin-up, un’icona da adorare, lontana e irraggiungibile. Nel Novembre del mondo, entrambe le immagini non sono niente di nuovo, commenta Steyerl, e proprio per questa loro non-unicità dimostrano come possano viaggiare quando sono riprodotte tecnicamente, diffondendo posture eroiche”. Ma c’è un collegamento molto più forte: in che modo l’immagine della pin-up erotica e quella di Andrea Wolf in un film amatoriale sul kung-fu possono parlare di terrorismo, globalizzazione, colonialismo e guerra? Steyerl ce lo mostra nella sua opera: le sequenze di danze erotiche di donne in costumi gemmati, guardate con desiderio talmente materiale da equivalere a una predazione fisica di chi assiste allo spettacolo sono accompagnate da un dialogo sulla violenza: Ecco la violenza, parola e atto. La violenza divora tutto ciò che tocca. Raramente, il suo appetito vorace è soddisfatto. Tuttavia, la violenza non solo distrugge, ma crea e modella. Esaminiamo da vicino questa creazione pericolosamente demoniaca – un nuovo essere racchiuso e contenuto nella morbida pelle di una donna. Queste sono le battute di apertura di Faster, Pussycat! Kill! Kill! (1965), film di Russ Meyers. Nella citazione dell’opera c’è una risemantizzazione delle immagini come testimoni della violenza dello sguardo che trae piacere dalla messa in mostra del corpo altrui e lo oggettivizza. La stessa proiezione sembra rifiutarsi a un certo punto di mostrare lo spettacolo e crea disturbi e glitch che ne impediscono la visione, consentendo una transizione verso un’altra scena.


Poster e clip da Faster, Pussycat! Kill! Kill!, Russ Meyers, 1965

La donna affascinante e “dal petto prominente” diventa vendicatrice dello sguardo sfacciato e inizia a picchiare lo spettatore – che, tra l’altro, siamo proprio noi, dato che l’obiettivo non consente una visione diversa da quella frontale- mentre le donne sferrano colpi inclementi al nemico. Questo è il modello da cui scaturisce il film amatoriale di Steyerl degli anni ‘80. Il cinema è traccia del cinema, ma in certi casi la finzione ispira la realtà: alla fine di November Hito Steyerl porta la testimonianza di un ex combattente nella Germania dell’Ovest che afferma che molte delle scene di guerriglia e sequestro che sono state girate in film come La Battaglia di Algeri (1966) o State of Siege (1972) sono state da loro studiate e, in certi casi, riprodotte fedelmente. L’immagine controlla le nostre azioni, ci spinge a pianificare e dalla finzione si arriva alla possibilità di ingaggiare una lotta reale e concreta. In questo caso, se la figura della donna armata di pistola può essere inizialmente vista come parte di un gioco di seduzione, col passare del tempo concretizza la visione materiale di un essere femminile dotato della possibilità di uccidere: Andrea parla nei nostri schermi direttamente dal nord dell’Iraq, spiegando qual è lo scopo della loro missione: Ho partecipato alla sinistra rivoluzionaria in Germania e con altri compagni abbiamo studiato nel mondo quei processi a cui avremmo potuto prendere parte per imparare qualcosa. Altri compagni sono già qui, stiamo partecipando all’educazione e alla formazione politica. Vogliamo capire i principi del partito e vogliamo fondarne uno nel nostro paese alle condizioni che esistono lì. È parte integrante dell’opera dell’amica, “recita” il suo ruolo. Eppure, la registrazione è mosaicata, la definizione del suo volto ravvicinato è stranamente incoerente con la vicinanza dell’obiettivo: l’inquadratura inizia a distanziarsi e Andrea non è davvero ripresa in tempo reale. L’immagine mostra i contorni di plastica grigio siderale di un televisore, la donna è ancora una volta un’immagine registrata.


