Fare sesso – Editoriale

Fare sesso – Editoriale
Illustrazione di Annachiara Mezzanini, Arianna+Asterione+Annachiara, 2023
[Tempo di lettura: 6 pignalenti]

Le vacanze mi lasciano sempre una sensazione di svuotamento, troppo relax alla lunga mi sfianca. Cade a pennello, pertanto, il fatto che io sia stato incaricato di buttare giù l’editoriale per presentare la prima fatica di Stanca. Se dovessi descrivere la rivista con un’immagine, sceglierei un parassita dei momenti d’evasione, una rivista che intende appesantire con leggerezza la noia. Ogni mese un nuovo tema verrà squadernato secondo quattro assi: interviste, racconti brevi, reportage e longform, perché è più semplice così. Sarebbe stancante mantenere una linea editoriale rigida. “Il primo numero è sul sesso, anzi, ‘sul fare sesso’”. Così abbiamo stabilito.

Niente mi stanca più del sesso, o meglio dell’idea del sesso come performance, tipica del regime liberista post ‘68. A prescindere dalle conoscenze acquisite e per quanto possiamo lavorare sulla nostra autocoscienza, il nostro corpo è disciplinato e “fottuto” continuamente dal riflesso dell’etica dominante, per questo la nostra idea di sesso il più delle volte si distanzia dal modo in cui lo facciamo. Il mercato ci ha donato una sessualità preconfenzionata, divisa nelle categorie dei siti pornografici, i luoghi di una fantasmagoria dove l’esplorazione della sessualità si converte in un dispositivo normalizzante: la palestra in cui alleniamo i quadricipiti della cultura dello stupro.

Penso che il sesso di plastica che figura nelle prodezze rough di attori come Rocco Siffredi sia mille volte più violento delle aberrazioni che è possibile trovare nelle opere del Marchese De Sade. Sono però due tipologie diverse di violenza: l’estetizzazione della violenza in Siffredi è una fantasia che serve a normalizzare un rapporto di potere che vediamo tutti i giorni nelle relazioni in cui siamo immersi, per il Marchese è in gioco un uso critico, parodistico della violenza, che come il gore e lo splatter spinge la realtà ai suoi limiti e trasforma le derive psichiche della sessualità in un manuale per carpire il funzionamento della società secolare.

De Sade è stato interpretato male. Gli architetti del nostro panorama culturale lo hanno preso alla lettera e l’orrore che proviamo leggendolo è la luce riflessa di un’epoca che ci trasforma in oggetti di godimento per l’Altro, un tempo in cui non ci rechiamo al sacrificio social senza prima esserci lustrati e oliati come i cazzi dei pornoattori in erezione, sperando di soddisfare gli avventori delle nostre storie Instagram, che diventano i fantasmi delle nostre madri coccodrillo.

Per Alice Scornajenghi, l’autrice di Atti Puri (Nero 2023), intervistata per Stanca da Fabio Ciancone, De Sade è un modello letterario nella misura in cui scrittori erotici come lui “non si tirano indietro di fronte a niente”, perché il loro è “uno sguardo che non ha paura di posarsi su nulla” e “non si censura mai”. Il porno di Siffredi non è esplicito, ma censura subliminale, una didattica di natura quasi istituzionale. Fare sesso; vedere altri fare sesso; recitare o documentare l’atto sessuale e scrivere di sesso: in quale di queste situazioni siamo più frenati? Quale di questi atti è emancipatore?

Con l’occhio mentale scorgo la protagonista di Amen, il racconto di Velvet Sirena con cui ho inaugurato la lettura della bozza di Stanca. È seduta tra i banchi della chiesa, spettatrice inespressiva di un funerale, mentre osserva Luca qualche banco più in là. Fantastica sui modi in cui potrebbe essere presa dal ragazzo e si scopre incapace di esprimere un dolore che pure sente. La sua psicologa le ha detto “che è una sorta di reazione allergica al dolore”. “Invece che grattarmi la pelle, finisco per sentire un calore sempre più forte in mezzo alle mie gambe fini”. L’epilogo della storia mi ricorda quante volte mi sono rifugiato nel buio delle camere che ho adibito a piccoli nidi, per ritrovare in me ciò che gli altri non potevano darmi. Scosse di piacere vanno a sostituirsi alle lacrime e alla loro reticenza. Un orgasmo in luogo della paura, un gemito a suggello di un dolore inespresso.

Chiudo il file e mi getto a capofitto su Il gioco della bottiglia, di Maria Giardina. Vengo pian piano introdotto ad un rito di passaggio, parte della mitologia delle impellenze ormonali che precedono la prima volta, il superamento dei recinti mentali che ci impediscono di diventare cosmonauti della nostra sessualità. Uno schifoso bacio immaginario riporta la mente della narratrice “a un non tanto rimosso ricordo d’infanzia”, il gioco che dà il titolo al racconto, quando il fratello di una sua compagnetta di pallavolo la sbava “in un aborto di bacio a stampo”, per poi accusarla di averlo costretto “a questo prematuro incontro di corpi”.

Il sesso immaginato, l’idea del sesso imposta dalle consuetudini e dalle norme e poi il sesso vero, tragicomico e persino buffo, diventano i tre assi di una sperimentazione mentale che rivela la funzione del maschio come mera appendice di un gioco più grande di lui, una partita in cui il piacere femminile sovrasta l’ego del pene eretto, puntando alle profondità di uno spazio inaccessibile al male gaze.

