Oltre il visibile, sotto il lago d’argento

Oltre il visibile, sotto il lago d’argento
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Under the Silver Lake è un film passato in sordina – almeno in Italia, dove non ha mai ricevuto distribuzione cinematografica – nonostante la partecipazione in concorso durante la 71° edizione del Festival di Cannes. Nel suo terzo lungometraggio, il regista David Robert Mitchell si cimenta in un genere apparentemente retrò e antiquato, quello del noir ambientato nelle grandi città statunitensi. Il protagonista Sam, interpretato dall’attore britannico Andrew Garfield, non sembra avere uno scopo nella propria vita: trascorre le proprie giornate galleggiando – metaforicamente e non, considerando che il complex condominiale in cui affitta un appartamento è dotato di piscina. Quando non è a spiare i vicini di casa dal proprio balcone, Sam vaga senza meta per Los Angeles, in una città sinistra dove anche la luce del sole (non esistono nuvole in California) sembra nascondere qualcosa di sospetto. 

La vita di Sam prende una piega inaspettata quando una ragazza appena conosciuta, di nome Sarah, sembra svanire nel nulla. Il protagonista si invaghisce di Sarah allo stesso modo in cui ci si poteva innamorare di un ritratto dipinto nel XVI secolo: osservandola da lontano, scambiando poche interazioni. L’unico momento in cui i due condividono qualcosa è la visione del film How to marry a millionare di Jean Negulesco: una favola della Hollywood degli anni Cinquanta con protagonista la star della Hollywood degli anni Cinquanta -Marilyn Monroe. All’alba del giorno dopo Sarah svanisce, fornendo il pretesto per dare avvio allo sviluppo vero e proprio del noir, nonché alla ricerca spasmodica della verità dietro la sparizione. 

Under the Silver Lake è un film che chiama in causa l’intelligenza e lo spirito di osservazione dello spettatore, a cui viene richiesto di aiutare attivamente Sam nella sua ricerca. L’indagine scorre apertamente su due livelli: mentre il protagonista cerca indizi nascosti nella città, allo stesso modo lo spettatore deve cogliere i riferimenti e i collegamenti ipertestuali disseminati in tutto il film. Mitchell rinnova il genere del noir apportando alcune lievi modifiche: avvicinandolo al mondo del videogioco, dove il giocatore deve portare avanti la propria quête, fa sì che il film non si configuri come una semplice storia di indagine. Il senso di inquietudine, percepito solo dallo spettatore, pone il protagonista in una posizione di dialogo con chi lo sta osservando muoversi in città, fino a che lo spettatore stesso arriva a dubitare di essere osservato a sua volta da un terzo elemento esterno. Sam accumula indizi dai luoghi più disparati possibili, partendo dalle principali produzioni culturali e di intrattenimento della cultura di massa: scatole di cereali, fumetti underground, dischi in vinile ascoltati al contrario. Invece di seguire una classica traiettoria di inchiesta, sceglie una via molto più nascosta e tortuosa, convinto che ogni prodotto di consumo nasconda un segreto da svelare. 

Sam dimostra all’incirca trent’anni e si configura come un personaggio chiaramente ancorato a un mondo che non esiste più, quello della sua infanzia e adolescenza, agli anni in cui dilagavano i primi giochi Atari e Nintendo, e di cui il protagonista ancora indossa magliette dedicate. Non solo Sam osserva la realtà intorno a sé attraverso il filtro dei media che lo hanno influenzato durante i suoi anni di crescita, ma addirittura arriva a comportarsi seguendo alcuni schemi narrativi ben consolidati dalla tradizione, assumendo il ruolo del salvatore della povera damigella in pericolo – non è un caso che in uno dei primi frame del film abbia indosso una t-shirt a tema Jungle King, gioco arcade sviluppato dall’azienda giapponese Taito e basato sul salvataggio di una principessa nella giungla. La vicenda prende vita nell’epoca contemporanea ma Sam non si preoccupa mai di uscire di casa con un telefono cellulare o, ancora più banalmente, di fare una ricerca su internet. Il suo metodo di inchiesta è un metodo analogico guidato dallo stesso spirito che osservava nei film, nelle animazioni, nei fumetti e videogiochi consumati nel corso della sua adolescenza. 