Clip da November, Hito Steyerl, 2004

Sulla maggiore o minore definizione di un’immagine sono intervenuti molti studi. Uno dei più conosciuti appartiene a Marshall McLuhan in Understanding Media (1964) che distingue tra media caldi e media freddi. I primi sono quelli che permettono la massima risoluzione dell’immagine, in modo da ridurre la partecipazione dello spettatore; i media freddi, invece, complice la scarsa qualità dell’immagine, consentono una partecipazione attiva, sociale e cognitiva degli spettatori che devono integrare percettivamente quanto vedono. L’immagine televisiva di Wolf mostrata in November è scarsa di dati, così come quella presentata sul poster attaccato al cinema: sono quelle che Steyerl definisce “immagini povere” (poor images). In un suo famoso saggio, In Defense of the Poor Image (2009), la regista definisce questo tipo di immagini come le «sottoproletarie della società classista delle apparenze». Sono immagini che vagano senza sosta, complice la loro leggerezza che, privandole di definizione, gli consente di avere una maggiore capacità di spostamento da un dispositivo all’altro, da un luogo all’altro. Steyerl le definisce lo «spettro di un’immagine», un fantasma, come Wolf, distribuite gratuitamente perché compresse, ridotte, trasferite da un canale all’altro illegalmente. Data la loro capillarità, queste immagini mettono in crisi il tentativo di limitarne la diffusione, cosa che provoca problemi relativi al copyright. Eppure, il loro valore reale, la loro aura, non sta chiaramente nell’originalità – perduta per sempre in un labirinto di copia incolla, rinominazioni, ricodificazioni ecc. – ma nella loro capacità di diffusione ad ampio raggio e in tempi brevissimi.

Grazie a questo tipo di immagini sottoproletarie, Andrea Wolf si è diffusa come icona in tutto il mondo. L’immagine di Wolf ha sostituito il suo corpo in ciò che lo storico dell’arte Hans Bredekamp chiama Atto iconico sostitutivo. In questa condizione corpo e immagine, che sono due entità separate, sono in realtà identiche. Un’immagine può essere venerata al pari di un corpo, come sua vera icon, in riferimento alla teologia cristiana per cui il panno su cui Cristo si asciugò il volto ne riportò impressi per sempre i connotati. Questa immagine ha un potere sovrannaturale che è insito nella sua capacità di riproduzione. In quanto simbolo di qualcosa di straordinario, la sua riproduzione ha la stessa validità dell’originale: nei tempi antichi si credeva in una vera e propria capacità organica dell’immagine di autoriprodursi; oggi questa capacità è lasciata alla tecnologia che con un semplice gesto di copia-incolla può portare alla diffusione di un’immagine in ogni parte del mondo, su ogni supporto e dispositivo, attraverso i media più disparati. Per questo motivo Andrea Wolf è un poster, ma è anche la pellicola super8 di un film del 1983, l’immagine mosaicata su un televisore anni ‘90, un volto in fotografia. L’icona-immagine ha una corporeità che rassicura nei momenti di incertezza e pericolo, alimentando nuove speranze di identificazione tra il corpo – ormai inesistente – e l’immagine – unica testimonianza rimasta. Nei periodi più tumultuosi l’immagine ha il compito di autenticare la realtà.

L’icona-immagine deve essere vagante perché ha il compito e il potere di testimoniare la realtà dei fatti. Le traveling images sono icone globali di resistenza, Andrea come immagine è parte di questo concetto che testimonia che la resistenza curda esiste ed è qualcosa per cui vale la pena lottare, anche a costo di andare contro al proprio paese di origine. I fatti e la cronaca parlano chiaro a più di venti anni di distanza: la  Germania è accusata di essersi schierata a favore dell’occupazione turca, supportando materialmente il governo. Steyerl in November dà la parola ai manifestanti curdi che, ripresi durante una marcia, proclamano che i carri armati tedeschi hanno distrutto i loro villaggi e che le unità di tortura della polizia turca sono state addestrate in Baviera. Sono gli stessi cattivi armati di pistole che rappresentano la parte negativa del primo film amatoriale della giovane Steyerl. Nel presente di November, tutto quello che riguarda il caso Wolf è contestato, poiché il governo turco sostiene che i combattenti curdi del PKK siano stati uccisi in uno scontro a fuoco nell’ottobre del 1998, senza nessuna menzione delle torture e delle sevizie inflitte prima che fossero uccisi. Nessuna testimonianza ufficiale contesta questa versione. Eppure – continua la narrazione- del gruppo sorpreso dall’attacco ci sono sopravvissuti, testimoni oculari di quanto è accaduto che erano presenti nella grotta in cui, si pensa, sono stati poi tumulati i corpi martoriati dei combattenti uccisi, in certi casi profanati prima di essere sepolti in avanzato stato di decomposizione. Al di fuori del documentario di Steyerl, quotidiani internazionali scrivono che molte sono le fosse comuni che sono state aperte negli ultimi venti anni nella regione curda occupata dai turchi. Si parla di una grotta con corpi in decomposizione di persone senza nome, o di esplosioni necessarie a occultare le prove.