Il conflitto tra materialismo e teodicea nel Gioco della Bottiglia mi trasportano verso Che fine ha fatto l’Atomica? di Franco Cimei, il resoconto della proiezione del documentario Atomic wednesday di Morgana Mayer. Un biopic su Luigi Zanuso, regista pornografico ultra prolifico della fine dei ‘90, ribattezzato “L’Atomico” dalla sua musa, il suo doppio attoriale, l’Atomica, una procace ninfomane. È la testimonianza di una pornografia che cercava di farsi espressione veritiera delle innocenti e brutali perversioni delle donne e degli uomini figli di una trasgressione che voleva divenire norma.

Anche io vorrei scoprire se appartengo ai “veri porconi” e penso, come l’autore, “al mio rapporto con la pornografia, al caleidoscopio di video online”, alle “piscine e i lounge di Los Angeles”, alle “erezioni instancabili” e ai “corpi femminili imbottiti di protesi”. Il lavoro di Zanuso possiede “quell’aria di gioiosa rivolta surreale in ogni fotogramma” e mi domando con l’autore se il suo erotismo trash “poteva essere (…) lo strumento per scardinare simbolicamente la società dal suo arido decoro moralizzante”.

Per Monica Stambrini, una delle registe appartenenti alle Ragazze del Porno, intervistata per Stanca da Sofia Carlotto, “il bello del porno è che può essere tutto” e “dire porno è come dire letteratura”, ma, tra la marea di varietà e generi, rimane il fatto che come scrive Carlotto “il porno conserva ancora, nonostante le sperimentazioni sempre più presenti, uno sguardo prettamente maschile: è l’uomo che deve essere soddisfatto, la donna è relegata ad oggetto dello sguardo invece che soggetto desiderante”.

Il nostro corpo è come un laptop, un progressivo analfabetismo lo ha ridotto da macchina prodigiosa a strumento di rafforzamento di abitudini consolidate e in questo modo la sua polifunzionalità viene castrata. Il corpo, una suprema macchina del piacere, è ormai un dispositivo di consumo anche quando gode. Per questo sento un brivido, più che quando faccio sesso, quando la mia mente corre a De Sade e ad un’epoca in cui la morale protestante non aveva ancora trasformato le inclinazioni sessuali in nicchie di mercato.

Pornhub non è un luogo di trasgressione, è un dispositivo di sicurezza che normalizza l’orgasmo, la frusta della morale che ci impone di godere da soli, mentre siamo separati e connessi solo a ciò che riteniamo la nostra fantasia ma è in realtà il nucleo ideologico del mercato controllato da G.A.M.A.M (Google, Amazon, Meta, Apple e Microsoft). Dopotutto, il menage-a-trois che lega il nostro desiderio alle fantasie eteronormative dei porno mediante uno schermo, è il modo in cui tentiamo di colmare Il vuoto – il titolo del terzo racconto scritto da Fabio Ciancone.

Alla lettura del racconto ho sentito una sensazione sgradevole, visualizzando Luca, che palpa Marta e la bacia, ma immagina “Bianca da sola nel suo letto”, eccitato da quella “desolazione”, da quella solitudine, da “quell’atto mancato della sera prima”. Luca si apre “al vuoto, pensava al silenzio della sua stanza in cui Bianca era da sola, idealmente a masturbarsi pensando a un altro”. Fare sesso è un rito perturbante, dove il principio di realtà squarcia la nostra fantasia e ci costringe ad un incontro organico con il prossimo anche quando non è di nostro gradimento. Facendo sesso ci si connette o viceversa ci si allontana, la sessualità può produrre solitudine così come relazioni.

A tal proposito, in Consolarsi con l’idea della sopravvivenza, Federica Ranocchia illustra una semplice verità: come nell’esperimento Universo 25 descritto dal pezzo una volta “venuta meno la necessità di sopravvivenza della specie”, perde “valore anche la componente riproduttiva del gruppo”. Poco importa che si tratti di insetti, roditori o primati umani. Quando la cultura migliora l’ambiente, quest’ultimo sembra diventare indistinguibile da un carcere. Il benessere porta all’atomizzazione, e il sesso sembra destinato a scomparire nel nostro futuro digitale. A dispetto dei conservatori pro-life, la sessualità non è costituita da impulsi naturali, da leggi immutabili; piuttosto, è un intreccio di diversi fattori socio-economici che si evolve con il progresso della tecnologia. Dovremmo escludere l’istinto dall’ambito sessuale e iniziare a pensare ed educare al sesso come ad un laboratorio sperimentale per costruire legami non alienati.

Per capire la natura sotterranea della nostra sessualità bisogna prendere atto dell’esistenza di un desiderio diffuso di sottomissione che Francesca Martelli in Il kink dei rapporti di potere, attraverso la sua esplorazione delle tecnologie di genere radicale, riconduce ad un motivo teologico. Dio, o meglio la sua assenza, è il vero rimosso del discorso pubblico e privato sul sesso, i kink di sottomissione cercano di riempire la sua assenza, permettono alla nostra psiche di metabolizzare la realtà di un potere solo umano, non più trascendente. Per questo è “più facile incontrare una persona disposta a sottomettersi che una che desidera dominare”, il “non poter più cedere la responsabilità delle nostre vite a una entità superiore è un accollo enorme” al punto che “molti di noi ne farebbero a meno” e sono disposti ad abbandonarsi all’Altro e ai suoi desideri mortiferi.

Mi rimangono in testa queste parole: dolore, gioco, sostituzione, porno, aridità, controllo e immaginazione. Scrivere di sesso per ottenere “il superamento della vergogna che nasce dallo sguardo altrui”, come afferma Scornajenghi, è un passo verso l’emancipazione dal lutto provocato dall’assenza di un Master divino. Quando scrivo, o quando leggo, sono vuoto e pieno, come dopo un’abbuffata o una scopata mi ritiro stanco ma soddisfatto, un ex umano che odia i vestiti, convinto di scorgere il disegno di una profanazione ventura che potrò assaporare meglio la prossima volta che “farò sesso”.

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