Un loop liminale

Un loop liminale
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L’ultima volta che sono stata al Teatro Argentina è stato un po’ di tempo fa, sono andata a vedere l’Amleto diretto da Corsetti. Sono entrata e sono uscita come entro ed esco da anni da questo teatro, con l’eterna convinzione che il fantasma di Ronconi graviti tra i palchetti e la platea e sussurri nell’orecchio dei nuovi direttori il programma della stagione: c’è sempre Pirandello, c’è sempre Pasolini, c’è sempre, ci mancherebbe, qualche pièce di Shakespeare. Sia mai deludere le vecchiette della Roma bene abbonate da anni al palchetto centrale, accompagnate da questi mariti stanchi e annoiati che vorrebbero solo andare a dormire e, in effetti, a un certo punto si addormentano sulle poltrone molto comode della platea. 

Questa sera, 20 settembre 2023, è impossibile addormentarsi perché lo spettacolo utilizza luci stroboscopiche, ci sono cartelli sparsi per tutto il teatro che in caps lock danno questa specifica: ATTENZIONE NELLO SPETTACOLO VERRANNO UTILIZZATE LUCI STROBOSCOPICHE. 

Foto di: Julian Röder – Roma Europa Festival

Lo spettacolo in questione si chiama Angela: a strange loop, a cura di Susanne Kennedy e Markus Selg ed è parte della rassegna annuale del RomaEuropa Festival. 

Susanne Kennedy è una regista teatrale tedesca la cui opera ruota intorno ai temi del post-umano e dei rapporti di potere tra corpo e macchine e che si è imposta nella scena internazionale grazie a trasposizioni come Die Selbstmord-Schwestern – The Virgin Suicides (dal romanzo di Jeffrey Eugenides già trasposto sullo schermo da Sofia Coppola) o Einstein on The Beach del compositore minimalista americano Philip Glass. Da diversi anni si avvale della collaborazione di Markus Selg alla scenografia, artista visuale che lavora con tecnologie immersive e in realtà aumentata con cui ha prodotto Oracle (2020),  I AM (VR) nel 2021 e con cui collabora anche in questo nuovo lavoro.

Il palco ha una scenografia imponente, ricostruisce una stanza (o una cella?) con solo un tavolo verde al centro, qualche sedia intorno e due porte, una a destra e una a sinistra, in basso a destra c’è un materasso appoggiato per terra, sopra vediamo Angela fissare il vuoto. In alto a sinistra c’è anche una tv all’inizio spenta. Dietro la scenografia reale, c’è una scenografia fittizia, realizzata attraverso generatori di frattali 3D da Markus Selg, che serve come sfondo della stanza, una finta cucina con una finta ventilatore da soffitto. In alto in colore rosso una lunga fila che ripete la stessa parola: EXIT. Il primo impatto è quello di guardare la ricostruzione artigianale di un frame di un videogioco e la sensazione è quella di un dislocamento, non mi sembra di stare dentro a un teatro di inizio ‘700. 

Lo spettacolo comincia nel momento in cui Angela inizia a parlare, ma non è l’attrice a farlo, una voce dagli altoparlanti doppia il suo labiale, se quella sia o meno la sua voce non lo sapremo mai. Si crea subito una frammentazione tra voce e corpo, tra identità e rappresentazione. Un gatto animato appare nella tv a sinistra, è una sorta di narratore onnisciente, che a volte da delle indicazioni al pubblico – ci dice è che non stiamo vedendo qualcosa di reale, al massimo una replica del reale, fatta di interviste e rielaborazioni. Una storia dentro una storia, come una scenografia dentro una scenografia. Il gatto sembra un personaggio di Pets trapiantato in una puntata di Black Mirror, fa crescere quel senso di generale straniamento. Quelle zone di uncanny di cui parlava Mishimo Mori nel suo omonimo saggio del 1970: più l’aspetto di un robot, in questo caso di un personaggio animato, è simile all’essere umano, più la risposta di colui che guarda è positiva, fino ad arrivare a una soglia che rende la visione improvvisamente perturbante. Lo straniamento si trasforma in una sorta di repulsione. In tutto lo spettacolo si aprono zone di uncanny e lo spazio teatrale stesso sembra diventare una zona inquieta. Lo spazio che vediamo – perturbato dalle parole che ascoltiamo – diventa una soglia. Una soglia nella quale Angela è intrappolata, nella quale soffre senza che ne comprendiamo il perché. Le persone possono entrare e uscire dalle due porte, ma lei non si avvicina mai a nessuna delle due. Sembra abitare la zona di passaggio di due spazi alternativi, rimane rinchiusa in questo non-luogo, costringendoci a guardarla nella sua routine fatta di live social, conversazioni morbose con un peluche a forma di gatto e visite di sua madre, il suo ragazzo, una sua amica. Susanne Kennedy vuole creare una rappresentazione teatrale e fisica di uno spazio liminale: Angela è irrimediabilmente fuggita dal mondo reale, ritrovandosi in una sorta di soglia temporanea, prima di poter accedere a un’altra realtà. Questa realtà potrebbe essere qualsiasi cosa, ma in un momento in cui si parla moltissimo di spazi liminali legati ad internet, il web come luogo in cui essere altro da te, è facile pensare allo spazio in cui angela si trova come ad un limbo tra reale e virtuale, incapace di un passaggio definitivo. 