Come si evince dal film, i governi occupanti e i loro alleati preferiscono pensare che alcuni dei soggetti più pericolosi siano ancora vivi, che abbiano semplicemente finto di morire per continuare in sordina la loro attività terroristica. Steyerl utilizza i momenti salienti dell’ultimo film di Bruce Lee, Game of death (1972), per descrivere l’isteria del governo turco: il protagonista, una star del cinema, inscena la sua morte per sparire sotto copertura. Il film venne distribuito cinque anni dopo la morte di Lee e alcune scene del funerale girate per il film furono utilizzate per il suo vero funerale; per questo motivo, molti fan pensarono che anche lui avesse inscenato la propria morte per tornare solo quando sarebbe stato il momento giusto. 

Per quanto questa possa essere la lecita fantasia della trama di un film e dei fan di un attore, continua l’artista nell’opera, in questo caso siamo di fronte alla posizione ufficiale di uno Stato: Andrea Wolf per lo Stato turco (e le autorità tedesche) è ancora viva. È qui che la mancanza di un’immagine come testimonianza della morte di una persona diventa uno strumento potente nelle mani di coloro che non accettano responsabilità, ma premono per mantenere una condizione di allerta perenne in funzione dei loro interessi. Andrea Wolf non deve essere autenticata, non deve avere un volto, una tomba, un corpo e, semmai dovesse averlo, dovrà essere il più vicino possibile all’immagine del terrore. La possibilità che i manifestanti diffondano il volto e il messaggio di questa combattente crea un cortocircuito nella narrazione ufficiale che non può permettersi di far ricadere su di sé la colpa della morte di un individuo attraverso torture e sevizie. È una forma di iconoclastia contraddittoria che non agisce direttamente sull’immagine distruggendola, ma ignorandola totalmente e, per questo, dichiarandola falsa nella sua intenzione di celebrare una martire. Due sono i risvolti: il primo è che si dichiara l’allerta per la presenza di una persona descritta come pericolosa dalla narrazione dominante, che non esiste più di fatto, ma alimenta la fantasia di chi diffonde la falsa notizia. In secondo luogo, il governo turco è colpevole di utilizzare i propri mezzi per alimentare l’idea di una terrorista fantasma utilizzando una persona scomparsa come capro espiatorio di una serie di operazioni su un suolo occupato illegalmente. Questo tipo di narrazione è doppiamente dannoso: per Andrea, a cui non viene riconosciuto il diritto di essere morta; per le persone che sono legate a lei perché non hanno idea, dopo una narrazione così capillare, se sia giusto o meno piangerne la scomparsa. Che sia ancora viva è una speranza mutilata, comatosa. L’artista si chiede: come dovrebbero sparire le persone nell’epoca della totale supervisione? Quale enorme sforzo istituzionale e legale deve essere fatto per tenere le cose nascoste?

Le arti marziali, dove non è previsto l’utilizzo di armi in combattimento, fanno parte del repertorio dei buoni nel film girato da Steyerl negli anni 80. Andrea ha praticato arti marziali nella finzione e nella realtà, insegnandole alle combattenti curde. Data la storia di diffusione itinerante delle arti marziali attraverso monaci, militari, e appassionati, queste diventano per Steyerl una metafora: sono il simbolo dell’erraticità per eccellenza, priva di barriere e confini sociali. Secondo la leggenda, Bodhidharma, considerato padre delle arti marziali, viene ucciso in Cina da un monaco invidioso. Dopo qualche tempo dalla sua morte, è visto vagare per il mondo privo di un sandalo, poiché l’altro era rimasto dentro alla sua tomba. Per Steyerl il sandalo di Andrea è la sua immagine che continua a circolare nel mondo creando uno sbilanciamento. Si può operare a colpi di atto iconico, rischiare di divenire icone, ed ecco che l’immagine diventa un’arma di controllo: lo spettatore, raggiunto per via mediale da questi eventi, si schiera e diventa automaticamente parte del conflitto. Sotto questo aspetto, il governo turco ha agito diabolicamente evitando di mostrare fotografie o altre testimonianze che riguardassero i ribelli che tentava di annientare, a differenza del caso di Guantanamo e degli Stati Uniti dove osservare l’immagine delle umiliazioni inflitte al nemico provoca empatia in chi guarda, a prescindere dal crimine commesso. Lo strumento visivo può creare conflitto ed essere usato per chiedere giustizia per i condannati, o può essere rivelatore di atrocità e creare indignazione contro politiche estere di distruzione. In ogni caso, a governare le fila del mondo, c’è sempre lei, non una persona, ma un’immagine in carne e ossa.                                        

   
Clip da November, Hito Steyerl, 2004
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