Nuovi esercizi di potere – Editoriale

Nuovi esercizi di potere – Editoriale
Immagine generata da Francesco D'Isa per l'editoriale di Stanca "Nuovi Esercizi di Potere"
[Tempo di lettura: 6 pignalenti]

In Exponential: How Accelerating Technology Is Leaving Us Behind and What to Do About It (2021), Azeem Azhar parla di exponential gap riferendosi al vuoto sempre più grande tra le opportunità abilitate dalle nuove tecnologie e la conoscenza, quindi la comprensione, che la società intera possiede dell’innovazione tecnologica stessa.

E’ da questo gap, da un vuoto, che nasce la necessità di concentrare il secondo numero di Stanca sul rapporto con gli strumenti della contemporaneità, sul controllo che abbiamo su questi ultimi e in che misura quello che riposa nella zona grigia dell’incompreso possa divenire un attore in grado di esercitare a sua volta potere su di noi.

Trovarsi a ragionare sulla tecnologia senza i mezzi concettuali che ci fornisce il mondo accademico genera una notevole inquietudine. Questa sensazione è predominante quando, una volta percepita la potenza esponenziale dell’innovazione degli strumenti che abbiamo creato, ci si sofferma a riflettere sulle conseguenze che un simile potere potrebbe avere se fosse sotto il controllo altrui o se fosse capace di agire da sé.

Nel suo libro Azhar si riferiva in particolar modo alle innovazioni digitali, ma il discorso è facilmente estendibile a tutti gli strumenti complessi – quindi comprensibili solo attraverso uno studio specialistico – che utilizziamo nella quotidianità e che la caratterizzano indiscutibilmente oggi rispetto al passato.

Il primo quesito lo pone Francesco D’Isa in un’intervista di Fabio Ciancone ed è: abbiamo paura di perdere il controllo sugli strumenti, dando per scontato di doverlo mantenere in una relazione di dominio. E’ davvero il modo migliore per beneficiare del nostro rapporto con la tecnologia?
Da qualche anno Francesco D’Isa è impegnato in questo dibattito, in particolare sul tema dell’autorialità:  “l’autore è una delle tante concause che portano alla nascita delle opere, senz’altro una delle più importanti ma forse non la più importante di tutte. Il processo collettivo di creazione di un’opera è stato completamente dimenticato dagli artisti occidentali” racconta a Ciancone, per poi soffermarsi a illustrare in maniera accurata e incredibilmente chiara l’arte di creare un prompt interessante e gli universi immaginifici da evitare perché “la maggior parte delle immagini che l’IA ha ‘mangiato’ sono delle pataccate”.

D’Isa è anche l’autore – insieme al software che ha usato – dell’immagine in copertina di questo editoriale, per questo lo ringraziamo.

Ispirati da questa esperienza, abbiamo deciso di provare anche noi a farci affiancare dalle IA per generare le immagini che compongono questo numero tematico di Stanca. Ovviamente, non avendo nessun esperto scrittore di prompt in redazione, i risultati sono lontani anni luce da essere scambiati per opere d’arte. Dialogare con una forma di intelligenza non umana per ottenere un risultato significa imparare a conoscerla, capire come pensa, osservarla agire con attenzione aspirando a comprenderla. Non basta darle ordini.

Rispetto alle tecnologie digitali e alla questione dell’inquietudine che comporta la loro potenza esponenziale, Giovanni Padua scrive Immaginazione algoritmica, in cui indaga le modalità tramite le quali le sequenze intelligenti pensano. Queste modalità a volte – quando escono dai parametri di prevedibilità dei criteri di logica umani – vengono descritte come anomalie, ma non lo sono: “l’autonomia [degli algoritmi] che la scienza del calcolo interpreta come errore o fraintendimento nel processo di esecuzione è invece lo smog intelligente prodotto da una nuova forma di organizzazione”.
Per spiegare meglio questo punto di vista, si ripercorre la nozione di soft thought derivante dagli studi di Luciana Parisi, direttrice della Digital Culture Unit e docente alla Goldsmith University di Londra. Il pensiero morbido è una modalità di pensiero che “prescinde dalla sensazione e dalla percezione fisica, fa a meno del corpo, perché non dipende dall’interazione tra cervello e ambiente” ma si tratta piuttosto di un punto di contatto tra esperienza e conoscenza “qualcosa di simile ad un’affettività che nel suo relazionarsi ai dati li soffre, ne viene modificata e contagiata”. Gli algoritmi non compiono l’azione di pensare, sono già pensiero.