Foto di: Julian Röder – Roma Europa Festival

Valentina Tanni nel suo ultimo saggio, Exit Reality, uscito per Nero Edizioni, può aiutarci a sciogliere la complessita del loop liminale in cui si trova incastrata Angela.

Il libro analizza il concetto di apeirofobia – ovvero la paura dell’infinito – applicandola al virtuale. Oggi possiamo definire internet stesso una sorta di soglia in cui le combinazioni diventano infinite, forse è proprio qui la ragione che fa entrare in loop Angela: l’incapacità di oltrepassare la soglia delle possibilità infinite. Anche i riferimenti fatti da Tanni alle cosiddette estetiche di internet e definite sul progetto collaborativo The Aesthetics Wiki come “un insieme di immagini, colori, oggetti, musica e testi che creano un’emozione, hanno un determinato scopo e aggregano una comunità specifica”, ritornano costantemente nello spettacolo: la scenografia fittizia cambia spesso forma, dalla stanza iniziale passiamo a delle vere e proprie backrooms, ambienti che riproducono architetture infinite, ripetitive, alienanti. Le backrooms sono il risultato di una soglia: l’idea di essere intrappolati in una perenne fine del mondo. Una sorta di loop anche qui.

La storia di Angela è “un processo alchemico che passa attraverso tre fasi: la fase nera iniziale (NIGREDO), la fase bianca intermedia (ALBEDO) e culmina nella fase rossa finale (RUBEDO).” Queste fasi non hanno, in realtà, un vero sviluppo narrativo, ma percettivo. Vari personaggi si alternano sul palco: la madre, il fidanzato e un’amica di Angela. Ma tra questi non sembra esserci alcun vero legame, assolutamente niente di familiare, si muovono e parlano come fossero stati scritti con Chat GPT, i leitmotiv, come le loro risate onomatopeiche a suon di “ah-ah”, risuonano come colpi di tosse invece di momenti di sollievo. Tutti i personaggi sembrano preoccupati per la salute mentale di Angela ma non fanno effettivamente nulla per aiutarla a uscire dal suo stallo. Nessun personaggio ha una profondità psicologica, sembrano esistere solo nel momento in cui vengono guardati dal pubblico, in funzione di Angela, che a sua volta è in funzione del suo loop mentale.

Solo nella seconda fase irrompe un nuovo personaggio, una sorta di angelo-guida, che fa uscire per la prima volta Angela da una delle due porte della scenografia, portandola in una realtà altra. Il palco rimane vuoto, continuiamo a seguire la vicenda della protagonista attraverso la scenografia fittizia. C’è una sorta di rinascita: Angela riesce momentaneamente a uscire dal loop e a partorire una nuova sé stessa (un avatar?) ma ancora una volta viene risputata nella scenografia reale, ritornando non più sola, ma con un feto che partorisce dalla bocca. “Hai vomitato un bambino” le dicono. Il feto è posto al centro di una sorta di rituale: viene avvolto da luci stroboscopiche, poi viene eretto in suo onore un grande totem di feti, fatto di tante sculture (o sue copie) posizionate una sopra l’altra. Contemporaneamente nella televisione in alto e nella scenografia virtuale vediamo il corpo di un feto disgregarsi e ricomporsi, una citazione in loop della scena di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick con tinte Lynchiane. 

Foto di: Julian Röder – Roma Europa Festival

La storia rimane consapevolmente oscura. La creazione del dispositivo teatrale: la doppia scenografia, come il lavoro di playback sugli attori, sembra essere l’intenzione principale della regista. L’obiettivo è quello di immergere lo spettatore in questa “zona” fisica, mentre raccontare una storia passa in secondo piano. Angela attraversa una sorta di catarsi, che la porta alla sua trasformazione fisica mentre lo stesso accade alla realtà circostante. Nel momento in cui rientra nella scenografia reale, si ha l’impressione che il loop stia per ricominciare. Il loop in effetti ricomincia, ma è un loop diverso. Assistiamo alla copia del loop precedente, che forse è la copia di un loop ancestrale, forse Angela muore e rinasce sempre. Ce ne rendiamo conto quando il fidanzato, che morde una delle mele sul tavolo, riesce finalmente a mangiarla, mentre nella scena iniziale confessava che la mela era finta, una parte della scenografia. Siamo in un loop diverso, forse più simile alla realtà o forse è la soglia stessa che si sta assottigliando sempre di più. Il limbo tra una realtà e l’altra, tra il fisico e il virtuale, tende sempre di più verso una coincidenza in cui non riusciremo più a capire dove saremo davvero immersi.

Noi, come spettatori, possiamo solo guardare e farci qualche domanda: mi guardo intorno chiedendomi se tutte quelle vecchiette sedute in prima fila non siano altro che dei replicanti fatti in serie, copie di un’altra soglia in cui adesso al Teatro Argentina in scena c’è Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello e loro stanno applaudendo felici, e il fantasma di Ronconi le guarda soddisfatto.

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