Il paese è essenziale. In principio c’erano solo le case. Le case sono la sua essenza, la sua necessità.
“Ah bomberone! Ho ‘ste calze che se non le compra non se tromba”. Il ragazzo napoletano alla stazione dei bus di Roma Tiburtina cerca di attaccare bottone. Lo scaccio a gesti – non dico una parola. Sono già in ansia perché mi si è rotto il cellulare e non ho rete da due giorni, Virginia mi aveva avvertito che a Gagliano Aterno comunque il cellulare non avrebbe preso. Le circostanze mi hanno anticipato. Ora sto cercando di capire da quale pensilina partirà l’autobus ricorrendo a gli schermi sfarfallanti dell’autostazione. Arrivato all’Aquila prenderò il regionale per Molina – Castelvecchio Subequo, poi dalla stazione mi farò dare un passaggio in macchina per arrivare finalmente a Gagliano Aterno.
Virginia Stammitti è laureata in architettura ma non fa l’architetto – e in questo lungo articolo cercherò di spiegare il perché – da un anno vive a Gagliano Aterno, un paese della Valle Subequana, in Abruzzo, dove insieme ad altri ragazzi abita e si prende cura della foresteria che gli è stata messa a disposizione dal sindaco per avviare nel paese dei progetti che rispondano ai bisogni degli abitanti. Gagliano oggi ha circa 250 abitanti e ha ottenuto una grande visibilità da quando è diventato uno dei più interessanti esperimenti di rilancio delle aree interne (quei territori più distanti dai servizi essenziali come istruzione, salute e mobilità).
“Quando si progetta, si progetta in pianta. Si organizza tutto dall’alto. C’è già una visione, una posizione superiore. Già questo per me era una follia” mi racconta Virginia durante l’intervista “Il disegno in pianta è spesso molto bello, c’è un’estetica che viene reputata giusta, ed è prioritaria rispetto alla funzionalità degli spazi, alla socialità di chi li vive. Il punto è proprio rimuovere questa visione dall’alto”. Siamo seduti sull’erba in un piccolo giardino pubblico del paese, intorno a noi ci sono degli attrezzi ginnici di quelli che va di moda installare nei parchi, Virginia si prende un momento per girarsi una sigaretta, poi continua: “Però cercare soluzioni e mettere in discussione sempre tutto è uno sbattimento enorme. Ad un certo punto tu dici: vabbè, ma io ho la laurea, parlo quattro lingue, che cazzo me ne frega, mi faccio assumere dallo studio a Berlino, sto là e mi pagano. Lo capisco e non voglio essere troppo critica verso chi fa questa scelta, ma la devi fare con consapevolezza. Devi essere consapevole che tu stai sostenendo quel tipo di sistema e quel tipo di valori. Devi essere consapevole di tutto il contesto etico della tua scelta”.
L’autobus viaggia a velocità costante sulla A24, l’autostrada che collega Roma a Teramo passando per L’Aquila, sono seduto al secondo piano e da qualche sedile di distanza mi godo la vista sopraelevata dal grande parabrezza. Lasciata Roma non ci vuole molto a entrare nell’Appennino. Le curve morbide delle colline fanno spazio a una serie interminabile di ponti e gallerie e dei nuvoloni cupi si alzano all’orizzonte, là dovrebbe esserci l’Abruzzo.
Lo schermo a led del bus offre generosamente ai passeggeri un aggiornamento in tempo reale sulla temperatura esterna che a ogni manciata di chilometri si abbassa di un grado: 12 – 11 – 10. Ha cominciato anche a piovere e il grande tergicristallo anteriore rintocca il tempo contrario del termometro digitale, divide in sezioni più piccole la sua discesa costante. Ora siamo a 9 gradi. Poi 8.