Immaginare i modi in cui le nuove tecnologie agiscono o potrebbero agire fa paura non soltanto perché sono fuori dal nostro controllo, ma anche perché ci troviamo molto spesso privati della conoscenza necessaria per amministrare il rapporto individuale che abbiamo con gli strumenti moderni, e non solo con quelli digitali.

A tal proposito, in Chi decide sui corpi?, Silvia Contini recensisce Gender Tech di Laura Tripaldi e si sofferma sulle tecnologie che ci vengono imposte come sussidio nella gestione della sfera riproduttiva e del controllo dei corpi più in generale. “L’ecografia, la pillola anticoncezionale, il test di gravidanza e le app di period tracking sono tecnologie che in epoca moderna si interfacciano quotidianamente con i corpi femminili,  spesso in modo più invasivo di quanto comunemente è percepito” la posizione di Contini in questo racconto della sua esperienza, prima di donna e poi di lettrice, è fisica e politica:  “Gender Tech ha contribuito [per me] a picconare il muro delle grandi certezze dell’educazione borghese, ha minato alla base il monolite della scienza e della medicina […]. La prevedibilità di una reazione chimica e la misurabilità di componenti, procedimenti e risultati non rendono la scienza un sapere oggettivo, non lo rendono insuscettibile a volontà, indirizzi ed esercizi di potere” quindi la consapevolezza su come funzionano i corpi e come questi si comportano quando sono sottoposti alle nuove tecnologie diventa un sapere necessario, irrinunciabile e sacro.

Anche Vittoria Brachi sceglie di accompagnarci in una riflessione che potrebbe mettere in discussione la nostra abitudine nel pensarci liberi. Riprendendo la vicenda narrata in November – film del 2004 di Hito Steyerl – Brachi si domanda se, in un mondo in cui la nostra immagine sopravvive alla nostra morte, siamo ancora liberi di morire.
Andrea Wolf è una sociologa tedesca – amica d’infanzia della regista Hito Steyerl – e cade in battaglia dopo essersi unita all’esercito curdo presumibilmente nel 1998, ma per le autorità tedesche e per la Turchia Wolf è ancora viva: la sua immagine registrata dalle telecamere di sorveglianza verrà usata a lungo dal governo turco per denunciare le attività del PKK al confine. “Come dovrebbero sparire le persone nell’epoca della totale supervisione?” si chiede Steyerl in November, Brachi in La resistenza migrante dell’immagine e ce lo chiediamo anche noi in questo editoriale dinanzi a un rapporto tra potere e strumenti tecnologici ambiguo, le cui specificità restano confuse persino per chi decide di volerne tenere le redini, ritrovandosi a giocare una partita per la quale non esistono regole definite tra le quali destreggiarsi per vincere.

La dinamica di dominio dell’innovazione da parte dell’uomo, con la conseguente paura che la perdita di controllo genera, non è l’unico modo per avere a che fare con le tecnologie.