Non sono solo i riferimenti alla cultura di massa a guidare Sam nelle sue gesta: un’esplicita e più volte reiterata associazione ai personaggi protagonisti dei lavori di Alfred Hitchcock rende ancora più immediato ed evidente il rapporto che intercorre tra il visibile e l’invisibile, tra una dimensione onirica e reale in cui si muove – e brancola – il protagonista. Come ogni personaggio hitchcockiano, Sam dimostra di avere un rapporto conflittuale con il genere femminile. Quando non approccia le donne con il mero scopo di soddisfare i propri bisogni fisici, assume un atteggiamento di vero e proprio disprezzo. Solo con la madre e con Sarah sembra intrattenere un rapporto sereno, anche se la madre è un personaggio che non si vede mai: Sam interagisce con questo personaggio esclusivamente al telefono e lo spettatore ne sente solo la voce. Nonostante una parte della critica si sia espressa negativamente riguardo la caratterizzazione del personaggio protagonista – accusato di romanticizzare fuori tempo massimo il filtro del male gaze attraverso cui conduce la propria esistenza – Sam proietta i propri bisogni su Sarah, esattamente come Scottie aveva fatto qualche decennio prima con Judy / Madeleine in Vertigo. Entrambe le figure femminili, bionde, angeliche, apparentemente inaccessibili ed evanescenti – le due spariscono improvvisamente – sono, per gli occhi dei rispettivi protagonisti, un’ancora di salvezza e lo scopo della propria esistenza, una possibilità che la vita su questa Terra abbia ancora un senso e per cui vale la pena portare avanti una ricerca spasmodica, fino a perdere sé stessi.

Sam è così preda delle proprie convinzioni – che lo portano ad avere vere e proprie allucinazioni – , così immerso nel mondo astratto delle leggende e dei miti della città, degli spiriti di cui Los Angeles sembra infestata, da disprezzare tutto ciò che vede e ricercare un significato più profondo in un mondo altro, alternativo al visibile e al concreto. Con la complicità di un amico e della sua videocamera-drone, il suo sguardo “entra” in casa di una donna bellissima con lo scopo di spiarla mentre si spoglia. Nel momento in cui quest’ultima, ignara di essere osservata, interrompe l’atto di svestirsi per abbandonarsi in un pianto disperato, si crea una frattura tra ciò che Sam si immagina e ciò che vede. La donna che piange in solitudine è un monito rivolto al protagonista e allo spettatore: nel momento in cui si superano i confini convenzionali, nel momento in cui ci si addentra nel profondo, non si può più tornare indietro – come un vaso di Pandora che viene aperto.

Seguendo l’istinto e alcuni sparsi indizi, il protagonista ripercorre vari principali punti di interesse di Los Angeles, dal Silver Lake (già citato nel titolo) al noto Osservatorio Griffith, dove la spettrale presenza di James Dean si concretizza in una statua dalle sembianze angoscianti, fino ad arrivare a un bunker militare. È qui che Sarah si nasconde, dopo aver preso la decisione di vivere a centinaia di metri sotto terra diventando la moglie di un ricco miliardario, aderendo a una setta che prevede, trascorsi sei mesi dall’ingresso nel bunker, una “ascensione” –  in altre parole, autodistruzione. Quando Sam ha la possibilità di parlare con Sarah, prova a dissuaderla dalla scelta che ha compiuto, fino a che Sarah non chiede apertamente se «sia stato un errore, scendere quaggiù» (Do you think it was a mistake, coming down here?). Alla domanda, Sam risponde con un laconico «Forse» (Maybe) e si tratta di una risposta significativa, dato che ha impiegato una quantità di tempo e risorse mentali non indifferenti per arrivare a scoprire dove si trovasse la ragazza. È anche significativo il fatto che il viaggio di Sam si concluda dentro una caverna: invece che uscire, come facevano i protagonisti del mito di Platone, narrato nel libro VII della Repubblica, Sam volontariamente entra dentro una caverna buia e senza via d’uscita per cercare la verità e scoprire cosa sia successo a Sarah. Il mondo esterno non sembra essere sufficiente al protagonista, non sembra dare risposte accettabili e perciò si entra in un terreno sfuggente e inafferrabile, quello astratto dei miti e degli spettri, delle grandi corporates che governano tutto, dei pochi uomini al potere che manipolano tutta la cultura di massa. Quel maybe pronunciato in risposta a tutto rappresenta la presa di coscienza da parte del protagonista – che rispetto a Scottie, suo illustre precedente nel Vertigo di Hitchcock, ha imparato la lezione. Chi ha ragione in questa storia? Dove sta la verità? A chi bisogna credere? Under the Silver Lake prova a dare una risposta al senso di spaesamento e disorientamento dell’uomo postmoderno: in una società iperconnessa e che si nutre voracemente di cultura visuale, dove ci è spesso concesso vedere ben oltre quanto sarebbe necessario, le risposte devono essere ricercate in ciò che sta sotto i nostri occhi tutti i giorni. Più si scava a fondo e meno risposte riusciamo a trovare. «Where’s the mystery that makes everything worthwhile? We crave mystery because there’s none left».

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