All’altezza del ponte di Pietrasecca i gradi sono 7. Il ponte è un lunghissimo serpentone di cemento che attraversa tutta la Valle Intensa, mentre a sinistra sulla falesia che da il nome al paese si intravedono le case a precipizio. “Il cemento è proprio il simbolo della mentalità capitalista” mi dice Virginia “è veloce ed efficiente, dopo 28 giorni è già pronto, tutto a posto, però poi dal 29° giorno inizia il processo di decadimento”. Il ponte è famoso per i suicidi e perché tra i piloni enormi e i pezzi d’intonaco crepato nel 1972 qui Fulci ha girato uno dei suoi capolavori: Non si sevizia un paperino.
Negli anni ‘70 l’Italia aveva già paura della provincia e non bisognava andarla a cercare troppo lontano da Roma. Nel film Patrizia, figlia di un palazzinaro milanese arriva in un paesino del sud per disintossicarsi ed è subito presa per l’assassina di alcuni bambini che sono morti in paese, mentre si divincola dalle accuse guarda anche lei con sospetto i paesani che le sembrano capaci delle peggiori barbarie, si consuma così anche in un thriller di serie b la guerra tra inurbamento e campagne.
Gagliano Aterno aveva già subito uno spopolamento dell’89% quando nel Settembre del 2020 Luca Santilli viene eletto sindaco a 36 anni, e tra le sue prime iniziative c’è quella di finanziare una borsa di studio in collaborazione con l’università della Valle D’Aosta. L’obiettivo è quello di portare in paese ricercatori di antropologia fornendogli un alloggio. Così è nata l’associazione Montagne in Movimento che oggi permette ai ricercatori di restare sei mesi in paese per “riattivare il tessuto sociale, tessere nuove relazioni attraverso percorsi partecipativi, catalogando storie e saperi, coinvolgendo i giovani e creando progetti”. Grazie all’implementazione di un sistema di pannelli fotovoltaici Gagliano Aterno è anche uno dei primi paesi in Italia che si avvia a diventare una comunità energetica autonoma, a produrre quindi e gestire parte della propria energia elettrica.
Scrivo queste righe di presentazione e sento già il rischio che la forza gravitazionale tipica della narrazione faccia precipitare tutto in un orizzonte degli eventi idealizzato, in un’ennesima utopia cottagecore instagrammabile. La fatica necessaria al cambiamento è la prima a perdersi nelle pieghe del tempo, non si imprime nelle panoramiche a volo d’uccello dei droni dei tanti documentari Mediaset o Rai che sono stati girati nel paese o negli sfondi delle foto con gli orti soleggiati e le cantine piene di attrezzi contadini dai nomi soltanto dialettali. Un documentario che racconta con autenticità il percorso che affronta Gagliano è Vivere la montagna di Luigi Cardi. Nelle interviste emergono le difficoltà riscontrate negli abitanti di un paese così piccolo, con una popolazione molto anziana, lontana dai servizi, spesso anche da quelli essenziali.
Quando chiedo a Virginia quale è la sua routine a Gagliano Aterno non mi accorgo lì per lì di aver commesso nella domanda un errore di prospettiva: “In generale più che una routine o una giornata tipo la cosa che più scandisce il tempo delle attività che faccio qui sono le stagioni”. Capisco parlando con lei che la giornata lavorativa tipica, quelle otto ore più andata e ritorno nel traffico, undici mesi interminabili tolte le ferie ad agosto, quello che generalmente siamo portati a considerare routine è proprio ciò che lei cerca qui di rifondare su basi alternative: “calendarizzare il mio lavoro sulla base delle stagioni è stata un passo che mi ha svoltato. Non devi più rincorrere delle attività e far quadrare delle cose. Lavorando con elementi naturali che siano i cantieri, i fermentati o le erbe diventa tutto molto più logico”. Virginia raccoglie erbe spontanee del luogo che usa per fare saponi, oleoliti, decotti e da qualche anno si è avvicinata al mondo della fermentazione con la quale si possono coltivare batteri utili al nostro organismo, per esempio conservando le verdure in una salamoia.