La relazione con i nuovi strumenti, con la loro potenza, può essere anche di collaborazione pura e profonda. Lo anticipava Francesco D’Isa riflettendo con Fabio Ciancone sulle IA generative e l’argomento torna ancora più prorompente nell’intervista che Franco Cimei ha fatto per Stanca a Giulia Tomasello, interaction designer specializzata in biomateriali e wearable computing – ovvero la ‘tecnologia indossabile’.
“Il nostro corpo è formato da una metà di microrganismi e una metà di cellule umane” praticamente il nostro corpo è umano solo a metà, “il concetto di biofilia sta proprio a testimoniare la loro presenza e la costante relazione che abbiamo con loro”.  In questo scenario, solo la tecnologia può aiutarci a migliorare l’ “affinità che abbiamo noi come creature umane, con gli animali, con gli altri organismi, con la natura” e può farlo solo entrando in relazione con tutto questo. L’esperienza di Tomasello è intrigante e allo stesso tempo rilassante, quando la complessità tecnologica diventa terreno fertile per la sperimentazione e la curiosità più istintiva quel pesante senso di inquietudine sembra abbandonarci per un po’:“noi tutti abbiamo imparato [durante l’epidemia di covid-19] a utilizzare i test per capire se eravamo positivi o no” abbiamo “portato fuori [un PCR] dal laboratorio e si è fatto in casa” , “dall’analisi del sangue, all’urinocoltura – esistono già delle striscette per farsela da soli – tutto potrebbe essere così”.

Anche dichiarando che tutto è possibile, come testimonia la pratica del biohacking, rimane un senso di frustrazione nel constatare che non ci è permesso che tutto sia veramente accessibile. Il capitalismo tende a incorporare la scienza per piegarla ai fini della produzione, diceva Marx nell’800, e oggi i meccanismi con i quali si amministra il potere non sono cambiati più di tanto. A essere cambiato è il potere esponenziale che hanno questi strumenti e destinare la conoscenza utile a riempire il più possibile l’exponential gap solo a pochi è l’esercizio di potere – umano – più vecchio di sempre.

Quest’ultima considerazione ci riporta in un mondo sconsolato, dove l’inquietudine subito si riesuma. A metà tra il reportage e la recensione, Alice Sagrati descrive Un loop liminale che centra emotivamente la sensazione che ci accompagna. La storia di Angela – la protagonista dell’ultimo spettacolo di Susanne Kennedy e Markus Selg proposto dal Roma Europa Festival – viene presentata creando “subito una frammentazione tra voce e corpo, tra identità e rappresentazione”, quello che vediamo non è reale ma è “al massimo una replica del reale, fatta di interviste e rielaborazioni”. 

“Lo spazio […] più delle parole che ascoltiamo, sembra essere una soglia” questo spazio, che Sagrati intravede nelle suggestioni scaturite da uno spettacolo in scena al Teatro Argentina, somiglia incredibilmente allo scarto di cui parlava Azhar. All’improvviso, la soglia dello spettatore diventa la soglia alla quale affacciarsi sul vuoto lasciato dall’exponential gap. Come noi, Angela soffre perché non riesce a orientarsi in uno spazio che somiglia alla realtà ma non è del tutto comprensibile, dove le regole del conosciuto non bastano. “[Oggi] le combinazioni diventano infinite ed è forse proprio questo che fa entrare in loop Angela: l’incapacità di superare la soglia delle possibilità” Angela è sommersa, proprio come noi. E “noi, come spettatori, possiamo solo guardare e farci qualche domanda”.

Ci rimangono tra le mani mezzi arcaici con i quali provare a navigare a vista nel complicato oceano della tecnologia odierna: la contemplazione, la riflessione, lo studio attento dei fenomeni che gli strumenti contemporanei si portano dietro e le relazioni di potere che instaurano attorno a loro.

Questi nuovi esercizi di potere sono la conseguenza naturale del progresso. Ritrovarci sperduti e impauriti al loro cospetto è causato dalla fatica che stiamo facendo nello stabilire abitualmente e contestualmente parametri educativi e divulgativi, etici, che ci accompagnino in maniera meno randomica e più consapevole alla comprensione delle dinamiche nascoste dietro al ‘magico’ funzionamento delle nuove tecnologie.

Condividi: