La casa – Editoriale

La casa – Editoriale
Elisabetta Giardina per l'editoriale di Stanca
[Tempo di lettura: 5 pignalenti]

Il terzo numero di Stanca parla di casa. Per scriverlo ci siamo immaginati di fermarci proprio sulla soglia, nei pressi della staccionata fotografata da Elisabetta Giardina. Buttiamo uno sguardo su quello che succede dentro e uno sguardo su quello che succede fuori. Alcuni dei pezzi ci proiettano in uno spazio chiuso e intimo: scrutiamo dentro casa per guardare noi stessi. 

In Io sono come la mia casa Irene Frau fa entrare il lettore in uno spazio di cui descrive in modo frammentato i dettagli più minuti. Ogni elemento affastellato in quelle stanze racconta qualcosa di intimo e ricomporre l’immagine complessiva del bilocale vuol dire mettere insieme i pezzi della sua stessa esistenza. In effetti per stare bene nello spazio in cui viviamo, questo deve in qualche modo somigliarci. Le case si riempiono di souvenir, ammennicoli accumulati dalle nostre esperienze passate e presenti, e il rapporto fisico che si crea tra gli oggetti disposti nelle stanze è specchio dei rapporti emotivi che ci legano a quei vissuti. 

Ma quanto è difficile sentirsi a casa?

Stefano Vernamonti racconta una favola sulla nebbia inquieta, che non riesce a trovare la propria casa. Il suo riuscire a definirsi solo per negazioni, per non essere né aria né acqua, porta la nebbia a vagare mesta per la terra e per l’etere, cercando il posto dove essere accettata. La casa non è soltanto il luogo dove abitare ma prima di tutto lo spazio in cui riconoscersi: il nostro corpo è la nostra casa, la comunità a cui apparteniamo è la nostra casa, le persone – o gli elementi- di cui ci circondiamo sono la nostra casa. Non sempre il riconoscimento di questa dimensione è dato, e questo ci costringe a una ricerca che può essere frustrante e dolorosa, come nel caso de La casa della nebbia

Fabio Ciancone intervista Emanuele Trevi a partire dal suo romanzo La casa del mago (2023). Sebbene con la scrittura provi a mettere ordine nell’esperienza autobiografica, l’autore trasmette un senso di impotenza umana verso la casa e le presenze che la abitano. Trevi dice: “La casa stessa è un elemento centrifugo, è un elemento in cui entro e che non riesco a governare”. Non c’è potere sugli oggetti, anzi c’è dolore per il distacco dalle cose, che non ci appartengono ma alle quali siamo affezionatissimi. 

Nella dimensione in cui il luogo dove abitiamo assume significati che ci determinano, Maria Giardina con i tre episodi del film d’animazione La casa (2022) riflette sulla scelta di perstare, rimanere saldi e immutabili per la difficoltà di lasciare un ancoraggio e un nido, la casa appunto, che però può trasformarsi in trappola e schiavitù.  

Altre riflessioni in questo numero di Stanca ci portano fuori e considerano la casa in una prospettiva sociale. Del resto oggi in Italia la casa è una delle questioni politiche più pressanti. Il diritto all’abitare è negato da migliaia di fattori, in ordine sparso: il turismo, gli affitti brevi, la speculazione, le politiche pubbliche inadeguate, la debolezza del welfare, la precarietà, la privatizzazione. Il diritto alla casa è prima di tutto il diritto a un tetto sopra la testa, a uno spazio adeguato dove vivere. Ma è anche il diritto ad avere un orizzonte fisico dove collocare momenti di condivisione, esperienze e ricordi. Ingrandendo la prospettiva la casa è la città, è il posto dove viviamo. Abbiamo diritto a una città che non sia solo spazio commercializzabile, dove si produce, ma anche luogo dove ci si ritrova, spazio collettivo e autodeterminato. Anche la città o lo Stato, come la casa, sono di chi li abita. 

Franco Cimei fa un reportage da Gagliano Aterno, provincia dell’Aquila, dove l’attuale sindaco ha iniziato una strada di sviluppo sostenibile delle aree interne: autosufficienza energetica, progetti di ricerca antropologica, spazi e servizi comuni per la popolazione. Cimei intervista l’architetta Virginia Stamitti, attiva adesso a Gagliano, che racconta del punto di rottura con l’architettura accademica in favore di cantieri partecipati, nati dal basso e sostenibili, dove a partire dalla collaborazione tra le forze del cantiere, passando per i materiali impiegati, fino ad arrivare alla funzione di ciò che si costruisce, si sperimenta un senso nuovo di casa e di comunità.       

Federica Ranocchia tiene insieme una prospettiva ampia e ristretta: è casa lo spazio dove si abita e lo Stato dove si vive. Con l’occupazione israeliana della Palestina, i palestinesi sono stati privati di entrambi. Attraverso il commento a una serie di fotografie e video-reportage, Ranocchia racconta la negazione del diritto ad abitare durante i conflitti.  

Continuando a parlare del rapporto tra casa e guerra, Vittoria Brachi rompe la soglia tra dentro e fuori e mette in crisi l’idea di casa come nido attraverso House beautiful. Bringing the war home, una serie di fotografie dell’artista Martha Rosler. Con i collage che accostano la casa borghese alla violenza della guerra, Rosler mette in evidenza il nostro ruolo di complici. La casa occidentale degli anni ‘70 e dei primi ‘00 non è più un luogo sicuro e patinato, dove le immagini di guerre lontane sono viste solo attraverso la tv. Ci troviamo nostro malgrado con i morti in casa e gli sfollati in salotto; la guerra non è più una cosa altra dalle nostre esistenze proprio perché ci piomba in casa e ci costringe a fare i conti con le nostre responsabilità storiche.   

Nel momento in cui la casa diventa lo scenario di poteri esercitati e subiti, o di prigionia, luogo in cui si subisce anziché autodeterminarsi, è perché replica le dinamiche di oppressione che costruiscono i rapporti sociali in relazione al genere, alla classe e a molto altro. Alla fine, anche quello che consideriamo più intimo, che si svolge nel luogo privato per eccellenza, la casa, ha spesso la sua natura politica e collettiva, ha le radici fuori dallo spazio domestico. 

Francesca Martelli in un pezzo a metà tra recensione e longform parla del testo La filosofia della casa di Emanuele Coccia (2020) e confuta la prospettiva dell’autore, per il quale la casa è uno spazio morale in cui la persona che abita sceglie di quali oggetti e persone circondarsi, in modo da creare una “armonia arbitraria ed effimera” per il proprio godimento. Per Martelli questa visione non può che coincidere però con quella del “padrone di casa”, cioè colui che ha il potere di stabilire il funzionamento di quell’ecosistema, e questo potere non è dato a chiunque nello stesso modo. Il potere della proprietà privata è la dinamica patriarcale. I due poteri si equivalgono e si fondono e la casa diventa luogo di oppressione.   

Lo spazio dove viviamo prende forma attraverso il design degli oggetti che lo compongono. La loro forma e la funzionalità sono elementi politici e, come tali, ci appaiono con la doppia faccia dell’emancipazione e della subordinazione. Dalla cucina modello Francoforte, progettata nel 1926 da Margarete Schütte-Lihotzky come soluzione per la liberazione delle donne nella loro esistenza domestica, alla casa domotica di oggi, Giovanni Padua ripercorre la storia del design domestico che rischia di trasformare la casa in un luogo di isolamento, accentuando le dinamiche di oppressione, specialmente per le donne.
Tutte le direttrici esplorate fin qui si riuniscono in La casa tra rifugio e campo di battaglia. Qui Sofia Racco analizza tre film – The Dreamers (2003), The Last Black Man in San Francisco (2019) e Bush Mama (1979)- e racconta la casa prima come un microcosmo chiuso e perturbante, poi – con le parole di bell hooks- come luogo di resistenza e di contaminazione inevitabile tra dentro e fuori, pubblico e privato, politico e personale.    

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