Virginia mi racconta di aver vissuto spesso negli ultimi anni con una media di 100 euro al mese barcamenandosi nella ricerca di woofing (progetti di volontariato in contesti rurali naturali) ed ecovillaggi che da una parte gli permettevano di soddisfare in autonomia parte dei propri bisogni (“almeno i saponi adesso non li compro più” mi dice ridendo, “quelli me li faccio tutti da sola”) e dall’altra di avere un alloggio e incontrare tante persone di passaggio con le quali oggi si sente parte di una vera e propria rete. “È uno stile di vita che alla fine ti prova, perché quando stai bene e sei entusiasta va tutto alla grande, ma poi arriva il momento in cui hai bisogno di un po’ più di comfort e allora si fa dura”.
A Gagliano Aterno è venuta anche per cercare una migliore stabilità, per mettere in pratica e divulgare ciò che ha imparato durante gli anni di formazione e pensa che qui sia possibile: “perché c’è un’amministrazione comunale, un sindaco che è accogliente e alla ricerca di soluzioni, che accoglie le nuove idee con uno spirito di cambiamento. Poi soprattutto ti da un aiuto reale per starci, per restare qui”. Appena il tempo di caricarmi di entusiasmo per la politica locale (ritengo che la difficoltà di trovare un sindaco intelligente sia seconda solo a quella di trovare un prete che disponga della stessa qualità), che Virginia si lancia in un elenco interminabile dei disagi della vita in paese: “per fare la spesa mi devo organizzare perché non è che ogni giorno mi posso fare mezz’ora di macchina andata e ritorno; se devo farmi arrivare un pacco devo capire se il corriere può arrivare alla foresteria dove vivo o devo dargli l’indirizzo del bar; se devo andare alle poste sono aperte solo due giorni a settimana; se devo fare un corso devo muovermi in città; sono tutte cose che devi mettere a bilancio quando scegli di fare questa vita. Ah qui poi il telefono non prende”. (Di quest’ultimo disagio posso confermare personalmente).
Arrivato all’uscita di Tornimparte intanto sta nevicando. L’autostrada è già tutta bianca. A Roma avevo lasciato un sole che prometteva primavera. La città è sempre avanti. Invece qua niente di nuovo, nell’appennino profondo.
L’Aquila vista dall’autostrada è un bozzolo di nebbia da cui spuntano le gru. Da lontano coi loro colori pastello rassicuranti sembrano ricostruire la città da sole in un gesto di buon cuore. Ma fanno pensare anche un po’ ai grandi bracci meccanici di Matrix che coltivano i feti umani. Alla fine non so scegliere tra il riferimento da Pixar o il postapocalittico e li lascio tutti e due. L’autobus ferma davanti al vecchio hotel Amiternum che ha il nome dell’antica città sabina morta per spopolamento dopo la nascita dell’Aquila. Scendo e mi avvio sotto la pioggia verso la stazione.
Anche Virginia Stammitti è nata in Abruzzo, a Tagliacozzo, e come per quasi tutti quelli che nascono in un paese l’università è la prima occasione per scappare dall’insofferenza di abitare ai margini. Si è laureata in architettura a Roma dove ha scoperto che “l’approccio accademico era estremamente focalizzato più sulla forma e sulla tecnica che sull’aspetto umano” e mi racconta di aver passato quegli anni a “disegnare dettagli in scala 1 a 5 di materiali che non avevo mai visto, né toccato”.
Decide così di andare all’estero, a Bruxelles, dove segue un master di due anni in cui gli studi di architettura si mescolano all’antropologia urbana. Con l’occasione dell’Erasmus va a Cuba dove segue un progetto di ricerca per rivalorizzare il patrimonio storico di alcuni portici cittadini. Dopo una serie di interviste sul campo, infatti, si rende conto che “in realtà quei portici erano super vivi, ogni persona che li abitava o che aveva la bottega nell’edificio in qualche modo se ne era appropriata. C’era già l’officina delle bici, la bancarella della frutta o lo spazio dove si riunivano le signore per chiacchierare. Quelle cose erano abusive ma erano un modo di vivere quello spazio su cui si basava l’economia e la socialità di tutto il quartiere”. Come mi aveva già detto all’inizio dell’intervista, l’architettura guarda sempre dall’alto e da lassù le persone sono insignificanti rispetto agli agli edifici. Lo definisce oggi “il classico approccio occidentale in tre punti: ristrutturiamo tutto, ripuliamo tutto, museifichiamo la strada”. Così prende una decisione di rottura: “Io semplicemente non ho voluto presentare un progetto di ristrutturazione. Ho concluso la mia ricerca facendo un’analisi antropologica secondo cui dal mio punto di vista il patrimonio da preservare era quello umano e sociale, che si era creato appropriandosi in autonomia di quelle strutture”.
L’anno successivo parte di nuovo con il progetto Erasmus per Siviglia, dove lavora al suo progetto di tesi. Qui entra in contatto con Recetas Urbanas, un collettivo di architetti che sperimenta l’autocostruzione partecipata nel contesto urbano. Mi racconta di un momento di svolta nel suo percorso durante il cantiere di costruzione della Sin Miedo (senza paura), uno spazio di mutuo aiuto per le donne del quartiere. “Gli architetti del collettivo avevano capito che avevo gli strumenti tecnici per leggere i disegni e la manualità per costruire le cose e quindi mi avevano affidato tutto il gruppo. Spesso ero da sola a dirigere il cantiere, ed ero incredula: perché funzionava! In quel momento vedevo per la prima volta che il cantiere funziona quando ogni persona se ne sente parte. Se tu hai gli strumenti, non ti devi preoccupare di costruire qualcosa, devi preoccuparti di dare quegli strumenti a più persone possibile di modo che ognuno sia in grado di trasmetterli a sua volta. Si genera così un processo che è molto potente”.
E’ in questo piccolo quartiere di Siviglia, Barrio San Luis, che trova l’innesco per il suo progetto di tesi: un centro sociale molto attivo che il comune ha appena sgomberato per vendere lo stabile ad una banca. “Sono stata a Siviglia tra il 2015 e il 2016 e c‘era un grande movimento di lotta per la casa, molti edifici erano occupati ma contemporaneamente avevano da poco costruito le Setas in Plaza de la Encarnacion [una grande struttura a pergola in legno e cemento che funge sia da parasole che da belvedere, diventata negli ultimi anni il simbolo turistico della città, n.d.r.] che aveva dato il via al boom turistico. Proprio mentre ero lì era iniziata la gentrificazione e tutti i miei amici continuavano a raccontarmi di questo centro sociale molto attivo nel quartiere che era appena stato sgomberato”. Decide così di impostare anche il progetto per la sua tesi di laurea – come aveva fatto lavorando con il collettivo Recetas Urbanas – con un impianto antropologico. Questo le avrebbe permesso di descrivere i rapporti complessi in cui si intrecciavano gentrificazione e turisticizzazione della città con le istanze di lotta abitativa. “Mi dovevo pur sempre laureare in architettura, quindi dovevo proporre un progetto architettonico. Ho deciso di proporre il restauro del centro sociale con un progetto di autocostruzione partecipata. Lo stabile però, dopo lo sgombero, era praticamente blindato ed entrarci era impossibile. Così ho chiesto a tutti i miei amici e ai loro conoscenti di disegnare la pianta di quel posto in base a quello che ricordavano e alle attività che avevano svolto lì dentro. Qua c’era la cucina, qui i giochi dei bambini, qua invece il giardino dove si faceva yoga. Non ce n’era uno uguale all’altro, ma a me ovviamente non interessava l’esattezza delle planimetrie, per quelle bastava andare su Google Maps, mi interessava invece il tipo di dinamiche sociali che si erano create, l’appropriazione umana dello spazio”.
Anche questa volta la sua visione finisce per scontrarsi con quella accademica: “Il progetto ovviamente non era realizzabile, ma per me aveva una grande valenza politica. Quando però torno a Bruxelles per discutere la tesi con la commissione di architetti super fighi da Londra o Copenhagen, mi dicono mi dispiace ma questa non è una tesi di architettura. Ovviamente avevano capito che quella tesi era contro di loro. Alla fine sono riuscita a laurearmi grazie al voto del mio professore che per fortuna aveva apprezzato il mio progetto e che mi alzava un po’ la media. Questo per farti capire che all’interno di tutto il sistema non c’è una minima idea etica. Tu gli parli di diritto alla casa e loro ti dicono: ma io sono architetto, che c’entro io col diritto alla casa!”.
Le contraddizioni del mondo si incistano nelle cose più piccole. La stazione dell’Aquila è appena stata restaurata e ora è un perfetto spazio liminale grigio ottimamente illuminato dalle luci fredde dei led, appena fuori ci sono le novantanove cannelle, il simbolo medievale della città. Pochi sanno che c’è una stazione a L’Aquila perché i pochi treni che ci passano portano in pochissime direzioni. Dei controllori in pausa stanno svapando fuori dall’entrata principale. Arriva un ragazzo asiatico in motorino con due sacchetti di carta del McDonald e i due si rintanano in una stanza di servizio. Cerco il bar della stazione per prendere un caffè e appena entro sento suonare la canzone dei Buffalo Springfield – quella più famosa – there’s something happening here but what it is ain’t exactly clear. Lo prendo come un commento sonoro diegetico al mio reportage o tutt’al più un minimo segno di buona sorte e chiedo indicazioni per il bagno. Il bar non ce l’ha un bagno, ci sono solo quelli pubblici della stazione che sono a pagamento ma quando ci arrivo la macchinetta è rotta, la porta scorrevole a vetri si apre senza rimostranze. Sono straordinariamente puliti ma evidentemente non c’è nessuno per sporcarli. La stazione è vuota. Appena esco sui binari arrivano due treni da un solo vagone, uno va a Terni, l’altro non si capisce, ha stampato sulla fiancata una vecchia pubblicità del Parco Nazionale d’Abruzzo e il suo nome è Aquilotto. Sul mio treno per Molina – uno Swing, di quelli per le tratte ad alta frequentazione, dalla livrea blu – ci sono gli schermi che ti fanno seguire il percorso sulla mappa: welcome aboard, titolano a intermittenza.
Finita l’esperienza a Bruxelles, Virginia mi racconta del classico periodo depressivo post-laurea che ormai è diventato un passaggio obbligato della nostra generazione (lei è del ’90, ha due anni più di me). Crollata definitivamente la speranza che un percorso di studi possa garantirci una funzione sociale che ci soddisfi, in quel momento dobbiamo rimettere in discussione tutti i rapporti che ci legano alla società, demolirli, riprogettarli, ricostruirli o almeno restaurarli.
“Quando costruivo con le donne della Sin Miedo e loro erano felici perché avevano avvitato una trave di tre metri da sole mi dicevo: è proprio questo quello che voglio fare. Ma il master era finito e il mio professore mi aveva proposto un dottorato di ricerca. Tutti i miei amici si erano laureati e inviavano curricula in giro per l’Europa. Io con il dottorato mi sentivo molto scomoda perché fondamentalmente avrei dovuto parlare di persone che a Siviglia stavano perdendo la casa per produrre degli articoli che avrebbero letto soltanto accademici. Era una cosa così autoreferenziale e fatta sulla pelle di quelle persone a cui non sarebbe tornato mai niente. Ero a terra, mi sentivo solo ferita e delusa. Così mi sono trasferita a Napoli e ho lavorato per un anno e mezzo in un bar. Non volevo saperne più nulla.”
Virginia era stata a Napoli nel 2017, lo stesso anno in cui mi ero trasferito lì anche io per seguire un master. Ci conoscevamo già da qualche anno – lei era finita per varie vicissitudine a vivere qualche mese sul divano del mio soggiorno, nella casa che condividevo in affitto a Bologna. In quel periodo avevamo avuto l’occasione di conoscerci meglio, scavare nelle nostre reciproche frustrazioni esistenziali e lasciarci trascinare in quel vortice di meravigliosa umanità che è Napoli. Lo sa che mi ricordo bene: “Quello anche è stato un altro Erasmus. Il nostro Erasmus”.
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